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giovedì 11 luglio 2019

Due non recensioni da prendere così: Rachel Cusk, Resoconto, e Dambudzo Marechera, La casa della Fame

 Questa non è una recensione, figurarsi, sono solo alcune osservazioni veloci dopo una lettura che non mi ha entusiasmato. Generalmente se un libro non mi piace passo oltre e non ne parlo, ma in questo caso faccio un’eccezione perché voglio capire io per prima i motivi della mia delusione. Rachel Cusk si porta molto in questo periodo, ha ammiratori a palate, estimatori innamorati, ha le physique du rôle e scrive benissimo. Come non amarla? So che mi farò molti nemici con questo post, ma io non ho affatto amato Resoconto, da cui mi aspettavo molto per le ragioni di cui sopra.
In realtà, a parte l’aspetto interessante, cioè la struttura “sbieca”, in cui un io narrante piuttosto reticente descrive con grande scialo di particolari le persone che incontra in aereo e a Atene durante un viaggio nella capitale greca per tenere un corso di scrittura creativa, ci ho visto più che altro un insopportabile snobismo e una totale mancanza di spontaneità: un compitino da prova finale di scuola di scrittura troppo costruito, dosato con il bilancino, dove non si riesce a credere neanche a una parola. Insomma, ho trovato odiosa lei e i suoi personaggi di cui non sono riuscita a incuriosirmi (naturalmente non poteva mancare quello che picchia le donne e quella che nega l’evidenza). Di Rachel Cusk ho letto solo questo libro ma non ne leggerò altri nemmeno per ricredermi, perché non mi interessa per niente, mi è bastato per capire che non è, come si dice, my cup of tea: in sintesi belle struttura e scrittura, insopportabili contenuto e personaggi. Bella traduzione di Anna Nadotti.

La casa della fame di Dambudzo Marechera è l’opposto. Difficile, molto difficile per il primo terzo, ho fatto una gran fatica a seguirne il senso finché
la scrittura insieme pirotecnica e come costretta, fantasiosa, supercreativa, ricca e complessa, dopo un po’ ha cominciato a chiarirsi e avvolgermi, anzi a abbarbicarmisi addosso e non mi ha più lasciata andare. Dambudzo Marechera racconta le cose più turpi, le peggiori violenze, con lo stesso tono privo di enfasi, ma carico al punto di risultare ipnotico. Fitto di fatti e personaggi, l’ho letto quasi tutto in mare, su un traghetto, e non riuscivo quasi a alzare gli occhi per cercare l’orizzonte. Tragico e nello stesso tempo lieve, il romanzo narra le esperienze di vita di uno studente universitario di famiglia disastrata e povera nella Rhodesia dei tempi di Ian Smith, divisa tra neri e “bianchi di merda”, ingiustizie e violenze, droga e alcol, sesso mai allegro, nessun sentimento, eppure non dà nessuna sensazione di oppressione, perché la vita è così e si può solo rappresentarla. Non è un libro che mi sento di raccomandare a tutti perché bisogna essere disposti al nuovo di un linguaggio supercarico e superimmaginativo, ma chi riesce a lasciarsi andare e affidarsi a Dambudzo Marechera ne uscirà arricchito, e non poco. Tutta la mia ammirazione alla traduttrice Eva Allione.

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