Che
grande, magnifico scrittore è Orhan Pamuk, pazzo per le parole, con una fede
incrollabile nelle parole, nella potenza evocativa delle parole, anche quando
sembra che chieda aiuto agli oggetti per ricostruire il mondo che le sue parole
hanno edificato. Anche quando non lo capisco (La nuova vita, Il libro nero) o mi annoia (Il castello bianco) c’è sempre in lui una fedeltà senza cedimenti
al mondo straricco, coerente, necessario e solido che vive nella sua testa.
Alla fine della lettura delle cinquecentosettantacinque pagine di Il Museo dell’innocenza (del museo come luogo fisico ho parlato prima), questo ambiziosissimo
romanzo balza ai primi posti delle mie preferenze pamukiane, insieme a Istanbul, Il mio nome è rosso, Neve.
Ambiziosissimo anche se all’apparenza il tema è quello molto abusato dell’amour
fou, della passione fatale e dei tempi sbagliati, in realtà si tratta di una Recherche, sia nell’aspetto immediato (i
parallelismi con Un amour de Swann
non sembrano casuali) sia nella ricostruzione minuziosa, ossessiva,
onnivora,
di un mondo e di un tempo perduti; e in effetti Proust è nominato più di
una
volta. Però in prima istanza si parla della felicità dell’amore, della
sofferenza della perdita dell’amore, dell’impossibilità di sostituire
l’oggetto
d’amore – e qui mi fermo: perché si parla anche della possibilità di
sostituire
l’amore con gli oggetti. È un romanzo insistito, maniacale, ma mai
prolisso;
l’ossessività è necessaria perché le parole non possono sostituirsi al
sentimento, e per dare conto dell’intensità abbiamo solo la ripetizione,
l’insistenza. Rende bene l’ossessività di chi soffre per un amore
perduto e
diventa ripetitivo, noiosissimo: l’innamorato deluso è soprattutto
noioso, poi
ridicolo e solo alla fine tragico. Di questi tempi uno scrittore che si
concede
cinquecentosettantacinque pagine dedicate esclusivamente
all’esplorazione di un
sentimento, dove non succede quasi niente e non c’è nemmeno un delitto,
un
detective mangione, un po’ di molestie sessuali nell’infanzia, o almeno
qualche
lamentazione sociale o di genere, è un eroe, un titano (che potrebbe
diventare
un Titanic, ma non Pamuk!). Inoltre, in queste pagine l’autore erige un
altro
monumento a Istanbul e ricostruisce un mondo, quello della società
istambuliota, e per estensione della società turca, dal 1975 a oltre la
metà
degli anni ’80 (un esempio: i frequenti accenni ai provinciali con le
mogli velate, che fanno pensare alla riscossa degli anatolici
filoislamici di cui Recep Tayyp Erdogan, all'epoca ancora un giovinotto
di belle speranze che giocava a calcio con profitto, è il capofila). Con notazioni che mi hanno dato qualche brivido, come il
passaggio delle cicogne alla fine dell’estate, spettacolo davvero
indimenticabile che ho avuto la fortuna di vedere l’estate scorsa.
Quanta
strada ho fatto a causa di Orhan Pamuk! In macchina per attraversare l’Anatolia
e arrivare a Kars (Neve) e a piedi,
su e giù per Nişantaşı, alla ricerca dei suoi luoghi metropolitani. Con effetti
di serendipity veramente fantastici, come quando sono finita nel cimitero
cristiano-cattolico, che non appare neanche sulle cartine di Istanbul ed è
luogo carico di storia, con tombe medievali, dell’epoca della Rivoluzione
Francese (con tanto di berretti frigi e “citoyen” sulle lapidi), il sacrario
dei soldati italiani feriti nella guerra di Crimea e morti a Istanbul dove
erano stati trasportati in cerca di cure, di italo-levantini e cattolici
armeni, assolutamente deserto e con un ingresso ben nascosto.
È
nel maggio del 1975, a Istanbul, che comincia la storia di Kemal, ricco
imprenditore trentenne, impegnato sentimentalmente con Sibel, figlia di un ex
ambasciatore, con la quale sta per fidanzarsi ufficialmente. Ma il destino gli
fa incontrare Füsun, lontana parente che non vede da quando era bambina,
diciottenne bellissima e povera, costretta a lavorare come commessa in una
boutique. Tra i due scoppia una passione che per Füsun pare quasi inconsapevole,
ma sarà fatale per Kemal, che accumula errori e passi falsi finché lei
sparisce. Da quel momento la sua vita è una rincorsa dell’amata, l’espiazione
della colpa di non avere capito quanto era importante per lui Füsun né la
necessità di sacrificare tutto all’amore; dapprima attraversa una specie di
lungo inferno, l’assenza totale, poi un malinconico purgatorio nel quale gli è
concesso contemplarla ma lei rimane irraggiungibile. Infine sembra che la lunga
penitenza stia per finire, la felicità è a portata di mano ma ancora una volta qualcosa
si frappone: e chissà se è ancora il destino o la volontà... Intanto abbiamo
assistito alla nascita dell’ossessione che lo porta a appropriarsi di qualsiasi
cosa sia stata a contatto con lei, anzi a rubare letteralmente gli oggetti che
le appartengono o che semplicemente gli richiamano alla mente qualche punto di
contatto con Füsun. E saranno gli oggetti esposti nel Museo che Kemal più tardi
deciderà di aprire; e sono quelli che si possono vedere oggi nel Museo che Orhan
Pamuk ha aperto a Istanbul, in una casa rossa di Çukurcuma.
All’inizio,
confesso che, pur ammirandolo molto, Il
museo dell’innocenza non mi ha incantato, non mi ha coinvolta: troppo
evidente la volontà di dire tutto sull’argomento, il virtuosismo (non la
maniera, in cui finora Pamuk non è mai caduto). Ero stupefatta per la bravura:
sa usare tutti gli artifizi, compreso il patetico, vedi la scena della prima
cena a casa di Füsun, che mi ha fatto ritornare in mente un altro mio appassionato
amore, Lucio Battisti in Fiori rosa fiori
di pesco (posso stringerti le mani /
come sono fredde tu tremi / dimmi ch’è vero...), e questo è un grande
complimento per Orhan Pamuk. Anche se verso pagina trecento prende un leggero
scoramento, l’effetto ipnotico prevale e mai nemmeno per un attimo mi è venuta
voglia di abbandonarlo. Poi ci sono definitivamente caduta dentro, la
perversione passivo-aggressiva di Kemal è diventata mia, e non mi sarei
schiodata dalle malinconiche cene a casa di Füsun nemmeno se fosse scoppiato un
incendio. E sono diventata anch’io schiava della contemplazione di Füsun: di
come spegneva le sigarette, del modo come si appoggiava alla finestra per
guardare fuori la salita di Çukurcuma, delle mollette nei suoi capelli, delle
affettuosità infantili che scambiava con la madre... che poi è tutto ciò che
sappiamo di lei.
Füsun non esiste, è un pretesto, una superficie riflettente, e
l’autore lo sa bene, è ovviamente un effetto voluto. Nulla conosciamo di quello
che pensa e quello che sente. Se mai, il vero oggetto d’amore è come sempre
Istanbul, scrutata nei suoi umori, nelle sue malinconie, nei suoi momenti di
euforia e bellezza, nella pioggia e nei cinema di periferia, nei quartieri
popolari e nei ristoranti di lusso, e centinaia di altre pieghe nascoste o
offerte alla vista. Anche al Museo lei non c’è, è rappresentata di sbieco
attraverso gli oggetti. Non c’è nessuna sua foto, mentre ad esempio ci sono
quelle dei genitori di Kemal (che poi sono i veri genitori di Pamuk, e la foto
è pubblicata in Istanbul). Füsun è
assolutamente insondabile: come il Bosforo. Anche la gelosia di Kemal nei suoi
confronti c’è solo quando è finta, di testa, pura immaginazione: quando sarebbe
normale e giusto che ci fosse, non viene neppure nominata, se non in un accenno
finale un po’ pretestuoso. L’ambizione di diventare attrice che anima Füsun è
occasione anche di un appassionante excursus nell’industria cinematografica
turca, la Yeşilçam, nei suoi riti e i suoi miti, che riempiva i cinema all’aperto
con i suoi melodrammi strappacuore di cui ben ricordo un esempio, con tanto di
protagonista che moriva incompresa e calunniata e poi ricompariva al marito
pentito sotto forma di faccione sul caminetto...
Alla fine, l’ossessione per Füsun è sostituita
dall’ossessione per gli oggetti, e infine per i musei. Agli oggetti Kemal
attribuisce un valore magico, e tutto diventa madeleine: qualsiasi oggetto può ricreare il passato, recuperare un
sentimento, un’emozione. Tutto il mondo è un’enorme madeleine per chi tiene più al passato che alla vita. In fondo,
questo è il succo del Museo dell’innocenza: il mondo è il museo delle nostre
vite, che dobbiamo preservare se non vogliamo che tutto si perda, si cancelli
con il decadere degli oggetti che della nostra vita sono stati spettatori e
attori. Per questo una molletta di Füsun ha un valore inestimabile, che la
rende degna di figurare in un museo allo stesso livello della Venere di Milo o della
Gioconda. Ma se Füsun
ha avuto la fortuna di incontrare Kemal-Orhan che ha eretto un
monumento che le sopravviverà, chi salverà i nostri oggetti? che ne sarà
del museo della nostra vita, se nessuno si prenderà la pena di
spolverarli e spiegarne la storia ai visitatori?
Questo
è un romanzo sommamente ingannevole. Come ho già detto all’inizio, mimetizza la
sua natura sotto l’apparenza ingenua di un romanzo d’amore ma nasconde strato
sotto strato una serie abissale di significati. È ingannevole il gioco, apparentemente
autoreferenziale e intellettualistico, tra Kemal io narrante e Orhan Pamuk narratore
e personaggio del romanzo, dove appare per la prima volta nella lunga scena del
fidanzamento (pg. 128: Al quarto dei
sette tavoli che ci dividevano c’era l’irrequieta famiglia Pamuk [...] Nel
ventiquattrenne Orhan, che fumava senza sosta, seduto con la sua bella madre,
il padre, il fratello maggiore, lo zio e i cugini, non riuscii a vedere niente
che fosse degno di nota, a parte il fatto che era nervoso e impaziente, e si
sforzava di sorridere con sarcasmo.) e poi si ripresenta alla fine,
svelandosi per bocca di Kemal come l’autore materiale del libro: una mise en abîme che fa un po’ girare la
testa. Insieme alla famiglia Pamuk al ricevimento all’Hilton compaiono
personaggi di altri libri di Pamuk, il signor Cevdet e i suoi figli,
soprattutto il giornalista Celâl Salik, uno dei protagonisti dell’enigmatico (e
noioso) Il libro nero. Probabilmente
ci sono molti altri riferimenti e incroci di questo tipo tra personaggi, forse
anche reali, che non sono in grado di afferrare. E tuttavia i personaggi
secondari sono vivissimi, Sibel, gli amici, i frequentatori dei caffè e dei
ristoranti, gli anonimi passanti che affollano le vie di Istanbul, soprattutto
i genitori dei due protagonisti Kemal e Füsun; le madri presenti, impiccione,
rumorose, i padri, che spariscono presto, assenti o silenziosi, segreti, ma
tutti umanamente pieni di contraddizioni.
E il tema dell’incontro-confronto tra Oriente e Occidente, sempre vivo
in Pamuk (Il mio nome è Rosso, Il
castello bianco), è qui costantemente ripreso, anche attraverso frasi
ricorrenti: essere moderni, vivere
all’europea, flirtare all’europea...
Il
silenzio è importantissimo: vi sono silenzi ricorrenti (vedi il meraviglioso capitolo
69, che eguaglia per bellezza il capitolo X di Istanbul, secondo me una pietra miliare della scrittura), improvvisi,
che lacerano il tessuto di parole lasciando davvero intravedere al di là la
possibilità dell’infinito, o della morte. E ci sono le sirene delle navi sul
Bosforo, simbolo e manifestazione della struggente malinconia che è un marchio
di fabbrica di Pamuk.
La
bella traduzione è di Barbara La Rosa Salim.
La
prossima
volta che vado a Istanbul tornerò di sicuro a visitare il museo, che è
anche la casa in cui si trasferiscono Füsun e la sua famiglia, dove si
svolgono
le interminabili cene e le serate davanti alla televisione cui Kemal non
riesce
a strapparsi; l’intreccio tra libro e museo mi era sfuggito in parte la
prima
volta. Io credevo che nel museo fossero esposti gli oggetti di cui si
parla nel libro, mentre invece il libro descrive gli oggetti esposti nel
museo che non c'è ancora... insomma, una roba molto perversa. Certo,
che, si può dire? l’interno della testa di Orhan Pamuk fa un po’
paura: uno che è riuscito a creare un simile intreccio tra realtà,
finzione
letteraria, identità sdoppiate, materia e parole, non è esattamente
rassicurante.
Al termine del loro giro, i visitatori del museo testimonieranno al mondo intero che la relazione tra tra Kemal e Füsun non è una semplice storia d'amore, come quella tra Leyla e Mecnun o Hüsn e
Aşk: è la storia di un mondo, o in altri termini, la storia di Istanbul.
Vorrei avere il coraggio di leggere l'ultimo libro uscito in Italia di Pamuk, ma dopo la sberla presa molti anni fa con «Il libro nero» - probabilmente responsabilità mia - ho qualche resistenza. Diciamo che aspetto una tua lettura per muovermi.
RispondiEliminaHo ripubblicato questi vecchi post perché l'altra sera sono andata a sentire Pamuk al Carignano, e devo dire (contro le mie aspettative, perché in genere penso che queste occasioni siano del tutto inutili) è stato abbastanza interessante. L'ultimo romanzo l'ho cominciato da qualche giorno ma non mi prende tantissimo, non ha quella scrittura che mi incanta e mi pare che sia molto forte l'intento didascalico sulla storia di Istanbul. Mi sanguina il cuore al pensiero che proprio tu non ami Pamuk...
RispondiEliminaSe posso dare un parere, ecco la mia classifica: Il libro nero e La nuova vita, da fuggire come la peste. Il castello bianco, noiosissimo. Il signor Cevdet e i suoi figli, con riserve. La casa del silenzio, sì abbastanza ma nella norma. Istanbul, Neve, Il museo dell'innocenza e Il mio nome è rosso sììììììììììììììììì sempre e comunque. Ma se poi per caso leggi uno di questi quattro e non ti piace, non me lo dire che mi spezzeresti il cuore. ;-) ciao