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lunedì 28 dicembre 2015

Le famiglie disfunzionali fanno la letteratura, dall'Irlanda all'Argentina: Molly Keane, Le buone maniere, Daniel Kehlmann, I fratelli Friedland, Hebe Uhart, Traslochi.

Lo ha detto per primo Lev Tolstoj, un tipo che se ne intendeva: le famiglie infelici forniscono una varietà infinita di storie, ognuna diversa dall'altra ma accomunate dall'infelicità. Ciononostante, la maggioranza degli umani si ostina a infilarsi in questa incresciosa situazione. Qui ci sono tre romanzi che parlano di famiglie a latitudini lontanissime: Irlanda, Germania e Argentina.

Le buone maniere della scrittrice irlandese Molly Keane è stato pubblicato per la prima volta nel 1981, e racconta la progressiva rovina di una famiglia di piccola nobiltà terriera protestante, con grande dimora in campagna, padre donnaiolo e giocatore, madre anaffettiva, figlio bello e brillante con qualche segreto da nascondere, figlia bruttina che si crogiola nelle illusioni al di là della ragionevolezza tanto da far sospettare che sia un po' ritardata, e finisce per pagare per tutti. Ambientato in un'epoca in cui le buone maniere, nel senso di coprire i fatti sgradevoli, fingere che tutto vada bene, rifiutarsi di affrontare chiaramente i conflitti e usare eufemismi per qualsiasi fatto della vita, avevano un valore assoluto, ne dimostra gli effetti letali in maniera un po' scontata e prevedibile, ma può piacere molto a chi ama l'ambientazione tra cacce, balli e governanti, le storie di cani e di cavalli, le tazze di tè e le cene formali contrapposte alle ristrettezze economiche, le differenze di classe, il tutto descritto con fluida e distaccata abilità. Traduzione di Bruna Mora.    

Una storia familiare, ma del tutto contemporanea, è anche quella dello scrittore austrogermanico Daniel Kelhmann, I fratelli Friedland, che inizia in maniera metaforica con un padre che porta i tre figli, due gemelli figli della moglie più un altro frutto di un legame precedente, a uno spettacolo di ipnosi e ne esce trasformato. Le storie dei figli si dipanano su strade diversissime toccando tematiche legate all'arte, alla finanza, alla religione e alla fede, e quello che colpisce più di tutto è la struttura complessa che ammicca al lettore interrogandolo sul suo livello di attenzione, che deve essere alto per cogliere i nessi e le coincidenze tra le versioni dei fatti come sono vissute dai vari personaggi. Il personaggio più vivido è Ivan, il gemello pittore, ma anche la confusione di Eric, tutto apparenze e bugie, ha un suo fascino. Mi riesce difficile dire se questo romanzo mi è piaciuto o non mi è piaciuto. Sicuramente è originale, ambizioso, una spanna al di sopra dei soliti thriller buoni per tutte le stagioni. Lo consiglio a chi è disposto a sollevarsi un po' sopra la semplice fruizione della vicenda, sopra la verosimiglianza e l'identificazione. La chiave di lettura, che non va dimenticata, è il paradosso. La bella traduzione è di Claudio Groff.

Infine, Traslochi (1995) di Hebe Urhart dei tre è quello che mi ha convinto di meno.

La scrittrice argentina gode di ottima fama, e non sarò certo io a negarne la bravura. Ma mi è un po' sfuggito il senso di tutto il romanzo che mi ha annoiato abbastanza, dal momento che non sono riuscita a appassionarmi alle minime vicende della squinternata famiglia di immigrati di origine italiana che vivono nei dintorni di Buenos Aires, tra due case distanti un paio di chilometri in cui si trasferiscono avanti e indietro. Un padre strano che vive in un'altra casa senza essere separato dalla madre, un figlio troppo rigido e uno troppo accomodante, una figlia matta, una cognata silenziosa, vicini, nuovi inquilini, un accumulo di tipi bizzarri che sa un po' di pretestuoso, di partito preso. Non succede niente ma non è quello il problema, il fatto è che non è facile capire il perché di una narrazione che accumula particolari sui personaggi con l'apparente unico scopo di metterne in luce la stranezza. Interessante può essere l'ambientazione. Piacerà a chi ama la letteratura sudamericana molto caratterizzata. La bella traduzione è di Maria Nicola, ma nel testo ci sono davvero parecchi refusi. 

domenica 20 dicembre 2015

Istanbul e il venditore ambulante che ama le strade di notte: Orhan Pamuk, La stranezza che ho nella testa

Ha ragione a ridersela così Orhan Pamuk, è sicuramente uno scrittore di gran successo, ha avuto il Nobel, è tradotto in quaranta lingue, e ha suscitato in me un amore totale, di quelli che non temono il ridicolo, tanto che all'incontro cui ha partecipato qui a Torino, al Carignano, non mi sono vergognata di fare la coda per ottenere una firma su un vecchio notes - fianco a fianco a quello dell'altro mio amore letterario, Mo Yan. Sono o non sono una ragazza fortunata? J'ai deux amours, cantava quella tale, e io anche, e tutti e due hanno avuto il Nobel, e di entrambi posseggo un autografo da stringere al cuore nei momenti bui. E poi basta tergiversare, bisogna parlare di La stranezza che ho nella testa, appena uscito da Einaudi con la traduzione di Barbara La Rosa Salim.

Allora. Premesso che è Istanbul, solo lei, la protagonista senza rivali di tutto il libro, il personaggio attorno al quale ruotano le molte vicende narrate nel romanzo è Mevlut Karataș, nato nel 1957 nelle vicinanze di Beyșehir, nell'Anatolia centrale, e immigrato a Istanbul nel 1969. Tra questa data e il 2009, con una breve incursione nel 2012, seguiamo le storie intrecciate di molti personaggi (opportunamente elencati, con riferimento alle pagine, in un esemplare paratesto che comprende anche una cronologia ampia e dettagliata) tra cui i principali sono il padre di Mevlut Abdurrahman Effendi, venditore ambulante di yogurt, lo zio Hasan Aktaș e i cugini Korkut e Süleyman, le sorelle Vediha, Rahyia e Samiha, Ferhat l'alevita, tutti immigrati nella metropoli in cerca di fortuna; il losco imprenditore edile Hamit Vural il Pellegrino e i mafiosi che gli gravitano intorno; le figlie di Mevlut e i figli dei suoi cugini; e qui mi fermo perché il numero è veramente sterminato. Nel 1969 Istanbul conta circa tre milioni di abitanti, e la grande corsa all'inurbamento dall'Anatolia povera e agricola è appena cominciato. Gli immigrati si distribuiscono in base alla provenienza, e quelli di Beyșehir e dintorni si dividono due colline che si fronteggiano, Kultepe e Duttepe, ben presto diversificate per posizione politica negli anni che precedono il golpe militare del 1980: di sinistra Kultepe, dove vivono Mevlut e il padre, e di destra religiosa Duttepe, dove vivono gli Aktaș. Ma ciò che divide le due famiglie, e insieme le unisce in un vincolo di necessità per Mevlut, è che gli Aktaș fanno fortuna sulle orme di Vural il Pellegrino, mentre Mevlut non riesce a combinare niente, arriva a stento a sbarcare il lunario ostinandosi a fare il venditore ambulante di cibo per le strade diurne e di boza di notte. 

La storia di Mevlut comincia, e si avvoltola, intorno a un equivoco, o meglio a un inganno: innamoratosi perdutamente di una sorella della sposa con cui ha scambiato uno sguardo intenso al matrimonio di Korkut, per tre anni le indirizza lettere appassionate con il nome di Rahyia indicatogli da Süleyman. La ragazza non risponde mai ma si suppone gradisca, tanto che alla fine i due cugini organizzano un rapimento consenziente. Però, al momento in cui finalmente Mevlut vede il volto della ragazza, si rende conto che non è quella cui lui credeva di indirizzare le sue lettere d'amore: in qualche modo, di cui si dibatterà sovente nel corso del romanzo, è Rahyia, la sorella maggiore, brutta, della bellissima Samiha vista tre anni prima, che si trova a dover sposare, in un matrimonio molto felice nonostante tutto. I due hanno subito una figlia, poi un'altra, Mevlut ama il suo lavoro di venditore di strada, tutto andrebbe per il meglio ma lui non vuole rendersi conto che i tempi cambiano vertiginosamente e vivere come ambulante diventa sempre più difficile; soprattutto si ostina, e continuerà a ostinarsi fino alla fine, a vendere di notte la boza, bevanda fermentata quasi dimenticata che, ai tempi degli ottomani, permetteva di aggirare il divieto del consumo di alcolici.  
Le vicende private dei personaggi sono molte e complesse ma non mi sogno di raccontarvele, limitandomi a esprimere qualche considerazione generale, premettendo che se volete innamorarvi anche voi di Orhan Pamuk è meglio che scegliate un altro romanzo, ma se volete leggere un gran libro su Istanbul, denso di notizie e illuminante sulla Turchia e le sue contraddizioni, non lasciatevelo sfuggire.  

Mevlut forse rappresenta lo spirito di Istanbul, legato alle tradizioni ma anche aperto alla modernità, tenace e dispersivo, rispettoso della religione, tentato dal misticismo ma legato al concreto e alla realtà, ingenuo, sognatore. Mevlut è il vecchio, il passato, che inesorabilmente sparisce. E' sognante, debole, influenzabile, immaginoso, non pratico, attaccato a valori non scelti ma accettati senza riflessione. Prova ne è la sua romantica ostinazione a continuare a vendere la boza tutte le notti dopo il lavoro diurno, anche se ne smercia pochissima, nessuno gliela chiede più. 
Però a mio parere Mevlut è un personaggio non all'altezza del suo compito, che sarebbe farci appassionare a 584 pagine di vicende mediocri e ripetitive. Non ha particolari attrattive, e anche gli altri personaggi sono privi di quelle doti che spingono il lettore a seguirli con piacere, sono sfuggenti, evanescenti, persino quelli femminili, Vediha, Rahiya e Samiha, Fatma e Fevzyie, non hanno corpo né spessore psicologico, sono prive di una vera personalità ma piene dei tradizionali cliché di invidia, gelosia, al massimo astuzia.
La volontà di rappresentazione di tutte le trasformazioni politiche e sociali spinge l'autore a tirare per le lunghe delle vicende personali poco interessanti e parecchio deprimenti, meschinerie, malintesi nei rapporti tra sorelle, fra amici, e via dicendo    

C'è un'esplicita volontà enciclopedica, e questa è l'enciclopedia di Istanbul, ma priva del fascino struggente di Istanbul. Qui c'è una Istanbul frenetica, in continua evoluzione, pronta a cancellare se stessa e il proprio passato in nome della modernità ma soprattutto dei soldi, del guadagno, dell'avidità speculatrice. Affascinante è la minuziosa topografia dei quartieri e delle loro trasformazioni, che mi ha fatto passare ore sulla mappa della città per rintracciarli; però forse chi non ci è mai stato può perdere molte sfumature. In primo piano ci sono tutte le problematiche derivate dall'inurbamento e dalla conseguente, selvaggia speculazione edilizia, la complicata questione delle concessioni e dell'occupazione del suolo, la mafia e le criminalità locali che se ne impadroniscono immediatamente e i loro regolamenti di conti, e via via le vicende legate alla privatizzazione dell'elettricità, la nascita di un'azienda elettrica, gli allacciamenti abusivi, gli esattori che conoscono personalmente tutti gli abitanti dei vari quartieri, e ancora le ruberie, gli illeciti, i favoreggiamenti, la corruzione a tutti i livelli. 
E in effetti, essendo stata per la prima volta a Istanbul nel 1970, posso dire che allora le case di legno con giardini pieni di grandi alberi erano dappertutto, le rovine in centro erano abitate, nelle mura c'erano fabbriche e magazzini, nelle piazze venditori di acqua con otri di pelle di capra, sul Corno d'oro in barchette a remi si vendevano panini pieni di pesce con sale e cipolla serviti a mani nude, yogurt e ayran erano venduti sciolti in bicchieri di vetro. E anche adesso a Ankara si possono vedere colline coperte di casette e baracche a un piano circondate da alberi da frutta, mentre su altre desolate colline sorgono le sitesi della speculazione edilizia, agghiaccianti agglomerati di palazzoni di dodici piani intorno ai quali non c'è niente, né alberi né negozi né altro. 

Ma non c'è solo quello nel monumento alla vera capitale turca: ci sono i locali notturni, i branchi di cani randagi che si impadroniscono delle strade di notte. I cimiteri. I funerali. I matrimoni. I rapimenti, le fuitine, che permettono di evitare il pagamento ai padri per ottenerne le figlie in spose
Il raki che scotta e scende in gola come ancora di salvezza per stare meglio, per trovare il coraggio. Anche le donne bevono, in casa. I venditori ambulanti e le loro storie, il Fortunello, una scatola in cui si pesca un numero e un dono che Mevlut e Ferhat bambini vendono per le strade.
Ci sono anche elementi che rimandano a libri precedenti, un virtuosismo che Pamuk ama particolarmente: come il giornalista Celal Salik di Il libro nero, che compariva anche in Il museo dell'innocenza, o l'occhio che lo segue dovunque (ancora Il libro nero), o Kars, la meravigliosa città di Neve che qui si limita a essere il luogo in cui Mevlut svolge il servizio militare. C'è il sogno, c'è la mente e le strade, ci sono i personaggi particolari come Sua Eccellenza Ibn Zerhani (anche chiamato lo Sceicco o il Calligrafo) venerato e seguito dai fedeli che si radunano nel quartiere di Fatih, con cui Mevlut discetta sulle ragioni delle labbra e quelle del cuore. Gli aleviti e le persecuzioni. 

Più che un'enciclopedia, qui troviamo anche un bignamino della storia politico sociale della Turchia tra il 1969 e il 2012, vista da Istanbul e dal basso. C'è tutto: i ripetuti colpi di stato militari, i movimenti comunisti, i curdi, l'inurbamento, la cementificazione, le traformazioni urbane, la corruzione a tutti i livelli, le privatizzazioni, la nascita del movimento islamico (i "religiosi") poi AKP, il partito di Erdoğan (che non viene mai nominato, ma spesso i nativi di Rize, come Erdoğan, sono definiti delinquenti e mafiosi ), le usanze che spariscono. 
E' troppo evidente, scoperta l'intenzione di parlare di tutti gli aspetti (spingendo l'autore talvolta a usare 
goffi espedienti come quello di spiegare la legge sull'aborto tramite un colloquio tra Vediha e Rayiha). Ahimè ahimè ahimè La stranezza che ho nella testa non riesce a evitare il peggior difetto che un libro possa avere, la noia. Mentre in Il museo dell'innocenza la lentezza e la ripetitività di certe parti erano indispensabili e bellissime per entrare nell'ossessione amorosa di Kemal per Füsun, e proprio la mancanza di esistenza di Füsun era il suo ruolo nella storia, il suo personaggio era solo la superficie in cui si rifletteva Kemal, qui rivoltolarsi nei meschini intrecci dei personaggi in certi momenti pesa un po'

La stranezza che ho nella testa è artificioso, programmatico, ma rimane un gran lavoro, un gran romanzo. Manca la scrittura che affascinava in quasi tutti gli altri libri di Pamuk, li rendeva irresistibili, e che affiora solo ogni tanto, con la sognante nostalgia delle ombre nelle strade e nei vicoli di Istanbul.   
La descrizione della solitudine di Mevlut quando la notte gira per le strade vuote è il pezzo migliore (cap. 13, Mevlut è solo). La boza è la nostalgia, il grido del venditore nella notte risveglia i nostalgici che la comprano solo per quello. La boza e le strade di notte, le luci di Istanbul viste dall'alto di un palazzo, ci regalano gli unici sprazzi di quella prosa meravigliosa, poetica e onirica, nostalgica e triste, che mi ha incantato in altre opere. Qui non si tratta di quandoque bonus, è proprio la volontà di esaurire ogni argomento legato alla città e a quegli anni che rende la scrittura così rigida in molte parti.  
Bello è anche il pezzo in cui si parla della solitudine negli appartamenti di chi era abituato a avere una baracca con giardino, qualche pollo, i suoi alberi, a scambiare visite con i vicini, a vedere la vita intorno, mentre ora dalle finestre può scorgere solo altre case, e i più fortunati ai piani alti possono solo indovinare il Bosforo da un luccichio lontano.

Per un libro così importante si doveva fare uno sforzo in più nella versione italiana, non altrettanto sorvegliata quanto nei precedenti romanzi, che presenta parecchie goffaggini e sciatterie, e anche qualche errore (basti come esempio di questo diritto avevano giovato o andrai in escandescenze; le espressioni come andare al militare). O vorrei sapere perché İstiklâl Caddesi, che è una strada urbana anche piuttosto stretta, viene definita viale, che in italiano indica una via larga e affiancata da alberi, e tutti gli alberi, invece che con il loro nome come gelso o fico, si chiamano albero di more o albero di fichi. Suppongo che ci sia una ragione, che solo la mia ignoranza mi impedisce di vedere.

martedì 1 dicembre 2015

E' un luogo ma anche un romanzo, è inventato ma reale... Un tributo d'amore a Orhan Pamuk, che quando è grande lo è sul serio: Il museo dell'innocenza

Siccome sono un'ammiratrice totale di Orhan Pamuk (di come scrive, non sempre di quello che scrive, certe volte non lo capisco) ma un'ammiratrice sul serio, vorrei essere una sua frase per avere la certezza di essere bella e necessaria, insomma per amore, sono andata a vedere il Museo dell'Innocenza che Pamuk ha voluto costruire in onore del romanzo eponimo Il museo dell'innocenza (2006). Che non ho letto, quindi queste mie note si limitano a considerazioni esteriori e generali. Avrei voluto leggerlo, e prima di partire l'ho cercato sotto forma di ebook ma non l'ho trovato. 

Comunque. Si trova a Beyoglu, nella parte cosiddetta europea di Istanbul, non lontano da Taksim. In Çukurcuma, in una stradina precipite e fascinosa, tra vecchie case di legno abbandonate e botteghe di antiquari, un edificio di tre piani fuoriterra, dall'aspetto non antico, dipinto di rosso scuro, tipo sangue secco. Leggo in una recensione che è un palazzo del 1897 che Pamuk ha fatto ristrutturare da un architetto per adattarlo alla funzione di museo, al quale lo scrittore ha lavorato per quasi quindici anni. L'entrata (biglietteria a finestrino su strada) costa 25 Tl, circa 12 €, in un paese in cui l'entrata in un sito archeologico è di 3 TL, meno di 1,50 €. Però se ti presenti con la tua copia del romanzo entri gratis, bontà loro. I visitatori sono avvisati di parlare piano, non telefonare, non fare foto né video. 

Al piano terreno c'è una grande parete coperta di cicche di sigarette, 4213, quelle fumate da Füsun, la donna follemente amata dal protagonista Kemal, da lei raccolte e annotate una per una da Pamuk. Al primo e al secondo piano parecchie vetrine relative ai capitoli del romanzo, con brevi citazioni incise su targhette rétro, in turco e inglese, e spesso impossibili da leggere perché piazzate molto in alto e pochissimo illuminate. Gli oggetti riuniti nelle vetrine sono in effetti fascinosissimi, e tutto sommato sono stata contenta di non poterli situare nella storia, così li ho visti nella loro sognante incongruità. Davanti a me due ragazze turche, molto giovani, esaminavano a lungo vetrina per vetrina, sussurrandosi riconoscimenti e scoperte. C'erano foto, molte, ritagli di giornali, documenti d'identità, capi d'abbigliamento, e soprattutto oggetti di uso quotidiano: bicchieri, bottiglie, portacenere, accendini, tazzine, posate, pezzi di bambole, scarpe spaiate, un vestito a fiori, bricchi per il caffè, eccetera eccetera con tutto quello che riuscite a immaginare. A ogni gruppo di oggetti, vecchi ma non antichi, si accompagnava la sua citazione, a volte evidente, a volte del tutto sorprendente per chi non sapesse fare un immediato collegamento. Il tutto in un'atmosfera tra l'ecclesiastico e il tombale. Al terzo piano, una mansarda, la ricostruzione della stanza in cui Kemal trascorse gli ultimi anni della sua vita e narrò la vicenda del suo amore a Pamuk che poi scrisse il romanzo. 

E qui, ammetto, sono schiattata d'invidia, come chiunque scriva, anche se non ho mai coltivato questo tipo di ambizione: non è un monumento smisurato all'ego di chiunque potere costruire un mondo fisico e materiale scaturito da quello mentale? Cercare e trovare tutti gli oggetti, a uno a uno, che quel mondo hanno nutrito e affollato? Sceglierli tu, continuare a aggirarti nel tuo mondo mentale, così difficile da abbandonare quando si finisce di scrivere una storia e bisogna staccarsene? Orhan Pamuk deve avere un Ego gonfio come una mongolfiera e nemmeno la più piccola ombra, il minimo sospetto, di senso dell'umorismo, per essersi inventato questo museo. Eppure, che fantastico atto d'amore per la letteratura, che atto di fede nella parola creatrice: davvero qui il verbo si fa, non tanto carne, ma carta, metallo, cuoio, stoffa, vetro, pane, caffè, raki...  

Nel seminterrato una fanciulla cortese ma indifferente vende libri, manifesti e cartoline, ma non c'è niente sulla genesi del museo se non un costoso e mastodontico librone in turco. Alla richiesta se c'è un sito del museo cui fare riferimento, mi sono sentita come se avessi preso sottobraccio la regina a un ricevimento a Buckingham Palace. Ma aveva ragione la ragazza, la mia domanda era più che cretina, era assurda: il Museo dell'Innocenza è l'esatto opposto di un sito internet. Ne è la negazione e l'antitesi.
Però, con il senno di poi, tanto per smentire la gentile ragazza, ecco il link al sito del Museo.  



Il romanzo-mondo: Orhan Pamuk, Il Museo dell'innocenza


Che grande, magnifico scrittore è Orhan Pamuk, pazzo per le parole, con una fede incrollabile nelle parole, nella potenza evocativa delle parole, anche quando sembra che chieda aiuto agli oggetti per ricostruire il mondo che le sue parole hanno edificato. Anche quando non lo capisco (La nuova vita, Il libro nero) o mi annoia (Il castello bianco) c’è sempre in lui una fedeltà senza cedimenti al mondo straricco, coerente, necessario e solido che vive nella sua testa. Alla fine della lettura delle cinquecentosettantacinque pagine di Il Museo dell’innocenza (del museo come luogo fisico ho parlato prima), questo ambiziosissimo romanzo balza ai primi posti delle mie preferenze pamukiane, insieme a Istanbul, Il mio nome è rosso, Neve

Ambiziosissimo anche se all’apparenza il tema è quello molto abusato dell’amour fou, della passione fatale e dei tempi sbagliati, in realtà si tratta di una Recherche, sia nell’aspetto immediato (i parallelismi con Un amour de Swann non sembrano casuali) sia nella ricostruzione minuziosa, ossessiva, onnivora, di un mondo e di un tempo perduti; e in effetti Proust è nominato più di una volta. Però in prima istanza si parla della felicità dell’amore, della sofferenza della perdita dell’amore, dell’impossibilità di sostituire l’oggetto d’amore – e qui mi fermo: perché si parla anche della possibilità di sostituire l’amore con gli oggetti. È un romanzo insistito, maniacale, ma mai prolisso; l’ossessività è necessaria perché le parole non possono sostituirsi al sentimento, e per dare conto dell’intensità abbiamo solo la ripetizione, l’insistenza. Rende bene l’ossessività di chi soffre per un amore perduto e diventa ripetitivo, noiosissimo: l’innamorato deluso è soprattutto noioso, poi ridicolo e solo alla fine tragico. Di questi tempi uno scrittore che si concede cinquecentosettantacinque pagine dedicate esclusivamente all’esplorazione di un sentimento, dove non succede quasi niente e non c’è nemmeno un delitto, un detective mangione, un po’ di molestie sessuali nell’infanzia, o almeno qualche lamentazione sociale o di genere, è un eroe, un titano (che potrebbe diventare un Titanic, ma non Pamuk!). Inoltre, in queste pagine l’autore erige un altro monumento a Istanbul e ricostruisce un mondo, quello della società istambuliota, e per estensione della società turca, dal 1975 a oltre la metà degli anni ’80 (un esempio: i frequenti accenni ai provinciali con le mogli velate, che fanno pensare alla riscossa degli anatolici filoislamici di cui Recep Tayyp Erdogan, all'epoca ancora un giovinotto di belle speranze che giocava a calcio con profitto, è il capofila). Con notazioni che mi hanno dato qualche brivido, come il passaggio delle cicogne alla fine dell’estate, spettacolo davvero indimenticabile che ho avuto la fortuna di vedere l’estate scorsa.

Quanta strada ho fatto a causa di Orhan Pamuk! In macchina per attraversare l’Anatolia e arrivare a Kars (Neve) e a piedi, su e giù per Nişantaşı, alla ricerca dei suoi luoghi metropolitani. Con effetti di serendipity veramente fantastici, come quando sono finita nel cimitero cristiano-cattolico, che non appare neanche sulle cartine di Istanbul ed è luogo carico di storia, con tombe medievali, dell’epoca della Rivoluzione Francese (con tanto di berretti frigi e “citoyen” sulle lapidi), il sacrario dei soldati italiani feriti nella guerra di Crimea e morti a Istanbul dove erano stati trasportati in cerca di cure, di italo-levantini e cattolici armeni, assolutamente deserto e con un ingresso ben nascosto.

È nel maggio del 1975, a Istanbul, che comincia la storia di Kemal, ricco imprenditore trentenne, impegnato sentimentalmente con Sibel, figlia di un ex ambasciatore, con la quale sta per fidanzarsi ufficialmente. Ma il destino gli fa incontrare Füsun, lontana parente che non vede da quando era bambina, diciottenne bellissima e povera, costretta a lavorare come commessa in una boutique. Tra i due scoppia una passione che per Füsun pare quasi inconsapevole, ma sarà fatale per Kemal, che accumula errori e passi falsi finché lei sparisce. Da quel momento la sua vita è una rincorsa dell’amata, l’espiazione della colpa di non avere capito quanto era importante per lui Füsun né la necessità di sacrificare tutto all’amore; dapprima attraversa una specie di lungo inferno, l’assenza totale, poi un malinconico purgatorio nel quale gli è concesso contemplarla ma lei rimane irraggiungibile. Infine sembra che la lunga penitenza stia per finire, la felicità è a portata di mano ma ancora una volta qualcosa si frappone: e chissà se è ancora il destino o la volontà... Intanto abbiamo assistito alla nascita dell’ossessione che lo porta a appropriarsi di qualsiasi cosa sia stata a contatto con lei, anzi a rubare letteralmente gli oggetti che le appartengono o che semplicemente gli richiamano alla mente qualche punto di contatto con Füsun. E saranno gli oggetti esposti nel Museo che Kemal più tardi deciderà di aprire; e sono quelli che si possono vedere oggi nel Museo che Orhan Pamuk ha aperto a Istanbul, in una casa rossa di Çukurcuma.

All’inizio, confesso che, pur ammirandolo molto, Il museo dell’innocenza non mi ha incantato, non mi ha coinvolta: troppo evidente la volontà di dire tutto sull’argomento, il virtuosismo (non la maniera, in cui finora Pamuk non è mai caduto). Ero stupefatta per la bravura: sa usare tutti gli artifizi, compreso il patetico, vedi la scena della prima cena a casa di Füsun, che mi ha fatto ritornare in mente un altro mio appassionato amore, Lucio Battisti in Fiori rosa fiori di pesco (posso stringerti le mani / come sono fredde tu tremi / dimmi ch’è vero...), e questo è un grande complimento per Orhan Pamuk. Anche se verso pagina trecento prende un leggero scoramento, l’effetto ipnotico prevale e mai nemmeno per un attimo mi è venuta voglia di abbandonarlo. Poi ci sono definitivamente caduta dentro, la perversione passivo-aggressiva di Kemal è diventata mia, e non mi sarei schiodata dalle malinconiche cene a casa di Füsun nemmeno se fosse scoppiato un incendio. E sono diventata anch’io schiava della contemplazione di Füsun: di come spegneva le sigarette, del modo come si appoggiava alla finestra per guardare fuori la salita di Çukurcuma, delle mollette nei suoi capelli, delle affettuosità infantili che scambiava con la madre... che poi è tutto ciò che sappiamo di lei. 

Füsun non esiste, è un pretesto, una superficie riflettente, e l’autore lo sa bene, è ovviamente un effetto voluto. Nulla conosciamo di quello che pensa e quello che sente. Se mai, il vero oggetto d’amore è come sempre Istanbul, scrutata nei suoi umori, nelle sue malinconie, nei suoi momenti di euforia e bellezza, nella pioggia e nei cinema di periferia, nei quartieri popolari e nei ristoranti di lusso, e centinaia di altre pieghe nascoste o offerte alla vista. Anche al Museo lei non c’è, è rappresentata di sbieco attraverso gli oggetti. Non c’è nessuna sua foto, mentre ad esempio ci sono quelle dei genitori di Kemal (che poi sono i veri genitori di Pamuk, e la foto è pubblicata in Istanbul). Füsun è assolutamente insondabile: come il Bosforo. Anche la gelosia di Kemal nei suoi confronti c’è solo quando è finta, di testa, pura immaginazione: quando sarebbe normale e giusto che ci fosse, non viene neppure nominata, se non in un accenno finale un po’ pretestuoso. L’ambizione di diventare attrice che anima Füsun è occasione anche di un appassionante excursus nell’industria cinematografica turca, la Yeşilçam, nei suoi riti e i suoi miti, che riempiva i cinema all’aperto con i suoi melodrammi strappacuore di cui ben ricordo un esempio, con tanto di protagonista che moriva incompresa e calunniata e poi ricompariva al marito pentito sotto forma di faccione sul caminetto... 

Alla fine, l’ossessione per Füsun è sostituita dall’ossessione per gli oggetti, e infine per i musei. Agli oggetti Kemal attribuisce un valore magico, e tutto diventa madeleine: qualsiasi oggetto può ricreare il passato, recuperare un sentimento, un’emozione. Tutto il mondo è un’enorme madeleine per chi tiene più al passato che alla vita. In fondo, questo è il succo del Museo dell’innocenza: il mondo è il museo delle nostre vite, che dobbiamo preservare se non vogliamo che tutto si perda, si cancelli con il decadere degli oggetti che della nostra vita sono stati spettatori e attori. Per questo una molletta di Füsun ha un valore inestimabile, che la rende degna di figurare in un museo allo stesso livello della Venere di Milo o della Gioconda. Ma se Füsun ha avuto la fortuna di incontrare Kemal-Orhan che ha eretto un monumento che le sopravviverà, chi salverà i nostri oggetti? che ne sarà del museo della nostra vita, se nessuno si prenderà la pena di spolverarli e spiegarne la storia ai visitatori? 

Questo è un romanzo sommamente ingannevole. Come ho già detto all’inizio, mimetizza la sua natura sotto l’apparenza ingenua di un romanzo d’amore ma nasconde strato sotto strato una serie abissale di significati. È ingannevole il gioco, apparentemente autoreferenziale e intellettualistico, tra Kemal io narrante e Orhan Pamuk narratore e personaggio del romanzo, dove appare per la prima volta nella lunga scena del fidanzamento (pg. 128: Al quarto dei sette tavoli che ci dividevano c’era l’irrequieta famiglia Pamuk [...] Nel ventiquattrenne Orhan, che fumava senza sosta, seduto con la sua bella madre, il padre, il fratello maggiore, lo zio e i cugini, non riuscii a vedere niente che fosse degno di nota, a parte il fatto che era nervoso e impaziente, e si sforzava di sorridere con sarcasmo.) e poi si ripresenta alla fine, svelandosi per bocca di Kemal come l’autore materiale del libro: una mise en abîme che fa un po’ girare la testa. Insieme alla famiglia Pamuk al ricevimento all’Hilton compaiono personaggi di altri libri di Pamuk, il signor Cevdet e i suoi figli, soprattutto il giornalista Celâl Salik, uno dei protagonisti dell’enigmatico (e noioso) Il libro nero. Probabilmente ci sono molti altri riferimenti e incroci di questo tipo tra personaggi, forse anche reali, che non sono in grado di afferrare. E tuttavia i personaggi secondari sono vivissimi, Sibel, gli amici, i frequentatori dei caffè e dei ristoranti, gli anonimi passanti che affollano le vie di Istanbul, soprattutto i genitori dei due protagonisti Kemal e Füsun; le madri presenti, impiccione, rumorose, i padri, che spariscono presto, assenti o silenziosi, segreti, ma tutti umanamente pieni di contraddizioni.  E il tema dell’incontro-confronto tra Oriente e Occidente, sempre vivo in Pamuk (Il mio nome è Rosso, Il castello bianco), è qui costantemente ripreso, anche attraverso frasi ricorrenti: essere moderni, vivere all’europea, flirtare all’europea...

Il silenzio è importantissimo: vi sono silenzi ricorrenti (vedi il meraviglioso capitolo 69, che eguaglia per bellezza il capitolo X di Istanbul, secondo me una pietra miliare della scrittura), improvvisi, che lacerano il tessuto di parole lasciando davvero intravedere al di là la possibilità dell’infinito, o della morte. E ci sono le sirene delle navi sul Bosforo, simbolo e manifestazione della struggente malinconia che è un marchio di fabbrica di Pamuk.

La bella traduzione è di Barbara La Rosa Salim.

La prossima volta che vado a Istanbul tornerò di sicuro a visitare il museo, che è anche la casa in cui si trasferiscono Füsun e la sua famiglia, dove si svolgono le interminabili cene e le serate davanti alla televisione cui Kemal non riesce a strapparsi; l’intreccio tra libro e museo mi era sfuggito in parte la prima volta. Io credevo che nel museo fossero esposti gli oggetti di cui si parla nel libro, mentre invece il libro descrive gli oggetti esposti nel museo che non c'è ancora... insomma, una roba molto perversa. Certo, che, si può dire? l’interno della testa di Orhan Pamuk fa un po’ paura: uno che è riuscito a creare un simile intreccio tra realtà, finzione letteraria, identità sdoppiate, materia e parole, non è esattamente rassicurante. 
Al termine del loro giro, i visitatori del museo testimonieranno al mondo intero che la relazione tra tra Kemal e Füsun non è una semplice storia d'amore, come quella tra Leyla e Mecnun o Hüsn e Aşk: è la storia di un mondo, o in altri termini, la storia di Istanbul.