Ho il massimo rispetto per il giornalista e scrittore turco Ahmed Altan, autore di una decina di romanzi e alcuni saggi, attualmente (almeno fino al 28/1/17 per quel che ne so io) in prigione per motivi politici, e spero con tutto il cuore che sia rilasciato al più presto e possa continuare con la sua attività. Ma il suo romanzo Scrittore e assassino, tempestivamente tradotto da Barbara La Rosa Salim per e/o, su cui ho letto molte recensioni estremamente elogiative, non mi ha convinta.
Siamo in una cittadina senza nome non lontana dal mare, divisa tra agricoltura e progetti di sviluppo turistico, una di quelle abitate da greci prima della megali katastrofì perché sulla collina che la sovrasta sorge una chiesa attorno alla quale aleggiano delle leggende, che vi sia la tomba di Gesù ma soprattutto che nella cripta sia nascosto un grande tesoro, intorno al quale si scatena una faida sanguinosa che coinvolge tutti i politici e i mafiosi locali. La descrizione degli intrighi di potere tra i maggiorenti, e delinquenti locali, sorprende e interessa, le personalità dei vari personaggi maschili sono ben delineate. L'ambientazione, secondo me, è il principale motivo di interesse del romanzo.
Il protagonista, che parla in prima persona, si presenta fin dalle prime righe come un assassino, e la molla che spinge avanti nella lettura dovrebbe essere la curiosità circa l'identità del morto. Io, confesso, me ne sono dimenticata immediatamente, e quando alla fine sono arrivata al delitto, non me ne importava più granché. Comunque: il protagonista è anche uno scrittore che arriva nella cittadina in cerca di tranquillità per scrivere. Incontra subito una donna, Zuhal, l'archetipo della donna fatale, bellissima, misteriosa, sensualissima, ambigua, contraddittoria, libera e spregiudicata ma anche dolce e soprattutto disponibilissima... un eterno femminino in salsa turca. Il fatto che sia innamorata di Mustafà, sindaco della cittadina e capo di una delle bande criminali che si fronteggiano, non le impedisce di intrecciare una rovente relazione di sesso con lo scrittore. Tra frequenti sparatorie, tipi minacciosi, donne spregiudicate e intriganti, falegnami saggi, pranzi e cene, un matrimonio in moschea, la vicenda scorre in maniera piuttosto inverosimile e tavolta campata in aria. Si capisce benissimo che dietro c'è il tentativo di parlare della Turchia in maniera simbolica e metaforica per non incappare nella censura (ma, povero Ahmed Altan, evidentemente non gli è bastato) ma il risultato non è molto felice.
Ma la parte meno convincente, spesso al limite dell'ingenuità, è quella erotica. Il sesso abbonda,
soprattutto quello virtuale praticato in chat, senza immagini né webcam, tutto verbale, di testa e iperbolico. Ora, l'idea (e la pratica) del sesso scritto è interessante ma qui non si riesce a crederci neanche per un attimo: non voglio dire che non esista, dico solo che nelle parole di Ahmed Altan è così madornale che non è possibile esercitare la sospensione dell'incredulità. Una forte carica erotica è presente in tutte le donne: dalla fascinosa Zuhal alla matura Kamile, dalla cameriera Hamiyet alla prostituta Sunbul, sono potenti e insieme rinchiuse nel loro ruolo di calamite sessuali.
Qui devo ammettere un grande limite mio: la parte unanimamente lodata in tutte le recensioni è quella che più mi ha annoiato nella lettura. Il protagonista si rivolge continuamente a Dio in quanto scrittore supremo, che scrive tutti i romanzi di tutte le vite umane, discute come con un collega, discetta di letteratura e vita. Io sono proprio negata per le astrazioni quindi mi astengo. Spero che il
grande romanziere abbia già scritto un lieto fine per il collega Ahmed Altan, in cui questi ricupera la libertà e si dedica a scrivere in un paese sereno e democratico, più facile da raccontare della Turchia di oggi e bello come la Turchia di sempre, che tanto amo e mi manca.
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lunedì 27 febbraio 2017
venerdì 17 febbraio 2017
La scrittura è il filo d'Arianna: Margherita Giacobino, Il prezzo del sogno
Questo è un libro che affascina immediatamente con la sua doppia anima: è un romanzo con protagonista una figura
eccessiva di donna, e un affettuoso, ammirato tributo alla famosa scrittrice Patricia Highsmith. Leggendolo
ho avuto fortissima la sensazione che anche questa nuova fatica di Margherita Giacobino, così come il precedente Ritratto di famiglia con bambina grassa lo era rispetto alle persone della famiglia dell'autrice,
sia un atto d'amore necessario nei confronti di un personaggio formidabile come
Patricia Highsmith.
L'aspetto letterario non è subordinato all'eccezionalità del personaggio bigger than life, ma prevale l'amorosa, instancabile osservazione della persona. Gli aggettivi che le vengono attribuiti sono piuttosto negativi – misantropa, burbera, avara, scorbutica, egoista ecc ecc – ma nell'uso stesso di questi termini si sente un profondo affetto, un'ammirazione che non si fa scoraggiare da così poco.
La prima sensazione è di un'instabilità che ci fa sentire come su un'asse d'equilibrio. Si passa continuamente dall'interno all'esterno della protagonista, e questo dà un effetto febbrile legato sia alla personalità stessa di Patricia Highsmith (inquieta, lacerata, in continuo interrogarsi sulla contrapposizione tra bene e male, cosciente di essere sempre contro) che alla fortissima scena iniziale: la morte in attesa e gli ultimi febbrili ricordi – pensieri.
I temi sono molto densi e emergono dalla continua riflessione di PH su se stessa, la propria vita, il proprio presente e il proprio passato. Sono tutti legati alla fondamentale coscienza di essere al di fuori di ogni norma: e quindi la ricerca di sé, l'omosessualità, gli amori, e soprattutto, sempre più fondamentale col tempo, la scrittura. Leggendo si ha l'impressione di una matassa difficilissima da dipanare proprio per la sua densità.
L'aspetto letterario non è subordinato all'eccezionalità del personaggio bigger than life, ma prevale l'amorosa, instancabile osservazione della persona. Gli aggettivi che le vengono attribuiti sono piuttosto negativi – misantropa, burbera, avara, scorbutica, egoista ecc ecc – ma nell'uso stesso di questi termini si sente un profondo affetto, un'ammirazione che non si fa scoraggiare da così poco.
La prima sensazione è di un'instabilità che ci fa sentire come su un'asse d'equilibrio. Si passa continuamente dall'interno all'esterno della protagonista, e questo dà un effetto febbrile legato sia alla personalità stessa di Patricia Highsmith (inquieta, lacerata, in continuo interrogarsi sulla contrapposizione tra bene e male, cosciente di essere sempre contro) che alla fortissima scena iniziale: la morte in attesa e gli ultimi febbrili ricordi – pensieri.
La vita della protagonista non è narrata in maniera lineare. C'è come un
procedere generale della vicenda, come gli anni che inesorabilmente avanzano,
ma questo flusso è continuamente interrotto da riflessioni, divagazioni,
affermazioni in cui tutti i personaggi, tranne Patricia Highsmith, sono sbozzati, descritti con
due tre pennellate, e entrano e escono veloci dalla scena tutta occupata da lei.
I
fatti sfuggono, ci vengono forniti a pezzi in un successivo ritorno del ricordo
sull'episodio nella sapientissima tessitura del romanzo che ha struttura
circolare, dalla morte alla morte, e ci dà il significato profondo della
ricchezza e della difficoltà della vita di ognuno, non solo di quella di PH.
Questo ossessivo girare intorno
alla personalità di PH, in cui le varie donne della sua vita, anche quando contano, sono poco più che comparse, crea non tanto, a mio parere, una biografia
romanzata (o un romanzo biografico, non so quale sia la definizione giusta) né una mappa ma un personalissimo ritratto, in cui la scrittrice Margherita Giacobino e la scrittrice Patricia Highsmith si guardano negli occhi, vi si rispecchiano e si riconoscono a vicenda. I temi sono molto densi e emergono dalla continua riflessione di PH su se stessa, la propria vita, il proprio presente e il proprio passato. Sono tutti legati alla fondamentale coscienza di essere al di fuori di ogni norma: e quindi la ricerca di sé, l'omosessualità, gli amori, e soprattutto, sempre più fondamentale col tempo, la scrittura. Leggendo si ha l'impressione di una matassa difficilissima da dipanare proprio per la sua densità.
Le prime pagine sono un pugno nello stomaco, forti e angosciose. PH è davanti alla morte, assistita da una giovane infermiera, Maria, che rappresenta la scrittrice e nello stesso tempo le donne che ha amato, le golden girls che hanno dato senso, gioia e dolore alla sua vita, cioé la gioventù stessa. Da questo incipit così potente prende il via la ricostruzione della vita di Pat (come lei stessa ci dice di chiamarla) che alternando la prima e la terza persona ci dà un febbrile resoconto, più dall’interno del pensiero che dall’oggettivo esterno dei fatti. In quest'alternanza, non mero espediente di tecnica di scrittura ma perfetto specchio della complessità intensa e tormentosa della personalità di PH, sta il senso profondo del libro.
Mi ha molto colpito la scrittura di questo libro, e soprattutto la struttura. La
scrittura è esaltata, febbrile, non c'è mai un flusso cronologico ma un
continuo avanti e indietro, come nel ricordo affannoso della morente. C'è una
struttura circolare dalla scena iniziale della morte a quella finale che a
quella morte ci riporta, ma non è una struttura rigida, anzi. La narrazione è
al presente – ulteriore elemento di ansia, di a-storicità dei fatti – con
frequenti balzi al futuro, come se si volesse stimolare di continuo il
lettore a seguire attivamente il pensiero incessante, direi quasi il rovello
della protagonista, e l'effetto è vertiginoso.
Accanto
a questo nucleo così importante, c'è il ricchissimo repertorio delle varie donne che Pat incontra nella sua
vita, la madre e il patrigno, la genesi dei libri, i viaggi, le moltissime
case.
Il tempo dell’azione è del tutto orizzontale: nel continuo andirivieni temporale dell'azione vediamo le conseguenze o le motivazioni, ma non è mai narrata, sta nel background.
Pat
non è femminista, ma nella
sua opera c'è una continua riflessione sul ruolo della donna nella società
americana, e non si stanca di denunciare la falsità dell'American dream (per le donne),
dell’infelicità della donna normale, che non è mai padrona del proprio destino
ma aspetta che sia un uomo a decidere per lei e portarle la felicità. Malgrado un tentativo, per amor di quiete, di farsi piacere un fidanzato con cui sposarsi e "mettersi a posto", la sua irrequietezza si riflette nella luga serie di amori. Naturalmente un grande spazio nel romanzo ce l'hanno le donne amate da PH, a cominciare da Carol, epitome di tutte le belle signore impossibili, eleganti, sventate, autodistruttive e temerarie che amerà nella prima parte della sua vita, e che confluiranno nella figura protagonista dell'omonimo romanzo, nato come Il
giardino di Tantalo poi pubblicato come Il prezzo del sale nel 1952, con lo pseudonimo di
Claire Morgan in una collana pulp. Il romanzo ebbe grande successo, quasi un milione di
copie nel formato tascabile, ma solo nel 1989 fu riconosciuto dalla sua autrice. Poi ci sono le donne tiranniche, le noiose, gli amori impossibili, e le golden girls che abbagliano gli ultimi anni della sua vita.
La sua è un’irriducibile diversità dalla norma, e non se lo dimentica mai. Ma il suo senso di inadeguatezza è controbilanciato da un senso di superiorità nei confronti delle donne comuni. Lei scrive mentre le donne normali fanno le loro vite di casalinghe disperate. Scrivendo i Piccoli racconti di misoginia (1974) si diverte tantissimo. Però sa che amare è meglio che essere amati, e ama essere innamorata, e tra i suoi amori sono importanti gli animali, soprattutto la gatta Sam.
La narrazione comincia nel 1946 a New York: nella vita di Patricia Highsmith, ragazza texana di buoni studi che si mantiene scrivendo sceneggiature per fumetti, ci sono già la voglia di affermarsi con la scrittura e l'amore per la bella Carol. La madre Mary, egoista
lunatica prepotente, l'ha trascurata e abbandonata dalla nonna in Texas
per dedicarsi a bisticciare con il marito Stanley. Da questo rapporto
difficile nasce forse il costante senso di abbandono e inadeguatezza che
l'accompagnò insieme alla coscienza dei propri desideri sessuali proibiti, della propria irriducibilità alla norma e della potentissima vocazione alla scrittura. Nel 1946 il
primo racconto, L'eroina, esce su Harper's Bazaar e conquista subito il premio O.Henry. Capisce
che scrivere è il suo destino.
La sua è un’irriducibile diversità dalla norma, e non se lo dimentica mai. Ma il suo senso di inadeguatezza è controbilanciato da un senso di superiorità nei confronti delle donne comuni. Lei scrive mentre le donne normali fanno le loro vite di casalinghe disperate. Scrivendo i Piccoli racconti di misoginia (1974) si diverte tantissimo. Però sa che amare è meglio che essere amati, e ama essere innamorata, e tra i suoi amori sono importanti gli animali, soprattutto la gatta Sam.
L’ancora di salvezza contro l’inquietudine non è l'amore, o l’eccesso di amori,
ma la scrittura. La
scrittura è il filo
d'Arianna del suo personale labirinto, dal quale non desidera affatto uscire,
perché ormai sa che esplorarlo è la cosa più appassionante che potrà mai
capitarle nella vita. Pat sa che la scrittura è un lavoro molto esigente,
talvolta si sente una forzata della parola. Ma la
scrittura prende tutto, è la cosa più importante.
Margherita Giacobino dà un'affascinante interpretazione individuando lo spunto autobiografico di molti romanzi, o meglio l’inciampo esistenziale che fa scattare l’immaginazione. Da un uomo intravisto sulla spiaggia a Positano che dà origine a Ripley, al racconto in cui PH si vendica di Andrea che non è più all’altezza del suo sogno. Dai sogni febbrili, sogni di uccidere, nasce l’uccisione sulla carta, il delitto. Nei suoi libri i protagonisti sono uomini che compiono quelle azioni che lei non può compiere nella vita reale. Uccidono le donne. Tanto che può affermare La morte è sempre stata il mio mestiere. Insieme alla morte non ci si annoia.
Dai
suoi libri furono tratti moltissimi film, oltre a serie televisive e radiofoniche. I registi sono illustri: Wenders, Minghella, Hitchkock, Haynes, Geissendörfer, Autant-Lara, Clément, Cavani, Chabrol, Amini ecc.
Negli ultimi anni si preoccupa della propria morte e della sua eredità. Nella sua ultima casa in Svizzera, fatta costruire secondo i suoi desideri senza finestre verso l’esterno, barricata e inospitale, fa testamento. L'editore svizzero Diogenes ha i diritti di pubblicazione, ma un generoso lascito andò alla comunità di artisti Yaddo dove aveva soggiornato nel 1948, ma le sue carte private, i taccuini neri degli appunti, i diari, le lettere, le vende a un archivio di Stato di Berna dove sono consultabili.
Nel 1995
muore all'età di settantaquattro anni.
mercoledì 15 febbraio 2017
Day after. San Valentino è passato, parliamo un po' d'amore: Fiaba d'amor crudele
FIABA D’AMOR
CRUDELE
Era il tramonto. Sulle torri di
Lalapur i corvi volavano gracchiando, eccitati dal rosso incendio che faceva
avvampare la pietra. Il cielo aveva un intenso colore tra l'indaco e il verde,
tagliato da una falce di luna sottile come una lama; lontano, sul mare
sanguinoso, una vela quadrata si affrettava a portare a riva dei pescatori
ritardatari. Sembrava che il tramonto non sarebbe finito mai; invece, appena
l'ultimo spicchio tremolante di sole fu inghiottito dalle acque, sulla città
calò il buio. Dopo qualche minuto, tutto il cielo s'infiammò di strisce
scarlatte, e il rosso riflesso rese ancora più cupo il mare e minacciosa la
notte. I bambini si affrettavano a rientrare nelle loro case dove le mamme
rimestavano nelle padelle, inquiete finché non erano seduti sani e salvi alla
luce fumosa delle lanterne. Nella sala
quadrata all'ultimo piano della torre più alta del palazzo, il principe
Huli guardava i servi che accendevano le torce. Da un po' non girava più le
pagine del libro appoggiato sulle sue ginocchia. I corvi avevano smesso di
gracchiare, nascosti nei loro ispidi nidi; neanche a loro piaceva la luce falsa
che insanguinava la città senza illuminarla.
Le pareti della sala erano tutte
tese di seta nera come quella dell'abito di Huli. Sotto il turbante nero, i
suoi occhi di un azzurro profondo sembravano più grandi. Alle orecchie, due
rubini riflettevano la luce guizzante delle torce. Stancamente, Huli chiuse il
libro e lo posò accanto a sé sul tappeto, si rigirò sui cuscini dove era
sdraiato e fece cenno a un servo di avvicinarsi.
"Cenerò qui" disse
piano "non voglio vedere nessuno stasera. Portatemi qualcosa da mangiare e
una bottiglia di vino rosso. Più tardi, dite alla suonatrice di chitarra con i
capelli corti di salire da me, ma solo quando la luna sarà tramontata."
Il servo si allontanò
silenziosamente, i piedi nudi che sprofondavano nello spesso tappeto. Con lui
uscirono anche gli altri. Huli rimase solo. Appoggiato alla piccola finestra di
ponente, osservava il mare e il cielo che a poco a poco perdevano i riflessi
sanguigni per annullarsi in un nero opaco. Quando il buio fu completo, si
spostò alla finestra di levante per guardare la città ai suoi piedi, le case
basse illuminate da fiammelle giallastre, le alte torri fiammeggianti di torce
e lanterne. Il palazzo sorgeva in riva al mare e la torre dove stava Huli
sovrastava tutte le altre. Sulle mura che circondavano la città da tre lati si
vedevano a intervalli regolari dei fuochi, attorno ai quali si affaccendavano
ombre di soldati. Dalle torri, dalle mura, dalle case cominciarono a levarsi
musiche e canti melodiosi. Lalapur era una città di musicanti.
Un servo giunse con un vassoio
che posò su un basso tavolino. Huli sedette sul tappeto per mangiare; levando
gli occhi, vedeva la gelida falce di luna proprio in mezzo all'ogiva, nera di
notte buia. Poco dopo una donna entrò a capo chino, un velo scuro tirato sulla
fronte. Si inginocchiò davanti a lui e attese che avesse finito di masticare la
coscia di pollo che teneva in mano.
"Sita vuole sapere se ti
deve aspettare stasera."
"No, dormirò nella mia
stanza. Baciala da parte mia, dille di stare serena e andare a riposare."
La donna si alzò in piedi e lo
guardò con un sorriso mesto.
"E' tanto che non dormi con
tua moglie, Huli."
"Tu che le vuoi bene, Giara,
cerca di consolarla come puoi. Io non so che cosa mi succede." Sputò un
osso ben pulito e le fece cenno di andarsene. "Verrò presto a salutarla di
persona, non appena questa noia di vivere mi avrà lasciato. Anche i bambini:
baciali, ma non permettere che mi vengano vicino."
Il tempo trascorse lentamente.
Quando Huli ebbe riempito l'ultimo bicchiere di vino e la bottiglia vuota
rotolò sul tappeto, si sentì un fruscio e una ragazza entrò nella sala portando
una pesante chitarra di palissandro intarsiato di madreperla. Sedette davanti
al principe a gambe incrociate e cominciò ad accordare lo strumento. Era molto
giovane, bruna di pelle, vestita di una tunica rossa con ricami dorati. Sul suo
cranio recentemente rasato i capelli cominciavano appena a ricrescere,
nerissimi e ricci. Sollevò timidamente gli occhi grigi e chiese:
"Che cosa devo
suonare?"
"La canzone che cantavi
l'altra sera, quella che parla di montagne ed esilio."
La ragazza suonò qualche accordo,
poi prese a sgranare una melodia molto lenta, un filo di note come gocce
d'acqua da una sorgente che sta morendo. La sua voce acuta e infantile faceva
pensare a un passero spiumato.
"Nella valle sospesa c'è
neve anche d'estate, il vento soffia sull'erba tenera, com'è breve la stagione
del sole! Corre il daino, saltano i conigli, le mie capre brucano il muschio
intorno al ruscello gelido. La mia valle sospesa l'ho lasciata per sempre,
nessun vento potrà portarmi indietro. Le mie lacrime bruciano, lasciano solchi
salati. Penso all'acqua gelata del ruscello che mi lavava il viso, vedo le
vette nevose che circondano i prati, sogno le mie caprette scherzose che
cozzano sul prato. Ma nessun vento mi porterà lassù."
La ragazza emise l'ultimo acuto
con una vocina che pareva il lamento di un neonato. Abbandonò le mani sulle
corde e chiese:
"E adesso?"
"Come ti chiami?"
"Vina la pastora, mi dicono,
perché sono stata pastora fino a un anno fa."
"Questa canzone l'hai
composta tu?"
"Sì, la valle di cui parla è
quella in cui vivevo prima di partire in pellegrinaggio ai sette santuari.
L'ultimo santuario è qui in città, mi sono guadagnata la vita rallegrando le
serate dei signori. Ho avuto la fortuna di piacere al tuo ministro Asan, che mi
ha portata a palazzo. E qui sono rimasta."
"Che cosa ti impedisce di
tornare alla tua valle?"
"Niente, forse. Ma amo un
soldato, e poi ho assaggiato il vino e le mollezze della città, non sono più adatta a fare la vita
della pastora."
"Allora il tuo lamento è
ipocrita."
"Forse."
"Che cosa ti ha spinto a
fare il pellegrinaggio?"
"Non mi fare troppe domande,
Huli. Sono solo una ragazza di montagna capitata per caso in città. Forse sono
partita proprio perché la mia valle, che canto con tanta nostalgia nei
banchetti, era un posto insopportabile per viverci. Forse non ne potevo più
della neve e delle capre, del freddo, dei bagni nel ruscello gelato, delle cime
che chiudevano l'orizzonte. Ho rinunciato ai miei capelli per il
pellegrinaggio, ho camminato sola e scalza per mesi, ho fatto devozioni e
sacrifici, forse perché volevo proprio questo. Stare seduta al caldo su un
tappeto spesso e cantare per il signore della città."
"Sei bugiarda e ipocrita. La
tua canzone sembra il lamento di un esiliato."
"Sono una grande artista,
allora. La nostalgia la provo davvero: ma questo non vuole dire che vorrei
tornare nella mia valle."
"Hai lasciato qualcuno
lassù?"
"Sì. Questa domanda è un
colpo di pugnale, Huli. Ho lasciato mio nonno e mia sorella."
"I tuoi genitori?"
"Morti."
"Voglio conoscere la tua
valle."
"Allora vacci subito. La
strada che vi porta è aperta solo due mesi l'anno. Questa è la stagione buona.
Un cacciatore può trovare da divertirsi lassù."
"Cantami
qualcos'altro."
"Che cosa?"
"Quello che vuoi."
La voce
pigolante di Vina si alzò in un'altra canzone, una canzone di vino e d'amore,
di coltelli e di morte. Huli, sdraiato sulla seta nera dei cuscini, chiuse gli
occhi e si addormentò. Vina scivolò via alla ricerca del suo soldato.
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La spedizione
di caccia fu organizzata in pochi giorni, malgrado le obiezioni di Asan.
"Non
capisco che cosa vai a cercare così lontano, sulle montagne, quando i boschi
qui attorno sono pieni di cervi e cinghiali."
"Fatti
miei, Asan. Un vero cacciatore non si accontenta delle prede facili."
"E chi si
occuperà degli affari del tuo stato mentre sarai via?"
"Tu. Che
cosa serve essere signori e avere un abile ministro, se non gli si può affidare
il governo per andare a divertirsi? Finché sono giovane voglio essere libero di
muovermi come voglio. C'è sempre tempo per diventare una bravo sovrano. Oltre
tutto, è bene che conosca il mio paese."
"Sita è
triste."
"Amo e
rispetto mia moglie, ma non mi piace che discuta il mio comportamento con te.
Se succederà un'altra volta, vi farò frustare tutti e due: lei nelle sue
stanze, e te sulla piazza del mercato."
Kafir, un
giovane pellegrino rapato come Vina, come lei sedotto dai piaceri della città
al punto da non voler più tornare alle sue montagne, doveva fare da guida. Era
necessario viaggiare travestiti per non attirare l'attenzione. Huli non voleva
sacrificare le sue chiome nere per assumere la veste del pellegrino, perciò
finirono per scegliere abiti da mercanti, e anche Kafir si coprì il cranio
rasato con un turbante rosso vino. I fucili per la caccia stavano nascosti
nelle balle della finta mercanzia.
Il viaggio era
lungo. Ci volevano almeno dieci giorni a cavallo per raggiungere le montagne.
Kafir cercava di convincere Huli che la sua valle era più bella di quella di
Vina, ma il principe era ostinato. Voleva vedere quel ruscello, quelle cime,
quel muschio, e non altri. Kafir
scuoteva le spalle brontolando sottovoce a proposito della testa dura di certe
persone. Cavalcando per la pianura, attraversarono campi coltivati e villaggi,
dove i contadini li guardavano a bocca aperta abbandonando per un attimo le
loro occupazioni.
"Che
vendete, bei giovani?" gridava talvolta una ragazza più sfacciata delle
altre.
"Cipria
per le tue guance rosse, nastri per i tuoi capelli, porporina per le tue
palpebre, veli trasparenti per le tue poppe rigonfie" rispondeva Kafir, ma
le sue parole si perdevano nel galoppo sonante dei cavalli.
La sera i
cacciatori si fermavano in qualche taverna campagnola, senza paura di sfidare
cimici e pidocchi. Cenavano e bevevano alla tavola comune, partecipando ai
discorsi degli altri avventori e raccontando un sacco di bugie sulla loro
attività e sulla meta del viaggio, attenti a non mostrare troppo denaro. Più di
una volta accettarono di accogliere sotto le coperte qualche donna sedotta dal
loro bell'aspetto. All'alba, al momento del commiato, davano alle compagne un
regalino modesto, uno specchio, un fazzoletto di seta, orecchini di giaietto.
Le donne ringraziavano e si facevano promettere che sarebbero ripassati sulla
via del ritorno.
La sera del
nono giorno giunsero in vista delle montagne. Alte, così alte che bisognava
rovesciare indietro la testa per vederne la cima, avvampavano e fiammeggiavano
nel tramonto. I fianchi erano cupi di boschi e argentei di acque, ma le vette
erano tutte un incendio che svanì rapidamente lasciando il mondo nel buio
definitivo. I due compagni trovarono rifugio in una taverna all'ombra di un
grande noce.
La mattina
dopo, si alzarono di buon'ora. Non c'erano più locande da quel punto in poi,
avrebbero dovuto accamparsi per la notte e procurarsi il cibo come potevano.
Huli acquistò molte bottiglie di vino nero e ne riempì le bisacce che pendevano
dalla sua sella. Le montagne stavano di fronte a loro, alte e severe, verdi
coni scoscesi coperti da cappucci bianchi. La padrona della taverna indicò il
sentiero che portava in alto, alle valli nascoste e sospese tra le vette.
Cavalcarono
per tutto il giorno. Man mano che salivano il sentiero si faceva più stretto e
accidentato, l'aria più fredda, la vegetazione meno folta e selvaggia. A sera
videro i primi mucchi di neve annidati sotto i larici. Si accamparono accanto
alle rovine di una capanna, dopo avere battuto con i bastoni rovi e ortiche per
allontanare i serpenti. Kafir accese un fuoco e arrostì un coniglio sorpreso in
un prato dal fucile di Huli.
"Cantaci
qualcosa" gli disse Huli, scuotendo una bottiglia per farne uscire
l'ultima goccia. "Questo posto fa paura, una canzone ci rallegrerà."
Kafir tirò
fuori una specie di violino piccolo come un melone, toccò appena le corde con
l'archetto e intonò con voce di basso:
"Mia
capretta gentile dagli occhi verdi, perché balzi e fuggi quando mi vedi? Soli
sulla montagna, io e te soli, perché non vuoi amarmi come io ti amo? Ti ho
fatto un letto di muschio, ho strappato l'erba grama solo per te, sono tutto
ardente d'amore come un nevaio al tramonto. Mia capretta gentile, fermati e
dammi un bacio d'amore. Sarà bella la notte con te, sotto i pini mormoranti,
accanto al ruscello che canta, non fuggire più, aspettami."
Quando il
canto morì, Huli scoppiò a ridere.
"Questa
canzone è dedicata a una donna o a una vera capra? Mi hanno detto che i pastori
non disdegnano l'amore con le loro bestie su queste gelide cime. Tu hai mai
fatto l'amore con una capra, Kafir?"
La guida lo
guardò con i suoi occhi neri sotto il turbante rosso.
"Tu vuoi
offendermi, Huli, ma in realtà conosco molti che per solitudine, ardore
giovanile, suggestione della notte silenziosa e fredda si sono congiunti con le
loro capre. Non io. Io, per fortuna, avevo quattro sorelle tra cui
scegliere."
"E i
figli? Se nascevano dei figli da queste unioni contro natura?"
"Contro
natura? La natura spinge ad accoppiarsi e basta, non si interessa alla scelta.
Poi, le donne della montagna non sono molto fertili, i figli sono sempre
benaccetti, chiunque li generi e con chiunque li generi. Certo, ogni tanto
nascono dei mostri, ma è facile sbarazzarsene."
Huli guardò
Kafir come se lui stesso fosse stato un mostro, poi si coprì il capo con il
mantello. Kafir attizzò il fuoco, si stese accanto al principe e chiuse gli
occhi.
"Non c'è
solo Lalapur a questo mondo, con le sue torri, il suo mare, il suo popolo di
canterini mangiatori di pesce e bevitori di vino, tutto il giorno in giro per
il mercato e il porto, a chiacchierare senza fretta. Il paese è grande, pieno
di persone che vivono secondo leggi che tu nemmeno immagini. Apri occhi e
orecchie e chiudi la bocca, da domani. Ma adesso dormi che è tardi"
mormorò tra sé.
"Selvaggio"
mormorò Huli, prima di addormentarsi di schianto.
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Un paio di
volte, Kafir finse di sbagliare strada per condurli alla sua valle, ma Huli,
che non si fidava, interrogò ogni pastore che incontravano, e dopo un giorno e
mezzo arrivarono alla valle di Vina. Il cammino era stato faticoso, i sentieri
tanto pericolosi che non si riusciva a godere del paesaggio e della frescura
dei boschi. Quando, valicato l'ultimo passo, la valle si stese davanti ai loro
occhi, i viaggiatori erano così stanchi che dai loro occhi scendevano lacrime
di sfinimento.
Asciugate le
lacrime sulle guance ghiacciate, i due cavalieri videro una distesa infinita di
prati verdissimi chiusi tra scoscese pareti di roccia, un ruscello bianco che
scorreva a filo dell'erba, grigi ghiacciai simili a cascate di granito che
giungevano fino al bordo del sentiero, un'aria sottile come un velo, falchi
rotanti e corvi gracchianti. Huli smontò da cavallo per bere al ruscello, e
l'acqua gli bruciò le labbra tanto era gelata. Non c'erano in vista né pastori
né capanne.
"Bisogna
risalire la valle per trovare gli abitanti" disse Kafir, di malumore
perché non era riuscito nell'intento di depistare Huli e portarlo dove voleva
lui.
Cavalcarono ancora
un paio d'ore. Ogni tanto di fianco al ruscello si vedeva un boschetto di
pioppi pallidi, un campo coltivato a senape e radici, qualche canna stenta, un
orticello. Gli abitanti, se c'erano, si tenevano nascosti. Infine raggiunsero
alcune capanne di assi e pietra, disperse su un pendio erboso, in cima al
quale, proprio sotto la parete rocciosa, c'era un tempio di legno scuro, tutto
scolpito e adorno di corna di animali. Un gruppo di persone, soprattutto
vecchi, si fece incontro ai viaggiatori.
"Benvenuti"
disse un vecchio vestito di pelli "da dove venite? Siete gente di pianura,
lo vedo. Che cosa vi ha portato fin qua? Di solito dalla valle si fugge, non si
viene a cercarla."
Parlava la
lingua del paese, la stessa che riempiva di ciance e allegria il porto di
Lalapur, ma cercando le parole, incespicando, come quando si parla una lingua
straniera.
"Siamo
cacciatori" rispose Kafir, in un dialetto che Huli capiva, ma di cui non
avrebbe potuto riprodurre i suoni.
"Cerchiamo
il nonno e la sorella di Vina" disse Huli.
I vecchi lo
guardarono circospetti, ma anche contenti.
"Conosci
Vina?"
"Da lei
ho sentito parlare della valle. Anzi, cantare. Canta una canzone che parla di
questo posto, è una canzone bellissima, triste, una canzone di esilio e
nostalgia."
Un giovane
pastore avanzò fino a trovarsi proprio davanti al cavallo di Huli. Aveva un
viso dolce e rotondo, occhi grigi come quelli di Vina.
"Perché
non è tornata dal pellegrinaggio?"
"Le
piacciono la città, il vino, i canti, e i soldati. Vina sta bene a Lalapur. La
sua nostalgia è un'impostura per chi ascolta le sue canzoni, ma riesce a far
desiderare questa valle a chi non l'ha mai vista."
"Le sono
ricresciuti i capelli?"
"Non
ancora."
"Aveva
capelli bellissimi, ricci e neri, lunghi fino alle ginocchia. Non ho mai capito
come ha trovato il coraggio di tagliarseli. E' sempre bella?"
"E'
bella."
Il ragazzo
parlava il suo dialetto, Huli la lingua della città, eppure si erano capiti
benissimo. Una ragazza alta e sottile come un pioppo raggiunse il pastore. I suoi
occhi avevano lo stesso colore dell'erba della valle e una treccia nera le
batteva sul sedere; attorno ai polsi portava braccialetti di peli di capra. La
sua pelle bianca era coperta di sudiciume, i piedi nudi avevano una crosta di
fango come calzature. Una zaffata di puzza di capra raggiunse Huli in sella al
cavallo.
"Sono la
sorella di Vina" disse la ragazza con voce soffice e bassa.
"Come ti
chiami?"
"Lila, mi
dicono. Quello è il nostro nonno" indicò un vecchio dagli occhi ciechi che
se ne stava in un canto "e lui è il promesso sposo di Vina."
Il giovane
pastore, naturalmente.
"Venite
nella nostra capanna" disse Lila. "La notte è molto fredda, non
potete dormire all'aperto. Tra un'ora sarà il tramonto e il gelo coprirà la
valle."
Parlava bene
la lingua di Lalapur, con un accento curioso ma accattivante. Accennò a una
capanna lontana sul pendio, accanto al tempio.
"Venite"
ripeté.
I cavalieri
smontarono dalle cavalcature e le condussero a un recinto dove il promesso di
Vina se ne prese cura. Lentamente, gli abitanti tornarono alle loro capanne.
Huli e Kafir seguirono Lila sul pendio. Il sole era basso sui monti e
cominciava a fare freddo.
Nella capanna,
Lila offrì agli ospiti formaggio di capra e carne di capra salata, spinaci
selvatici e latte di capra. Huli tirò fuori qualche bottiglia di vino. Il nonno
cieco bevve volentieri, ma Lila scosse il capo stringendo la sua tazza di
latte. Faceva caldo, c'era puzza di capre, il fuoco acceso nel centro della
stanza riempiva di fumo l'atmosfera ma
non illuminava. Lila serviva il cibo in silenzio, con gesti svelti e precisi,
le mani leggere, gli occhi verdi che riflettevano la fiamma.
La serata era
lunga e non c'era niente da fare oltre a mangiare e suonare. Kafir cantò una
canzone, poi accompagnò il cieco che con la sua voce profonda e ancora limpida
recitò delle ballate antiche scandite da un ritmo strano, ipnotico e sereno.
Parlavano della valle, quando ancora mai toccata da piede umano dava rifugio a
orsi e leopardi, a magiche creature che si cibavano di neve e muschio, quando
gli dei stanchi del caldo della pianura venivano a fare penitenza sulle cime
solitarie e intrecciavano amori con bestie e nuvole, generando figli mostruosi
che ancora vivevano sui monti, tormentando gli uomini e le capre che ora li popolavano.
"Il
tempio qui accanto" disse il vecchio, dopo essersi rischiarato la voce con
un bicchiere di vino, "è dedicato a una di queste divinità. Si chiama Kul
ed è terribile. Il suo aspetto non si può descrivere né rappresentare. Noi lo
veneriamo sotto forma di una radice di ginepro. Dicono sia figlio di una
giovane dea ribelle, fuggita alla tutela di un fratello dispotico e incestuoso,
e di un terremoto che sconvolse l'aspetto di tutti picchi che circondano la
valle. Kul gradisce una sola offerta: fegato d'aquila. Non è facile da
procurarsi, perciò il nostro dio è tanto collerico e ci tormenta con epidemie
di capre, morti di neonati, gelate fuori stagione che distruggono i raccolti,
scabbia, lebbra, pazzia, aborti, valanghe, vermi intestinali e mal di petto.
Dal padre, poi, ha preso il gusto di far tremare la terra. Insomma, è un dio
che più che proteggerci, ci perseguita. Ma la vita nella valle è difficile con
o senza Kul."
"E'
meglio che stiate lontani dal tempio" intervenne Lila. "Kul non ama
gli stranieri."
"Tu non
canti?" le chiese Huli, colpito dal timbro scuro della sua voce.
"Conosco
qualche canzone, ma se hai ascoltato Vina, la mia voce ti sembrerà
orribile."
"Non ci
pensare, cantami qualcosa."
Lila prese da
un soppalco una chitarra grande e scura, di legno pesante, con il manico che
finiva in una specie di ricciolo gibboso.
"E' la
chitarra sacra" mormorò "quella con cui canto per acquietare Kul
quando si arrabbia. Ma per voi canterò una canzone che piace molto ai giovani
della valle."
Lentamente sotto
le sue dita si sgranarono gli accordi, poi cominciò un canto basso, morbido,
sensuale come una sera di giugno. Lila cantava in un modo completamente diverso
da Vina, senza acuti infantili, lasciando che la sua voce si srotolasse come un lenzuolo di seta nera su un letto di velluto.
"Vuoi
venire con me al masso che sta al bordo del bosco? C'è un letto d'erba lì
dietro, tutto intriso degli umori amorosi di centinaia di coppie che prima di
noi vi hanno trovato oblio e voluttà. Erba e muschio, qualche fiore calpestato
e bacche di mirtillo, perle di capra e rugiada, due o tre rospetti, una
salamandra, profumo di ginepro e di fango, saranno gli unici testimoni della
nostra felicità. Tu sarai me e io sarò te, le tue gambe attorno alle mie e le
mie unghie nelle tue spalle, la tua lingua allacciata alla mia, il mio sudore e
il tuo sperma, per una notte saremo come
la roccia e il lichene, come il ghiaccio e la caverna. Se vuoi venire,
amore mio, vieni subito: il letto di muschio è molto ambito, se non ci affrettiamo
vi troveremo due amanti più appassionati di noi che si rotolano avanti e
indietro, avanti e indietro, avanti e indietro, come le onde del mare di cui
parlano i viaggiatori arrivati dalla pianura. Vieni con me al masso che sta al
limite del bosco. Sarò la tua capretta, e tu il mio ariete."
Quando Lila
ebbe finito la sua canzone, per qualche istante nessuno parlò, poi Kafir
esclamò fatuamente:
"Verrò
con te al masso, ragazza, puoi giurarci!"
Huli, bianco
in volto come il formaggio di capra che era rimasto nei piatti, gli scagliò un
pugno sul muso. Kafir tacque, asciugandosi il sangue che gli colava dal naso.
Lila ripose la chitarra e disse a voce bassa:
"E'
tardi, dormiamo. Domani mi aspetta una giornata faticosa dietro alle mie
greggi, e voi, se volete trovare della selvaggina, dovrete alzarvi prima
dell'alba. Vi sveglierò io."
Nel buio della
capanna, gli occhi verdi di Lila continuavano a splendere e a lungo impedirono
a Huli di prendere sonno.
©
© ©
Arrampicandosi
sulle rocce grigie disegnate di licheni rossi e viola, sporgendosi sui
vertiginosi ghiacciai solcati da baratri verdastri, tumultuosi di blocchi di
ghiaccio annerito che facevano pensare all'ira di Kul, seguendo mufloni e
stambecchi in cupi burroni dove la neve non si scioglieva mai, scrutando il
mare di nuvole ribollenti che copriva la pianura lontana, nel gran silenzio
della montagna, Huli continuava a sentire la voce soffice di Lila che modulava
il suo canto: 'Vieni con me al masso che sta al limite del bosco'. Il richiamo
d'amore risuonava nelle sue orecchie, frantumandosi in mille echi stridenti a
ogni colpo di fucile.
Huli,
distratto, consumò poche cartucce quel giorno, ma riuscì comunque ad abbattere
quattro aquile. Kafir, come un bambino invitato a servirsi quanto voleva in un
negozio di dolciumi, non sapeva più dove puntare. A ogni colpo fortunato
lanciava urla di vittoria, che facevano risuonare le valli e si ripercuotevano
in echi gelati da una parete all'altra. Tornarono al villaggio solo quando
furono troppo carichi di prede per poter continuare.
Non abituato
all'altitudine, Huli era così esausto che si addormentò sul prato fuori dalla
capanna, sotto il sole violento ma freddo. Quando si svegliò era il tramonto.
Sulle sue membra sudate qualcuno aveva steso una coperta, un ramo di pino
infitto nel terreno copriva il suo volto dai raggi troppo forti. Lila lo
guardava sorridendo, con una ciotola di minestra fumante in mano.
Quella sera
non ci furono racconti né canzoni, i cacciatori erano troppo stanchi e
intontiti.
"Che
farete di tutta quella carne?" chiese il cieco.
"E' un
regalo per gli abitanti della valle" rispose Huli. "Noi prenderemo
solo qualche trofeo, pelli, corna, penne, roba così, da mostrare agli amici di
città per vantarci delle nostre imprese. I fegati delle aquile, naturalmente,
sono per Kul, perché dimostri benevolenza agli stranieri che hanno violato il
suo territorio e a voi che ci avete ospitati."
"Allora
domani faremo una grande festa. Sarà una festa di benvenuto per voi, di
propiziazione per Kul, e di allegria per tutti. Mangeremo e canteremo, faremo
incantesimi e gare. Domani è il solstizio d'estate."
I cacciatori
trascorsero la mattinata sparando ancora qualche colpo sui pendii dietro al
tempio, e tornarono con un bottino abbondante di piccola selvaggina che
consegnarono ai cuochi occupati a scuoiare, arrostire, friggere, bollire,
condire, tagliare, salare e ungere sotto una tettoia di frasche. Le donne
impastavano rimestavano filtravano tritavano sotto un'altra tettoia, dalla
parte opposta del ruscello, che si guadava saltando su una fila di pietroni
affioranti. Vi erano fuochi vivi e forni
scavati nel terreno. Poco prima del tramonto, il cibo era pronto: una lunga
tavolata di assi, coperta di foglie verdi, sosteneva pezzi di carne cucinata in
mille modi, pane di ogni tipo, gonfio, piatto, lungo, a tocchi, dolci di latte,
noci e miele, stufati di erbe selvatiche, cipolle, radici, funghi, mele cotte e
crude, budini di sangue, spiedini di interiora, trote del ruscello cotte nella
brace, orci di grappa di riso, bottiglie di vino offerte da Huli, pentoloni di
brodo e latte bollente, liquori aromatici ricavati dalle bacche che crescevano
nella valle e, in un prezioso bacile d'argento cesellato, i quattro fegati
d'aquila crudi, che sarebbero stati
portati in processione al tempio alla fine della festa.
Intanto, sui
prati circostanti, i giovani si divertivano in gare di salto, di corsa, di tiro
con la fionda, mentre le ragazze, sedute in circolo attorno a una vecchia, si
facevano insegnare incantesimi d'amore e formule magiche per la fecondità.
Huli,
preoccupato per la quantità di alcol che si vedeva sulle tavole, chiese al
cieco:
"Non
sarebbe meglio portare a Kul il suo pasto prima che tutti siano ubriachi?"
"No,
faremo la nostra offerta a notte alta. Kul, affamato per i profumi di cibo che
giungono al suo tempio fin da stamattina, apprezzerà di più il dono. Non gli
succede sovente di avere un piatto così abbondante."
Tutti gli
abitanti della valle si erano riuniti accanto alle tettoie, ben coperti di
pelli e lana per resistere al freddo della notte incombente. Le donne portavano
al collo, alle orecchie e sul capo turchesi, coralli, lapislazzuli e perle in
mazzi e fili attorcigliati, gli uomini si erano legati ai capelli lunghe trecce
di lana rossa e verde, gli anziani avevano alti berretti di pelo e mantelli che
arrivavano ai piedi. Il banchetto ebbe inizio appena l'ultimo raggio di sole si
ritirò dall'ultima cima ancora rosea. Come a un segnale, tutti si buttarono sul
cibo, senza affanno, con una specie di ansiosa dignità. Ognuno caricava di vivande una grande foglia, poi si scostava
dal tavolo per lasciare spazio agli altri, e mangiava con il viso un po'
voltato da un lato, per proteggersi dagli sguardi altrui. I bambini correvano
come topolini tra le gambe degli adulti, arraffando quello che potevano
raggiungere. A parte i più piccoli che non camminavano e dovevano essere
imboccati, nessuno si occupava di loro.
Ben presto
qualcuno cominciò a suonare. Intorno si formò un circolo e si alzarono voci nel
canto. Suonatori e cantanti si alternavano sovente, mentre altri, allacciandosi
per mano e saltando sull'erba umida, danzavano vivaci e severi al contempo.
Solo i più vecchi sentivano il freddo, seduti nei loro mantelli come in una
tenda, mentre i giovani buttavano via scialli, giacconi e berretti, con le
facce che avvampavano nel buio come torce, accesi dal cibo, dall'acquavite e
dalla danza. Grandi falò erano stati accesi tutt'intorno al prato dove si
svolgeva la festa.
Huli, seduto
accanto al cieco, seguiva il ritmo della musica dondolando il capo, ma non si
univa ai ballerini. Ovunque, nella semioscurità, vedeva splendere gli occhi di
Lila come verdi fuochi fatui che volteggiavano instancabilmente, senza mai spegnersi
neanche per un attimo, danzandogli intorno, ammiccando, più verdi dell'erba del
prato. Lila non cantò quella sera, e Huli, chissà perché, ne fu lieto.
A notte alta,
quando le danze cominciavano a morire e i fuochi si trasformavano in braci,
accanto alle tavolate ormai vuote di cibo si formò una processione. Una vecchia
prese il bacile d'argento con i fegati d'aquila e si diresse lentamente verso
il tempio. In ordine sparso, le coppie giovani allacciate, i bambini stanchi
che si trascinavano a stento, i vecchi appoggiati ai bastoni, le donne
chiacchierando tra loro come al mercato, tutti seguirono il corso del ruscello
e poi salirono il pendio sull'erba umida di rugiada. La porta del tempio era
spalancata; dentro, un fuoco ardeva in un tripode, lanciando ombre sulle pareti
di legno scuro, scolpite in ogni centimetro e dipinte in bianco e rosso. La
vecchia distribuì una manciata di foglie aromatiche sui fegati d'aquila,
aggiunse un pizzico di sale e una tazza di acquavite, poi vi gettò un tizzone
preso dal tripode e posò il bacile fiammeggiante sul pavimento. Dietro la
cortina di fuoco, Huli riuscì a distinguere un'enorme radice nera che sembrava
contorcersi e danzare al ritmo delle fiamme.
"Lila,
canta qualcosa per Kul!" gridarono delle voci.
Ma Lila, approfittando
del buio, era scivolata al fianco di Huli e l'aveva preso per mano. Dolcemente,
senza quasi che lui se ne accorgesse, lo trascinò lontano dalla folla, verso il
bosco di abeti che cresceva in fondo alla valle. Senza mai parlare,
stringendogli le dita con le sue dita ardenti, lo condusse dietro al masso al
limite del bosco. Non c'era nessuno sul letto di muschio. Huli stese il
mantello per terra, Lila aprì il suo scialle nero per farne una coperta.
Abbracciati in quel tiepido letto si liberarono dai vestiti e si amarono finché
l'alba riempì la valle di nebbia azzurrina e tinse le cime di un rosa tenero
che sembrava l'interno di una conchiglia. Per tutta la notte, le fiamme verdi
degli occhi di Lila non si erano mai spente.
Quando
tornarono alla capanna, dormivano ancora tutti. La porta del tempio era chiusa
e sprangata, solo un sentiero di erba calpestata testimoniava che durante la
notte una folla aveva visitato la dimora di Kul. Huli e Lila scivolarono nel
buio denso di fiati e di sudore e si addormentarono sulla paglia accanto agli
altri.
Il risveglio
fu faticoso per tutti. I cacciatori spararono qualche colpo svogliato nel
bosco, gli abitanti della valle ripresero le loro faccende quotidiane con gesti
lenti e stanchi. La sera, il promesso
sposo di Vina venne a chiedere se c'era una speranza che la ragazza tornasse.
Kafir scosse il capo, Huli lo invitò a sedere accanto al fuoco.
"Non
tornerà" disse.
"Perché?"
"Mi ha
detto che ama un soldato, non si sente più adatta alla vita rude della
montagna. Ricorda che Vina ha bevuto vino e mangiato pesce di mare, è
contaminata dalla dolce pigrizia di Lalapur. Ma prova nostalgia, non vi ha
dimenticati. Se sono qui, è perché ho sentito una sua canzone che parlava della
valle. E' lontana, canta di voi, ma non tornerà."
"Ah"
disse il giovane. "Non importa, c'è sempre Lila, mi consolerò con lei. Ho
saputo che sei stato con lei al masso dove le coppie si sollazzano. Ma tu
partirai, e Lila rimarrà qui, con me."
Huli lo guardò
negli occhi.
"Lila
partirà con me. Non la lascerò tra questi barbari a fare bambini mostruosi, con
i piedi impastati di fango e aghi di pino tra i capelli. Verrà con me in città
e sarà la più bella tra le belle, ti assicuro."
Il promesso di
Vina alzò i pugni davanti al viso, pieno di minaccia.
"Chi ti
credi di essere?"
"Non
importa chi sono, Lila verrà con me."
"Lei è
d'accordo?"
"Chiediamoglielo."
Chiamarono la
ragazza, che stava preparando la cena sul focolare fumoso della capanna.
"Verrai
con me in città?" chiese Huli.
"Verrò"
rispose Lila. I suoi occhi verdi splendevano nell'oscurità con una fiamma
tranquilla e serena. "Verrò con te, Huli, dovunque tu mi voglia
portare."
"E il
nonno?" gridò il promesso di Vina.
"Te lo
affido. Non può stare solo, è cieco, lo sai. Abbine cura. Ti manderò del denaro
per lui, ma tu aiutalo, è vecchio, ha bisogno di qualcuno che lo accudisca. Ti
affido anche la capanna, Tutto è tuo, ormai. Io porterò con me solo la mia
chitarra."
© © ©
Il ritorno fu
lento come l'andata, ma a Huli e Lila parve rapido. Brevi notti febbrili nelle
locande si alternavano a lunghe giornate a cavallo, in cui Lila, in arcione
dietro a Huli, aggrappata alla sua schiena, guardava con occhi grandi come
piattini la vita della pianura. L'arrivo a Lalapur al tramonto, tra voli di
rondini e corvi, nell'incendio delle torri e del mare, la lasciò
in uno stato di stupore che durò un paio di giorni.
Chiusa in una
stanza al piano terreno del palazzo, in un cortile con un giardino ombroso in
cui chioccolava una fontana, la ragazza dovette subire le attenzioni delle
serve che la lavarono, la strofinarono, la profumarono nel tentativo di fare
sparire l'odore di capra che le aleggiava intorno. I suoi piedi, ripuliti dal
fango che si era incrostato come un paio di stivali, divennero del colore delle
perle, secondo l'aspettativa di Huli. I suoi lunghi capelli ricci furono
lisciati e intrecciati con ghirlande di gelsomino, le mani grattate con pietra
pomice, le unghie lucidate con pezze di
velluto, la sua pelle ammorbidita dai bagni e dai massaggi divenne seta
marezzata, mussola leggera, raso per le
mani di Huli. La ruvida lana e le pelli che la coprivano furono sostituite con
veli trasparenti, tuniche impalpabili, fili di perle iridescenti. La pastora
dagli occhi verdi, odorosa di ovile e fuoco di fascine, divenne una bambola
profumata ed elegante. Huli ogni notte la raggiungeva, pieno di ardore, pallido
per il desiderio, le mani frementi per la voglia di toccarla, il cervello muto.
Lila, travolta dal suo stesso desiderio, era felice solo quando lo vedeva
arrivare.
Tutti, nel
palazzo, erano al corrente della passione di Huli e non parlavano d'altro. Era
la prima volta che il principe si comportava in modo così imprudente e
sfacciato, imponendo a Sita una rivale nella sua stessa casa. Asan soprattutto,
che a suo tempo aveva combinato il matrimonio con un'estenuante lavoro di
diplomazia, era indignato. Ma parlare con Huli era diventato impossibile. Sdraiato
sui cuscini della sua stanza preferita, in cima alla torre da cui poteva vedere
tutta la città, trascorreva giornate indolenti, lasciando al ministro la cura
dello stato.
"Fai come
ti sembra meglio" rispondeva ogni volta che Asan, ansimando per i troppi
gradini, gli sottoponeva qualche problema.
Sempre più
sovente, dopo lo sforzo della salita, Asan trovava vuota la sala nera. Huli era
nel cortile di Lila, i servi sonnecchiavano seduti sui tappeti, il capo
appoggiato alle ginocchia, non si curavano nemmeno di alzarsi in piedi vedendo
il ministro rosso in viso, con il sudore che gli colava nel collo. La polvere
copriva i cuscini, i vetri delle finestre erano opachi, le lanterne non
venivano più accese. La sera, gli abitanti di Lalapur, alzando gli occhi verso
le finestre della torre che erano abituati a vedere sempre illuminate,
incontravano solo il buio.
"Il
principe è dalla sua puttana" dicevano con un risolino, e tiravano via,
verso le osterie sfavillanti di luci e calde di vino, ad ascoltare le canzoni
di Vina e delle altre cantanti che rallegravano le serate della città.
L'ossessione
di Huli per Lila aumentava di giorno in
giorno. Prese l'abitudine di passare le giornate accanto a lei, per osservarla
in ogni momento della sua vita. Quando le donne le preparavano il bagno,
controllava la temperatura dell'acqua, sceglieva i profumi da versarvi, la
lavava lui stesso con una spugna di mare, senza strofinare per non sciuparle la
pelle, la asciugava con un lenzuolo di raso, la spalmava di unguenti, la
imboccava quando aveva fame, un cucchiaino di composta di rose, una fragola, un
boccone di petto di quaglia tagliato con le sue mani. Si divertiva a disegnarle
degli abiti, ogni volta più ricchi e complicati che decine di sarti cucivano in
un giorno; la sera glieli strappava di dosso, distruggendo in un minuto l'opera
costata tanta fatica. La copriva di gioielli. La baciava per ore e ore, ogni
centimetro di pelle e ogni anfratto del corpo, le faceva assumere le posizioni
più assurde e la disegnava, la copriva di miele e la leccava da capo a piedi,
la maneggiava come una bambola e la adorava come una dea, finché Lila
esasperata e quasi pazza per l'eccitazione l'implorava di prenderla, lì,
subito, davanti alle donne e ai sarti, ai gioiellieri e ai cuochi, perché non
poteva aspettare un secondo di più. Huli continuava con i suoi giochi
estenuanti, il bagno dopo essersi rotolati in un letto di corolle di
frangipani, mezza melagrana passata da bocca a bocca chicco per chicco, un velo
drappeggiato su un velluto stracciato con i denti e le unghie. Solo a notte
alta dava sfogo al suo desiderio, su un giaciglio di seta accanto alla fontana.
Non le parlava quasi mai.
L'unico
momento che Lila aveva per sé, ormai, era la mattina, quando Huli per qualche
ora la lasciava per vedere Asan, la moglie e i figli. Avrebbe voluto uscire dal
palazzo, visitare la città che aveva solo intravisto, fiammeggiante nel
tramonto, la sera del suo arrivo, ma temeva che Huli gliel'avrebbe proibito; senza il suo permesso
non aveva il coraggio di fare nulla. Soprattutto, le sarebbe piaciuto vedere il
mare e toccarne le onde. Invece rimaneva nel cortile, passeggiava nei vialetti
odorosi di gelsomini e frangipani, si specchiava lungamente nella fontana.
Quello che vedeva non cessava di stupirla. Era davvero lei quella ragazza
diafana, con la pelle così liscia da sembrare iridescente, i capelli lucidi e
soffici, sempre intrecciati con fili di perle e gocce di malachite, le mani
pallide e curate, le labbra rosse per i morsi e i baci del suo amante, gli
occhi profondi e torbidi come uno stagno? E i piedi, quei piedi bianchi come la
neve e ornati di anelli preziosi, piedi che avrebbero sanguinato a camminare
sul muschio più morbido, le appartenevano davvero? Immergeva le mani nell'acqua
per distruggere l'immagine che la turbava, poi le ritirava di scatto nel timore
di perdere le gemme che le ornavano. Non sapeva che cosa pensare della sua
nuova vita.
Anche Huli non era più lo stesso.
Nella valle le era apparso come un eroe delle leggende che raccontava il nonno,
alto sul suo cavallo, con il fucile in mano e il turbante nero che lo faceva
sembrare terribile e regale. Lo aveva amato senza chiedersi chi era, ora che lo
sapeva sovrano del suo paese le pareva insieme più piccolo e più estraneo.
Talvolta lo guardava dormire sotto la tenda bianca che difendeva il loro letto
dalla vista delle cento finestre affacciate sul cortile dalle torri. Lo vedeva
pallido, estenuato, dei grandi cerchi neri sotto le ciglia scure, i riccioli
umidi di sudore sparsi sul cuscino. Nel sonno, le braccia parevano deboli, la
pelle troppo cerea, le spalle curve, il ventre infantile. Talvolta avrebbe
voluto pizzicarlo per fargli aprire gli occhi e ritrovare l'azzurro del suo
sguardo, che la faceva sempre rabbrividire di piacere. Ma rimaneva lì,
appoggiata sul gomito, a guardare l'amante addormentato alla luce della
lanterna schermata di rosso che illuminava l'alcova. E si chiedeva chi fosse
veramente l'uomo che passava le sue giornate ad adorarla e strapazzarla come
una bambola.
Una mattina, Lila ricevette una
visita. Una ragazza bruna dai corti riccioli neri si presentò nel cortile,
vestita con un abito elegante di seta viola a fiori arancioni. Un'alta cintura
d'oro le stringeva la vita. Lila rimase a guardarla un attimo prima di riconoscere
la sorella.
"Vina!" esclamò
abbracciandola con un sollievo inaspettato. Non erano mai state molto legate
finché avevano vissuto insieme.
Vina la osservò a lungo.
"Se non sapessi che sei
proprio tu, non ci crederei" disse con voce fredda. "Sei molto
cambiata, Lila."
"Lo so. Oh, se lo so! Sono
così cambiata che non mi riconosco neppure io."
"Stai bene a palazzo?"
"Sto bene."
"Il nonno?"
"E' affidato a Dil. Gli ho
lasciato tutto partendo, il nonno e la capanna."
"Dil mi aspetta
ancora?"
"Non credo."
"Meglio così. Non tornerò
mai nella valle. Mi piace questa città."
Lila la guardava con invidia.
"Giri liberamente per le
strade? Puoi vedere il mare?"
"Oh, certo. Il mio amico, un
soldato che si chiama Varna, mi porta in barca tutte le volte che voglio. Ho
nuotato in mare. Non hai idea come sia calda l'acqua del mare. Piscio di capra,
davvero."
Lila scoppiò a ridere.
"Piscio di capra? Dev'essere
stupendo nuotarci dentro! Oh Vina, come sei fortunata! E Varna ti tratta
bene?"
"Varna mi ama, è diverso. Certe
volte mi tratta bene, certe volte mi prende a sberle, ma io gliele rendo.
Guadagno un sacco di soldi cantando le canzoni della valle, e altre che
compongo io. Piacciono moltissimo alla gente di qui. Questa gente va matta per
la musica."
"Huli non mi ha più chiesto
di cantare da quando siamo qui. E' come pazzo, gioca con me come se fossi di
cera, mi gira, mi rigira, non mi lascia mai stare."
"Così dice la gente. E'
impazzito per la sua puttana pastora, dice la gente. Trascura la sua sposa che
è tanto bella, trascura gli affari di stato, non pensa più che alla sua puttana
che puzza di stalla. Così dice la gente, ma tu non puzzi affatto. Anzi, sembri
una signora, e profumi di ambra."
"Che ne so di che cosa
profumo. Ci sono quattro donne che passano il tempo a lavarmi, strigliarmi,
ungermi, strofinarmi, un tormento. E quando loro hanno finito, arriva Huli, e
si ricomincia."
"Di che cosa ti lamenti? Sei
coperta di gioielli, l'anello che hai al mignolo mi farebbe vivere per un mese.
Tu sei fortunata, Lila."
"Forse."
Sedute sul bordo della fontana,
le sorelle mangiavano dolcetti di zibibbo e miele, bevendo latte di mandorle.
"Mi canteresti la canzone
della valle, quella che ha fatto venire a Huli il desiderio di vedere le
montagne?" chiese Lila.
"Non ho la chitarra con
me."
"C'è la mia."
Lila gridò un ordine. Una donna accorse portando lo strumento.
"La chitarra di Kul!"
esclamò Vina, con rispetto. "Non mi hai mai permesso di usarla."
"Ora puoi. Ti prego,
canta."
Vina sgranò le sue note
accordandole con la musica della fontana. Quando cominciò a cantare, Lila
chiuse gli occhi. Larghe lacrime trasparenti scivolavano sulla pelle chiara
delle sue guance.
"La mia valle sospesa l'ho
lasciata per sempre, nessun vento potrà portarmi indietro" cantava Vina.
Quando ebbe finito, Lila la
guardò interrogativamente.
"Hai composto questa
canzone, e non vuoi mai più tornare sulle montagne? Non ti capisco, Vina."
"Tu vorresti tornare
indietro?"
Lila tacque per qualche istante,
poi sollevò gli occhi verdi e fissò la sorella.
"Sì, vorrei tornare
indietro."
"Malgrado Huli e le quattro
donne ai tuoi ordini, i gioielli, i vestiti, i baci, le carezze, i bagni
profumati, le mandorle candite?"
"Sì."
"Neanch'io ti capisco, Lila.
Che cosa ti trattiene, allora?"
"Amo Huli."
Vina si alzò, posò la chitarra
accanto alla fontana e si aggiustò il vestito.
"Me ne vado" disse.
"Varna mi aspetta per pranzo. Ha una mezza giornata libera. Non potresti
suggerire a Huli di aiutarlo nella sua carriera? Sarebbe adattissimo a fare
l'ufficiale. Per ora, è inchiodato alla guardia sulle mura, un incarico mal
pagato e faticoso. Parla al principe, basterebbe una sua parola perché Varna
fosse promosso ai più alti gradi."
"Lo farò, ti prometto. Huli
non mi nega niente. D'altra parte, io non ho mai niente da chiedergli."
Le sorelle si salutarono con un
bacio, forse il primo della loro vita.
"Tornerò quando posso"
disse Vina. "Non è stato facile convincere le guardie di palazzo a farmi
entrare."
"Dirò che ti lascino passare
quando vuoi. Torna presto, ti prego. Non mi diverto tanto qui."
© © ©
Sita non permetteva che nella sua
torre e nel suo giardino penetrassero pettegolezzi. Una donna che aveva osato
raccontarle quello che succedeva nelle stanze di Lila era stata frustata a
sangue davanti alle altre, perché la sua punizione servisse da lezione a tutte.
Solo Giara teneva informata la principessa, in gran segreto. Asan si recava
tutte le sere a farle visita, prendeva notizie della sua salute e di quella dei
figli, ma nemmeno con lui Sita parlava del comportamento del marito. Con un
cenno della mano inanellata gli chiudeva la bocca ogni volta che il ministro
cercava di intavolare il discorso.
"Huli è padrone nella sua
casa" diceva "faccia quello che vuole. Non mi ha mai mancato di
rispetto, non sarò io a fargli torto criticando la sua condotta."
Tuttavia, lo scandalo a palazzo
era grande e dilagava in città. Il popolo, amante delle chiacchiere e dei
piaceri, non era indulgente con il suo sovrano. Come poteva Huli infliggere
alla moglie una tale umiliazione, per una donna da niente, una sporca pastora
di capre che impestava della sua puzza stanze e giardini, una puzza che non
sarebbe mai sparita neanche se si fosse lavata e strofinata tutto il giorno per
sette anni? Ne discutevano i ricchi mercanti, le venditrici di pesce al
mercato, i pescatori nelle loro barche, le cantanti invidiose della fortuna di
Lila, i musicisti raffinati, i soldati intorno ai fuochi sulle mura. Vina raccoglieva
le voci e le riportava alla sorella. Lila ascoltava distratta, gli occhi pesti
per il troppo amore, sorrideva in silenzio.
"Nessuno può capire"
diceva "è come una follia. Huli è diventato pazzo, e anch'io lo sono
ormai. Vorrei fuggire, ma non potrò mai abbandonare questa città che non
conosco ancora. Non mi tormentare, Vina, non raccontarmi più niente."
"Vorrei vedere il mare"
disse una sera a Huli. Lui la condusse per mano nella stanza in cima alla
torre, aprì per lei la finestra di ponente, le mostrò le acque fiammeggianti e
poi nere, il cielo che si copriva di un incendio sanguinoso all'orizzonte.
Quella sera gli abitanti di Lalapur videro di nuovo una luce alle finestre
della torre e si rallegrarono, ma la mattina dopo si sparse la voce che Huli aveva
condotto la sua puttana fin lassù. Questo parve quasi un sacrilegio. Una
delegazione di cittadini influenti si recò da Asan, pregandolo di intervenire
per riportare il sovrano alla ragione. C'erano troppe chiacchiere in città,
l'indignazione aumentava, i borghesi temevano disordini e ribellione tra il
popolo. Asan promise che avrebbe fatto tutto quello che era in suo potere.
Da quel momento, non perse
occasione per ricordare a Huli i suoi doveri, malgrado il principe, come unica
risposta, lo minacciasse di farlo spellare vivo sulla piazza del mercato o
annegare lentamente in un catino. Nemmeno le velate allusioni all'infelicità di
Sita ottenevano risposta, né serviva evocare il nome dei figli.
Tuttavia, qualcosa rendeva
inquieto Huli. Talvolta, arrivando nel cortile di Lila, la trovava seduta sul
bordo della fontana, con le guance coperte di lacrime, le mani in grembo, i
capelli sciolti e privi di ornamenti. Le donne preoccupate gli riferivano che
la ragazza aveva rifiutato di lasciarsi vestire, aveva respinto i gioielli, i
massaggi, i profumi.
"Che cosa ti addolora, amore
mio?" chiedeva ansioso il principe. Ma Lila scuoteva il capo, triste e
silenziosa. Dopo un poco, le carezze dell'amante la ravvivavano e la notte
odorosa si chiudeva sulle loro tenerezze.
"Perché non mi chiedi mai di
cantare per te?" volle sapere una volta.
"Non voglio che canti le
uniche canzoni che sai. Parlano della valle e potrebbero farti venire la
nostalgia delle montagne e della tua vita di un tempo. Io stesso, solo per aver
ascoltato la canzone di Vina, sono stato preso da una nostalgia invincibile per
luoghi che non avevo mai visto."
"La nostalgia la provo anche
senza cantare. Certe volte è così forte che vorrei non averti mai conosciuto.
Nel mio cuore c'è una battaglia continua tra l'amore per te e il desiderio di
bagnarmi nel ruscello gelato e camminare scalza sul muschio. La notte sogno Kul
che mi chiama con la sua voce di tuono. Forse, se tu mi lasciassi andare,
saremmo più felici tutti e due, amore mio."
Huli, agghiacciato, la strinse in
un abbraccio furioso.
"Mai, mai ti lascerò andare.
Senza di te non potrei più vivere nemmeno per un istante. Baciami e dimentica
che non sei nata il giorno del tuo arrivo a Lalapur. Sei mia per sempre. Non
posso sopportare di sentirti parlare così."
Asan continuava a tenere fede
alla promessa fatta ai cittadini, ma aveva adottato una nuova tattica. Quando
vedeva Huli scontento o inquieto, chiedeva che cosa lo tormentava, lo ascoltava
con pazienza, lo aiutava a scavare nelle ragioni della sua irragionevole
passione, si dimostrava comprensivo e sollecito come con un malato. Lila, da
parte sua, diventava sempre più triste e si sottoponeva ai rituali dell'amore
con una crescente, opaca e indifferente passività. Huli, che soffriva terribilmente, finì per adottare il
punto di vista di Asan e considerarsi malato di una malattia inguaribile.
Giunse a cercare la compagnia di Sita nel tentativo di vedere se poteva vivere
con un'altra donna le sensazioni che gli dava Lila, ma non riuscì nemmeno a
trascorrere una notte con lei. La condusse nella stanza che avevano diviso per
tanto tempo, la baciò e la attirò sul letto, ma dopo pochi attimi si alzò e,
scusandosi goffamente, la lasciò discinta e piangente sulle lenzuola appena
scomposte. Quel pianto lo colpì più di tutti i rimproveri di Asan. A lungo
sentì risuonare il grido che era sfuggito a Sita mentre lasciava la stanza:
"Huli, tu mi uccidi!"
I giochi d'amore con Lila
assunsero delle sfumature crudeli. Più si rendeva conto che un suo
comportamento la estenuava o la feriva, più si ostinava a imporglielo. La
vestiva e la svestiva, la ornava come un idolo e la costringeva a passeggiare
nuda per il giardino, sotto lo sguardo delle donne che la servivano, la
prendeva e la riprendeva scontrandosi con la tristezza invincibile dei suoi
occhi verdi, sempre più profondi e inflessibili.
Certe volte, in piena notte, Huli
veniva svegliato da un lamento e la sorprendeva immobile, ancora coperta del
sudore dell'amore, le fiamme verdi dei suoi occhi accese come lanterne nel buio
dell'alcova.
"Scusami" mormorava
Lila con voce sommessa "ho sentito Kul che mi chiamava. Ho portato via la
chitarra sacra, nessuno nella valle può più cantare per acquietarlo quando è
infuriato."
Allora Huli la stringeva fino a
farla gridare per il dolore, le piantava le unghie nella carne, le morsicava le
labbra in un bacio disperato.
"Sei mia, nemmeno Kul può
vantare diritti su di te."
Ricominciavano le carezze,
ricominciavano gli amplessi, ma anche nei rantoli di piacere di Lila ormai
c'era una nota di dolore.
Huli cominciò a chiedersi se non
c'era una maniera di guarire dalla sua malattia d'amore.
"Che cosa mi attira tanto in
lei?" ragionava ad alta voce, perso nelle sue ossessioni, quando Asan gli
offriva il suo orecchio compiacente.
"Gli occhi" rispose una
volta Asan. "Parli sempre dei suoi occhi, di come nella capanna non si
spegnevano mai, della loro luce verde che illumina e infiamma le tue notti.
Devi liberarti dei suoi occhi, poi potrai liberarti di lei."
"Hai ragione" rispose
Huli colpito. "E' proprio vero. E' quel colore che mi strega, quella
profondità di stagno, quella freddezza di crepaccio, quella trasparenza di
ghiacciaio. Liberami dai suoi occhi, Asan, pensaci tu."
Asan non si fece pregare. La
mattina dopo, appena Huli ebbe lasciato il cortile, si presentò da Lila. La
ragazza era seduta sul bordo della fontana e contemplava il proprio viso
pallido riflesso nell'acqua.
"Lila" disse il
ministro "sono qui per svolgere un compito ingrato. Non devi prendertela
con me, agisco per conto di Huli. Per il suo bene e per quello dello stato. Lo
sai che la tua presenza e il potere che eserciti sul sovrano sono fonte di
disordine."
"Lo so" rispose Lila
"e sarei felice di andarmene, se Huli me lo permettesse. Ho una nostalgia
terribile delle mie montagne."
"Huli non te lo permetterà
mai, finché i tuoi occhi continueranno a ossessionarlo."
Trasse dalla manica un pugnale
d'argento e glielo mostrò.
"Non ti farò male, lo giuro.
Non vedrai più le montagne, ma respirerai l'aria fredda e sentirai l'odore delle capre. Mi avevano
detto che puzzavi, invece profumi di
frangipani."
Lila non cercò di fuggire, non si
dibatté, rimase immobile mentre Asan le cavava gli occhi col pugnale. Immerse
una mano nella fontana e si deterse il sangue che le colava sulle guance.
© © ©
All'ora del tramonto, quando il
cielo sopra il cortile prendeva una tinta che andava dal verde pallido al
rosso, Huli raggiunse la sua amata. Lei sedeva sul letto di seta con il busto
ritto, le braccia tese dietro la schiena, appoggiata alle palme aperte. La
tenda era già piena d'ombra, ma l'abito di garza d'oro disegnava le forme di
Lila come un pallido riflesso del tramonto.
Huli si inginocchiò davanti a lei
e le prese le mani. Due buchi neri, sanguinosi e purulenti, le foravano il
viso. Huli nascose il viso nel suo grembo e scoppiò in singhiozzi.
"Oh amore, amore mio"
gemette "mia dolce capretta dagli occhi verdi, chi ti ha sconciata così?
Chi ti ha fatto tanto male? Chi ha potuto spegnere la luce che illuminava la
mia vita dal momento che ti ho incontrata?"
Lila, disperata della sua
disperazione, lo abbracciò e lo baciò sulla bocca, lo carezzò, gli mormorò
dolci parole fino a quando finalmente Huli si fu calmato. Giunsero le donne a
portare vino, bocconcini di agnello di latte e frutta. Il principe cibò la
ragazza passandole una sorsata di vino, un pezzetto di carne, una fettina di
melone con le sue labbra morbide. Lila mangiava appena, beveva appena, mentre
dalle orbite nere scendevano lacrime di sangue, senza smettere di carezzarlo. Appena la sua bocca fu libera,
mormorò:
"Huli, ti amo. L'idea di non
rivedere mai le mie montagne è terribile, ma ancora più terribile è sapere che
non rivedrò il tuo dolce viso."
Fu una notte lunga e appassionata.
Al mattino, le guance di Huli erano sporche di sangue, ma lui non se ne curò.
Si specchiò nella fontana, si lavò con due dita, e se ne andò dicendo:
"A più tardi, amore
mio."
Per qualche giorno, Huli parve
tranquillo, continuò a frequentare il cortile di Lila ed evitò Asan. Ma ben
presto fu ripreso dal tormento di vedere la sofferenza della ragazza, che non
poteva piangere ma era sempre più nostalgica e passiva. Talvolta la sorprendeva
intenta a cantare sottovoce delle canzoni della valle, senza chitarra, con un
tono talmente pieno di dolore che non riusciva a trattenere le lacrime. Infine,
una mattina andò a cercare Asan.
"Non è bastato" gli
disse "non erano gli occhi che mi attiravano in lei. Ora ho capito che è
la sua voce, quella voce bassa e scura, che mi riempie di desiderio e nostalgia
di qualcosa che non conosco. Se non potesse più dirmi che mi ama, forse
riuscirei a dimenticarla."
Asan capì al volo. Non rispose,
ma mezz'ora dopo era nel cortile di Lila, con il pugnale d'argento in mano.
"Niente di personale,
pastora" disse a Lila che come sempre sedeva sul bordo della fontana,
anche se ormai non poteva più specchiarsi nell'acqua chiara. "Huli mi ha
ordinato di farlo. Apri la bocca, mostrami la lingua. Le tue parole d'amore
sono veleno per la città di Lalapur e il suo signore."
Lila spalancò le labbra rosse e
tirò fuori la lingua appuntita come quella di un serpente. Un colpo veloce di
pugnale fu sufficiente. La sera, quando Huli arrivò nel cortile, le donne
tremanti ascoltarono a lungo le sue grida straziate.
Ancora una volta Lila riuscì a
calmare l'amato con la dolcezza delle sue carezze, ancora una volta Huli
sprofondò in un sonno più nero della notte sul petto di lei. Per alcuni
giorni raddoppiò le cure all'idolo cieco
e muto, coprendo ogni centimetro della sua pelle di pietre preziose e baci
ardenti, descrivendole ogni minimo mutamento della luce nel cortile, bruciando
profumi sotto le sue narici, cullandola per farla addormentare dopo averla
strapazzata nell'amore, cantandole dolci canzoni che non aveva mai saputo di
conoscere. Lila lo accarezzava, e con ogni carezza gli diceva che lo amava
sempre.
Quando Huli tornò da Asan, questi
lo guardò con timore. Tutto il palazzo tremava di fronte alla nuova follia del
principe, anche Sita aveva chiesto pietà per la rivale.
"Questa volta ho capito
davvero" disse Huli "sono le sue mani che mi fanno impazzire. Finché
continuerà a carezzarmi, non riuscirò a liberarmi di lei. Aiutami, Asan."
Il ministro esitava.
"Sei sicuro, Huli? Non
costringermi a un nuovo delitto inutile. Ti sono fedele, voglio aiutarti, so
che agisco per il bene di Lalapur e dei suoi abitanti, ma non sono un
macellaio. Non mi piace quello che devo
fare."
"Aiutami ancora questa
volta, Asan. Sono certo che quelle mani mi incatenano."
Il pugnale non bastava. Asan si
presentò nel cortile con un'accetta d'argento, ma Lila non si spaventò, perché
non poteva vedere che cosa portava con sé il ministro. Comunque, non avrebbe
potuto dare voce al suo terrore.
"Porgi le mani, Lila"
disse Asan.
La ragazza stese le sue mani
bianche come il latte. Cadendo sul marmo che lastricava il cortile, le gemme
che le ornavano fecero un rumore tintinnante. La sera, Huli levò urla inumane
di fronte alle bende insanguinate che coprivano i polsi di Lila.
"Chi è stato, oh chi è
stato, dimmelo amore mio che lo ucciderò a frustate, lo scorticherò vivo, lo
appenderò alle mura perché i corvi lo spolpino con i loro becchi aguzzi!"
Nessuno rispose ai lamenti di
Huli. In fondo al cortile, strette l'una all'altra come pecore in uno stabbio,
tremanti e ammutolite, le donne ascoltavano. Anche quella notte Huli cibò la
sua amata come un canarino in gabbia, la coprì di carezze, le sussurrò
all'orecchio parole d'amore, la baciò, la leccò, la annusò e la strinse fino a
stramazzare esausto sul letto di seta. E ancora una volta, muta, cieca e monca,
Lila riuscì a ricambiare l'amore di Huli e a comunicargli che lo amava.
Passarono alcuni giorni. Una
mattina, mentre Lila, pallida, avvolta in una tunica di raso bianco, si
aggirava per i vialetti aspirando il profumo dei gelsomini, arrivò Vina. I capelli,
cresciuti, le formavano un crespo scialletto sulle spalle. Era piena di energia, infuriata e addolorata.
"Tutta la città parla delle
inutili sofferenze che il tuo amante ti infligge" disse. "Vieni via
con me, Lila. Nessuno oserà fermarti alle porte del palazzo. Anche l'ultimo dei
suoi armigeri pensa che Huli sia un pazzo scatenato, ed è disposto a rischiare
per salvarti quel tanto di vita che ti resta. Vieni con me. Potrai stare nella
casa dove vivo con Varna. Avremo cura di te, e appena sarà possibile ti
riaccompagnerò alla valle. Non puoi rimanere qui a farti massacrare. Varna
ormai è capo delle guardie delle mura, ti è riconoscente per quello che hai
fatto per lui, è pronto a tutto per aiutarti."
Lila scosse il capo.
"Tu sei pazza come il tuo
amante, sorella" disse Vina. "Vieni via con me, è la tua ultima
occasione per salvarti. Scappa, Lila, non c'è altra soluzione. E' terribile
vedere come sei ridotta. Lila, sei nelle mani di un folle."
Lila si passò i moncherini sugli
occhi spenti, ormai diventati due fessure rosse, sui capelli intrecciati di
zaffiri, sui seni segnati dai morsi di Huli, sulla bocca pallida e silenziosa.
Sorrise appena, scosse di nuovo il capo.
"Non ti capisco" disse
Vina. "Forza, infila un mantello, scappa con me. Ce l'hai un mantello? No?
E' questo che ti frena? Ti darò il mio."
L'avvolse nel suo mantello di
seta viola, la spinse verso la porta.
Lila scosse dalle spalle il tessuto pesante e sedette sul bordo della
fontana. Indicò con un moncherino la sua immagine nell'acqua, che non poteva
più vedere, poi baciò la sorella su tutte e due le guance e le fece cenno di
andare via. Vina si allontanò in un turbine viola, il viso bruno coperto di
lacrime.
"Qualcuno ti vendicherà,
sorella mia! La gente ora ha paura di Kul, teme che scenderà dalle montagne per
fare giustizia."
Lila fece un cenno con un
moncherino a una delle donne che continuavano a servirla. Quella non capì
subito, ma fermò Vina e la ricondusse alla fontana. Lila si alzò, raggiunse le
sue stanze a tentoni, afferrò tra le braccia la chitarra di Kul e gliela porse.
"Sei sicura?" chiese
Vina. "Sei certa che mi vuoi affidare la chitarra sacra?"
Lila annuì. Vina se ne andò
tenendo la chitarra come un bambino.
© © ©
Alla fine Huli comprese che non
c'era niente da fare, era proprio il cuore caldo di Lila che lo incantava.
Quando lo disse ad Asan, questi prima esitò, poi disse:
"Sei certo di quello che
dici? Non ti pentirai? Dopo di sicuro non potrai tornare da lei."
"Non mi pentirò, soffro
troppo. Vedere la mia Lila ridotta in quello stato, così triste, silenziosa,
con i suoi occhi spenti e quei poveri moncherini che non vogliono rimarginarsi,
è uno strazio. Non lo posso più sopportare. Aiutami ancora una volta."
Asan lo aiutò. Quando giunse nel
cortile di Lila, la ragazza sentì il rumore dei suoi passi e gli si fece
incontro. Il pugnale era brillante e pulito come se non fosse mai stato usato,
tanto i servi l'avevano strofinato.
"Scopriti il petto"
disse Asan.
Lila sorrise soltanto, facendo un
cenno. Una donna corse a slacciarle il corsetto di velluto nero. Asan arrossì
per quello che aveva detto.
"Scusami per l'ultima
volta" disse. "Lo sai, non mi diverto affatto a eseguire gli ordini
di Huli. Posso essere sincero, tanto non ripeterai a nessuno le mie parole:
penso che Huli sia stato crudele e stupido con te, non si è comportato da uomo.
Avrebbe potuto lasciarti ritornare alla tua valle. Sono i bambini che rompono i
giocattoli che amano di più perché nessun altro ci possa giocare. Adesso, però,
devo farlo comunque. Prega quel tuo dio che dicono sia tanto collerico, pregalo
perché non si vendichi su di noi per le colpe di Huli."
Lila continuava a sorridere e per
un attimo, malgrado le sue orbite nere e purulente, malgrado le bende che le
coprivano i polsi mandando una puzza di putrefazione, Asan capì perché Huli non
aveva potuto mandarla via. Mentre le affondava il pugnale nel petto, vide i
morsi di Huli sui seni e un'ondata di nausea gli salì in gola. Quando ebbe
portato a termine il suo compito, con il cuore violaceo di Lila in mano, vomitò
in un'aiuola di miosotis e calendule.
Huli non attese la sera per
correre a piangere sul corpo straziato dell'amata. Per ore il cortile risuonò
delle sue grida disperate, mentre le donne in preda al terrore cercavano di
strappargli il cadavere per lavarlo e ricomporlo.
I funerali di Lila furono imponenti. Il suo corpo fu
bruciato in riva al mare, su una pira alta tre metri, fatta di legni preziosi
arrivati apposta dalle montagne. Huli rimase a guardare le fiamme finché non
rimasero che ceneri, gettando profumi a piene mani, il viso come una finestra
sprangata sotto il turbante nero. Nessuno osava rivolgergli la parola.
Il popolo di Lalapur rimase a
lungo sconvolto dall'esito tragico dell'amore di Huli. Non c'erano più
chiacchiere nei mercati né nelle osterie, come se la cosa fosse troppo
terribile per parlarne. Quando Huli fece costruire un grande mausoleo di marmo
rosso nel luogo in cui era sorta la pira, la gente prese l'abitudine di
portarvi tutti i giorni ghirlande e mazzi di fiori, ogni tipo di fiori, rose e
verbene e fiori d'ibisco e collane di frangipani, gelsomini, violette, il cui
profumo aleggiava sempre tra le colonne leggere come gambe femminili, sullo
sfondo del mare luccicante. Al tramonto, molti andavano a sedere sui gradini,
parlando sottovoce o suonando piano piano le loro chitarre.
Si diceva che Asan avesse
ricevuto un vaso pieno d'oro per l'aiuto
dato a Huli. Ben presto, però, il ministro scomparve. Qualcuno dal
palazzo mise in giro la voce che era stato decapitato di notte e seppellito
all'alba in un luogo segreto. Il suo posto fu preso da un giovane ufficiale di
cui nessuno aveva mai sentito parlare, Varna, capo delle guardie delle mura,
che si dimostrò giusto e saggio.
Anche Huli fu un sovrano saggio.
Durante il suo regno la città prosperò. Ebbe altri figli da Sita e a ogni nuova
nascita, in segno di clemenza, concesse la grazia a centinaia di condannati a
morte.
Dalle montagne nessuno scese mai
a visitare il mausoleo di Lila. Tuttavia, la paura della vendetta di Kul non
abbandonò gli abitanti della città. Guardavano le alte torri di Lalapur con
preoccupazione, e le case nuove le costruivano basse, con pareti leggere e
tetti di frasche. Ogni volta che un rumore profondo e improvviso interrompeva
la musica che continuava a ritmare la vita della città, un'onda più forte delle
altre, una botte di vino che rotolava a terra, tutti gli abitanti si fermavano,
gelati dal terrore nel più profondo. Tacevano le chitarre, i cantanti tacevano,
le osterie si facevano di ghiaccio.
"Ecco, Kul è venuto a
vendicare Lila" pensava ognuno.
Poi, lentamente, la vita
riprendeva nei vicoli brulicanti di Lalapur. Sotto il cielo sanguinoso dopo il
tramonto, uomini e donne si amavano, cantavano e bevevano per dimenticare la
paura.