A proposito di una conversazione molto stimolante che ho avuto con Silvia Treves nella sede della libreria CS a Torino. L'occasione era la presentazione del mio libro Lei coltiva fiori bianchi, pubblicato dalla CS_libri, e Silvia ha fatto del suo meglio (che è molto!) per indurmi a dare risposte sensate alle sue domande. Le risposte non contano, ma le domande hanno continuato a girarmi in testa e farmi riflettere. Mi hanno fatto prendere atto che io penso molto a quello che sto scrivendo, ma pochissimo a quello che ho scritto. E' come se una storia, una volta scritta, per me fosse in se stessa la risposta. Perciò posso sembrare reticente o obliqua, ma in realtà sono solo poco capace di astrazione, di concettualizzazione. Mi fermo al fatto. Comunque, importante è che Silvia mi ha chiesto delle cose che io non sapevo a proposito dei personaggi. Davvero, come è già successo con Silvia in altre occasioni e anche con altre persone con cui ho avuto colloqui a proposito dei miei libri, io non vedo molto dentro ai personaggi al di là di quello che ci ho messo. Infatti mi incuriosisce sempre molto sentire gli scrittori che parlano delle loro creature, e spesso mi stupisco di come sono sicuri – "*** è una così e cosà, °°° invece è molto cosà e così" anche a proposito di aspetti che non c'entrano con la vicenda, aspetti che implicano un'intimità con il personaggio invidiabile. Io non ci riesco, come non ci riesco con le persone che pure conosco bene. Mi ricordo che questo era un problema che mi si poneva spesso, quando avevo l'età in cui ci si pone questo tipo di problemi. Dicevo di un'amica, per esempio: lei è curiosa, va sempre a fondo nelle questioni. Come l'avevo detto, mi veniva un dubbio: ma davvero è curiosa? se l'ho vista curiosare una volta, questo vuol dire che è curiosa sempre? Ecc ecc, per fortuna che quell'età è passata e mi faccio meno trip. Però con i mei personaggi non posso proprio dire più di quello che c'è sulla pagina. Cioè, li vedo agire, in genere capisco i motivi delle loro azioni, ma non vado a fondo, non scavo troppo, per me agiscono nell'unico modo in cui possono agire in quanto sono quel personaggio in quel determinato contesto, non hanno alternativa. Ci ho pensato in questi giorni leggendo il romanzo di Ann Tyler Ragazza in un giardino (appena pubblicato da Guanda, ma l'edizione originale è del 1972). La protagonista, Elizabeth, è una di pochissime parole, capace di comportamenti abbastanza inaspettati, in apparenza anche un po' torpida, o comunque una che si tiene per sé i propri pensieri. Chissà, pensavo, che cosa c'è dietro la costruzione di questo personaggio. Chissà se la Tyler prima l'ha pensato, l'ha costruito, poi lo ha fatto agire secondo gli input iniziali. Oppure se (come avrei fatto io) ha costruito un ambiente e poi l'ha lasciato libero di muoversi, l'ha seguito, ha registrato le sue azioni. I romanzi della Tyler hanno sempre una naturalezza e un'apparente semplicità che non fa mai pensare a un eccesso di costruzione, ma of course questo non è un motivo perché siano semplici e naturali, anzi.
Be', questo è uno dei pensieri che la chiacchierata con Silvia mi ha suscitato. Ce ne sono altri, e ne riparlerò.
"Il sentimento è reciproco" come dice Inga a Frankenstein Jr. Cioè la conversazione è stata molto stimolante anche per me. E mi ha fatto riflettere su come leggo, oltre che su come scrivo.
RispondiEliminaInnanzitutto, adoro i personaggi che mi spiazzano, proprio come fanno le persone reali, troppo complesse e ambigue (in senso positivo) per essere definibili con pochi aggettivi. In questo senso i tuoi personaggi vanno benissimo!
Poi, durante la nostra conversazione, proprio come io cercavo di "tirare dentro" te, tu hai "tirato dentro" me e con un bellissimo affondo!
Hai sottolineato che, mentre dichiaravo di identificarmi con un tuo personaggio che nel libro faceva scelte di vita esattamente opposte alle mie non mi riusciva di identificarmi con l'altro personaggio che viveva, con le dovute differenze, una vita molto più simile alla mia.
Semplicemente e umanamente contraddittorio, oppure significativo dell'esperienza del leggere? Me lo sono chiesto per diversi giorni…
Non ho trovato una risposta univoca, ovviamente, ma mi pare una buona cosa. E' grandioso che un lettore possa riconoscersi - vivendo una vita di carta - in un'esistenza che non ha scelto o non ha potuto scegliere, o che magari ha evitato soltanto per caso, per fortuna…
Insomma, leggere (e scrivere) serve anche a riconoscere, ad ammettere aspetti di sé ai quali per qualche ragione non si è dato spazio.
Ah certo, per fortuna che ci si può riconoscere in chi non ci assomiglia nenche di lontano e di sguincio, per questo (anche) si legge, io almeno di sicuro. Io infatti non intendevo dire che tu dovessi identificarti nel personaggio dalle scelte più "simili" alle tue, se ricordi si stava parlando del futuro dei personaggi, e io ho detto che tu non avresti potuto avere un futuro come quello di Gloria, la donna dalle scelte opposte, semplicemente perché il tuo passato era diverso. Cioè si ritorna alla costruzione dei personaggi: se tu fossi uno dei miei personaggi non avrei potuto affibiarti il futuro di Gloria perché mancavano le premesse. Poi è ovvio che questo discorso ha dei limiti grossi come una casa, in quanto certe volte è proprio scompaginando le premesse che si ottengono effetti interessanti. Insomma, teorizzare è bello ma poi si fa quel che si vuole. O si può.
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