Questo è un libro che affascina immediatamente con la sua doppia anima: è un romanzo con protagonista una figura
eccessiva di donna, e un affettuoso, ammirato tributo alla famosa scrittrice Patricia Highsmith. Leggendolo
ho avuto fortissima la sensazione che anche questa nuova fatica di Margherita Giacobino, così come il precedente Ritratto di famiglia con bambina grassa lo era rispetto alle persone della famiglia dell'autrice,
sia un atto d'amore necessario nei confronti di un personaggio formidabile come
Patricia Highsmith.
L'aspetto letterario non è subordinato all'eccezionalità del personaggio bigger than life, ma prevale l'amorosa, instancabile osservazione della persona. Gli aggettivi che le vengono attribuiti sono piuttosto negativi – misantropa, burbera, avara, scorbutica, egoista ecc ecc – ma nell'uso stesso di questi termini si sente un profondo affetto, un'ammirazione che non si fa scoraggiare da così poco.
La prima sensazione è di un'instabilità che ci fa sentire come su un'asse d'equilibrio. Si passa continuamente dall'interno all'esterno della protagonista, e questo dà un effetto febbrile legato sia alla personalità stessa di Patricia Highsmith (inquieta, lacerata, in continuo interrogarsi sulla contrapposizione tra bene e male, cosciente di essere sempre contro) che alla fortissima scena iniziale: la morte in attesa e gli ultimi febbrili ricordi – pensieri.
I temi sono molto densi e emergono dalla continua riflessione di PH su se stessa, la propria vita, il proprio presente e il proprio passato. Sono tutti legati alla fondamentale coscienza di essere al di fuori di ogni norma: e quindi la ricerca di sé, l'omosessualità, gli amori, e soprattutto, sempre più fondamentale col tempo, la scrittura. Leggendo si ha l'impressione di una matassa difficilissima da dipanare proprio per la sua densità.
L'aspetto letterario non è subordinato all'eccezionalità del personaggio bigger than life, ma prevale l'amorosa, instancabile osservazione della persona. Gli aggettivi che le vengono attribuiti sono piuttosto negativi – misantropa, burbera, avara, scorbutica, egoista ecc ecc – ma nell'uso stesso di questi termini si sente un profondo affetto, un'ammirazione che non si fa scoraggiare da così poco.
La prima sensazione è di un'instabilità che ci fa sentire come su un'asse d'equilibrio. Si passa continuamente dall'interno all'esterno della protagonista, e questo dà un effetto febbrile legato sia alla personalità stessa di Patricia Highsmith (inquieta, lacerata, in continuo interrogarsi sulla contrapposizione tra bene e male, cosciente di essere sempre contro) che alla fortissima scena iniziale: la morte in attesa e gli ultimi febbrili ricordi – pensieri.
La vita della protagonista non è narrata in maniera lineare. C'è come un
procedere generale della vicenda, come gli anni che inesorabilmente avanzano,
ma questo flusso è continuamente interrotto da riflessioni, divagazioni,
affermazioni in cui tutti i personaggi, tranne Patricia Highsmith, sono sbozzati, descritti con
due tre pennellate, e entrano e escono veloci dalla scena tutta occupata da lei.
I
fatti sfuggono, ci vengono forniti a pezzi in un successivo ritorno del ricordo
sull'episodio nella sapientissima tessitura del romanzo che ha struttura
circolare, dalla morte alla morte, e ci dà il significato profondo della
ricchezza e della difficoltà della vita di ognuno, non solo di quella di PH.
Questo ossessivo girare intorno
alla personalità di PH, in cui le varie donne della sua vita, anche quando contano, sono poco più che comparse, crea non tanto, a mio parere, una biografia
romanzata (o un romanzo biografico, non so quale sia la definizione giusta) né una mappa ma un personalissimo ritratto, in cui la scrittrice Margherita Giacobino e la scrittrice Patricia Highsmith si guardano negli occhi, vi si rispecchiano e si riconoscono a vicenda. I temi sono molto densi e emergono dalla continua riflessione di PH su se stessa, la propria vita, il proprio presente e il proprio passato. Sono tutti legati alla fondamentale coscienza di essere al di fuori di ogni norma: e quindi la ricerca di sé, l'omosessualità, gli amori, e soprattutto, sempre più fondamentale col tempo, la scrittura. Leggendo si ha l'impressione di una matassa difficilissima da dipanare proprio per la sua densità.
Le prime pagine sono un pugno nello stomaco, forti e angosciose. PH è davanti alla morte, assistita da una giovane infermiera, Maria, che rappresenta la scrittrice e nello stesso tempo le donne che ha amato, le golden girls che hanno dato senso, gioia e dolore alla sua vita, cioé la gioventù stessa. Da questo incipit così potente prende il via la ricostruzione della vita di Pat (come lei stessa ci dice di chiamarla) che alternando la prima e la terza persona ci dà un febbrile resoconto, più dall’interno del pensiero che dall’oggettivo esterno dei fatti. In quest'alternanza, non mero espediente di tecnica di scrittura ma perfetto specchio della complessità intensa e tormentosa della personalità di PH, sta il senso profondo del libro.
Mi ha molto colpito la scrittura di questo libro, e soprattutto la struttura. La
scrittura è esaltata, febbrile, non c'è mai un flusso cronologico ma un
continuo avanti e indietro, come nel ricordo affannoso della morente. C'è una
struttura circolare dalla scena iniziale della morte a quella finale che a
quella morte ci riporta, ma non è una struttura rigida, anzi. La narrazione è
al presente – ulteriore elemento di ansia, di a-storicità dei fatti – con
frequenti balzi al futuro, come se si volesse stimolare di continuo il
lettore a seguire attivamente il pensiero incessante, direi quasi il rovello
della protagonista, e l'effetto è vertiginoso.
Accanto
a questo nucleo così importante, c'è il ricchissimo repertorio delle varie donne che Pat incontra nella sua
vita, la madre e il patrigno, la genesi dei libri, i viaggi, le moltissime
case.
Il tempo dell’azione è del tutto orizzontale: nel continuo andirivieni temporale dell'azione vediamo le conseguenze o le motivazioni, ma non è mai narrata, sta nel background.
Pat
non è femminista, ma nella
sua opera c'è una continua riflessione sul ruolo della donna nella società
americana, e non si stanca di denunciare la falsità dell'American dream (per le donne),
dell’infelicità della donna normale, che non è mai padrona del proprio destino
ma aspetta che sia un uomo a decidere per lei e portarle la felicità. Malgrado un tentativo, per amor di quiete, di farsi piacere un fidanzato con cui sposarsi e "mettersi a posto", la sua irrequietezza si riflette nella luga serie di amori. Naturalmente un grande spazio nel romanzo ce l'hanno le donne amate da PH, a cominciare da Carol, epitome di tutte le belle signore impossibili, eleganti, sventate, autodistruttive e temerarie che amerà nella prima parte della sua vita, e che confluiranno nella figura protagonista dell'omonimo romanzo, nato come Il
giardino di Tantalo poi pubblicato come Il prezzo del sale nel 1952, con lo pseudonimo di
Claire Morgan in una collana pulp. Il romanzo ebbe grande successo, quasi un milione di
copie nel formato tascabile, ma solo nel 1989 fu riconosciuto dalla sua autrice. Poi ci sono le donne tiranniche, le noiose, gli amori impossibili, e le golden girls che abbagliano gli ultimi anni della sua vita.
La sua è un’irriducibile diversità dalla norma, e non se lo dimentica mai. Ma il suo senso di inadeguatezza è controbilanciato da un senso di superiorità nei confronti delle donne comuni. Lei scrive mentre le donne normali fanno le loro vite di casalinghe disperate. Scrivendo i Piccoli racconti di misoginia (1974) si diverte tantissimo. Però sa che amare è meglio che essere amati, e ama essere innamorata, e tra i suoi amori sono importanti gli animali, soprattutto la gatta Sam.
La narrazione comincia nel 1946 a New York: nella vita di Patricia Highsmith, ragazza texana di buoni studi che si mantiene scrivendo sceneggiature per fumetti, ci sono già la voglia di affermarsi con la scrittura e l'amore per la bella Carol. La madre Mary, egoista
lunatica prepotente, l'ha trascurata e abbandonata dalla nonna in Texas
per dedicarsi a bisticciare con il marito Stanley. Da questo rapporto
difficile nasce forse il costante senso di abbandono e inadeguatezza che
l'accompagnò insieme alla coscienza dei propri desideri sessuali proibiti, della propria irriducibilità alla norma e della potentissima vocazione alla scrittura. Nel 1946 il
primo racconto, L'eroina, esce su Harper's Bazaar e conquista subito il premio O.Henry. Capisce
che scrivere è il suo destino.
La sua è un’irriducibile diversità dalla norma, e non se lo dimentica mai. Ma il suo senso di inadeguatezza è controbilanciato da un senso di superiorità nei confronti delle donne comuni. Lei scrive mentre le donne normali fanno le loro vite di casalinghe disperate. Scrivendo i Piccoli racconti di misoginia (1974) si diverte tantissimo. Però sa che amare è meglio che essere amati, e ama essere innamorata, e tra i suoi amori sono importanti gli animali, soprattutto la gatta Sam.
L’ancora di salvezza contro l’inquietudine non è l'amore, o l’eccesso di amori,
ma la scrittura. La
scrittura è il filo
d'Arianna del suo personale labirinto, dal quale non desidera affatto uscire,
perché ormai sa che esplorarlo è la cosa più appassionante che potrà mai
capitarle nella vita. Pat sa che la scrittura è un lavoro molto esigente,
talvolta si sente una forzata della parola. Ma la
scrittura prende tutto, è la cosa più importante.
Margherita Giacobino dà un'affascinante interpretazione individuando lo spunto autobiografico di molti romanzi, o meglio l’inciampo esistenziale che fa scattare l’immaginazione. Da un uomo intravisto sulla spiaggia a Positano che dà origine a Ripley, al racconto in cui PH si vendica di Andrea che non è più all’altezza del suo sogno. Dai sogni febbrili, sogni di uccidere, nasce l’uccisione sulla carta, il delitto. Nei suoi libri i protagonisti sono uomini che compiono quelle azioni che lei non può compiere nella vita reale. Uccidono le donne. Tanto che può affermare La morte è sempre stata il mio mestiere. Insieme alla morte non ci si annoia.
Dai
suoi libri furono tratti moltissimi film, oltre a serie televisive e radiofoniche. I registi sono illustri: Wenders, Minghella, Hitchkock, Haynes, Geissendörfer, Autant-Lara, Clément, Cavani, Chabrol, Amini ecc.
Negli ultimi anni si preoccupa della propria morte e della sua eredità. Nella sua ultima casa in Svizzera, fatta costruire secondo i suoi desideri senza finestre verso l’esterno, barricata e inospitale, fa testamento. L'editore svizzero Diogenes ha i diritti di pubblicazione, ma un generoso lascito andò alla comunità di artisti Yaddo dove aveva soggiornato nel 1948, ma le sue carte private, i taccuini neri degli appunti, i diari, le lettere, le vende a un archivio di Stato di Berna dove sono consultabili.
Nel 1995
muore all'età di settantaquattro anni.
bellissima e appassionante recensione
RispondiEliminaGrazie Angela! Ma è il libro che è bello, e evidentemente questo aiuta molto il recensore...
RispondiEliminaSplendida recensione, complimenti!
RispondiEliminaUna domanda: io a tutt'oggi ho letto soltanto un libro di Patricia Highsmith ("Delitti bestiali"), potrò godermi ugualmente il romanzo di Margherita Giacobino?
Grazie.
@Angela Siciliano vedrai che ti piacerà, è un gran bel romanzo! @Orlando io penso che si possa leggere a prescindere dalla conoscenza di PH (anche io non sono affatto un'esperta, anche se devo dire che quello che ho letto mi è piaciuto e mi ha acchiappato parecchio) e goderselo in pieno, e per di più secondo me ti verrà voglia di leggere qualcosa di suo.
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RispondiEliminaHo letto il libro (in 3 giorni di degenza in ospedale!) e mi ha tenuto tanta buona compagnia senza accorgermi del tempo che passava. E' scritto davvero bene e l'intreccio tra parti descrittive e "lettere" o "pagine di diario" lo arricchisce.
Brava Margherita Giacobino (e mi ripeto, ma anche brava la recensora!)
@Angela mi fa molto piacere che il libro ti sia piaciuto, è sempre bello occuparsi di un bel libro. E auguri per la tua salute! spero che tu sia in piedi e arzilla.
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