Lo ha detto per primo Lev Tolstoj, un tipo che se ne intendeva: le famiglie infelici forniscono una varietà infinita di storie, ognuna diversa dall'altra ma accomunate dall'infelicità. Ciononostante, la maggioranza degli umani si ostina a infilarsi in questa incresciosa situazione. Qui ci sono tre romanzi che parlano di famiglie a latitudini lontanissime: Irlanda, Germania e Argentina.
Le buone maniere della scrittrice irlandese Molly Keane è stato pubblicato per la prima volta nel 1981, e racconta la progressiva rovina di una famiglia di piccola nobiltà terriera protestante, con grande dimora in campagna, padre donnaiolo e giocatore, madre anaffettiva, figlio bello e brillante con qualche segreto da nascondere, figlia bruttina che si crogiola nelle illusioni al di là della ragionevolezza tanto da far sospettare che sia un po' ritardata, e finisce per pagare per tutti. Ambientato in un'epoca in cui le buone maniere, nel senso di coprire i fatti sgradevoli, fingere che tutto vada bene, rifiutarsi di affrontare chiaramente i conflitti e usare eufemismi per qualsiasi fatto della vita, avevano un valore assoluto, ne dimostra gli effetti letali in maniera un po' scontata e prevedibile, ma può piacere molto a chi ama l'ambientazione tra cacce, balli e governanti, le storie di cani e di cavalli, le tazze di tè e le cene formali contrapposte alle ristrettezze economiche, le differenze di classe, il tutto descritto con fluida e distaccata abilità. Traduzione di Bruna Mora.
Una storia familiare, ma del tutto contemporanea, è anche quella dello scrittore austrogermanico Daniel Kelhmann, I fratelli Friedland, che inizia in maniera metaforica con un padre che porta i tre figli, due gemelli figli della moglie più un altro frutto di un legame precedente, a uno spettacolo di ipnosi e ne esce trasformato. Le storie dei figli si dipanano su strade diversissime toccando tematiche legate all'arte, alla finanza, alla religione e alla fede, e quello che colpisce più di tutto è la struttura complessa che ammicca al lettore interrogandolo sul suo livello di attenzione, che deve essere alto per cogliere i nessi e le coincidenze tra le versioni dei fatti come sono vissute dai vari personaggi. Il personaggio più vivido è Ivan, il gemello pittore, ma anche la confusione di Eric, tutto apparenze e bugie, ha un suo fascino. Mi riesce difficile dire se questo romanzo mi è piaciuto o non mi è piaciuto. Sicuramente è originale, ambizioso, una spanna al di sopra dei soliti thriller buoni per tutte le stagioni. Lo consiglio a chi è disposto a sollevarsi un po' sopra la semplice fruizione della vicenda, sopra la verosimiglianza e l'identificazione. La chiave di lettura, che non va dimenticata, è il paradosso. La bella traduzione è di Claudio Groff.
Infine, Traslochi (1995) di Hebe Urhart dei tre è quello che mi ha convinto di meno.
La scrittrice argentina gode di ottima fama, e non sarò certo io a negarne la bravura. Ma mi è un po' sfuggito il senso di tutto il romanzo che mi ha annoiato abbastanza, dal momento che non sono riuscita a appassionarmi alle minime vicende della squinternata famiglia di immigrati di origine italiana che vivono nei dintorni di Buenos Aires, tra due case distanti un paio di chilometri in cui si trasferiscono avanti e indietro. Un padre strano che vive in un'altra casa senza essere separato dalla madre, un figlio troppo rigido e uno troppo accomodante, una figlia matta, una cognata silenziosa, vicini, nuovi inquilini, un accumulo di tipi bizzarri che sa un po' di pretestuoso, di partito preso. Non succede niente ma non è quello il problema, il fatto è che non è facile capire il perché di una narrazione che accumula particolari sui personaggi con l'apparente unico scopo di metterne in luce la stranezza. Interessante può essere l'ambientazione. Piacerà a chi ama la letteratura sudamericana molto caratterizzata. La bella traduzione è di Maria Nicola, ma nel testo ci sono davvero parecchi refusi.
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