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mercoledì 29 luglio 2015

Perché non ci sono solo il sole, il mare, la retzina e le olive con la feta. Il lato oscuro della Grecia: Resurgam, un racconto



RESURGAM


A quell’ora qualsiasi isola era bellissima nello spolverio d’oro dei raggi ormai freddi. La barca scivolò nell’ombra della costa, in silenzio, senza quasi ferire l’acqua trasparente. Nella parete di rocce si aprivano bocche scure, non si riusciva a distinguere se erano vere e proprie grotte o semplici spaccature. Nessuno aveva voglia di parlare, i commenti morivano in gola nell’aria sospesa tra il giorno e la notte, ma quando la prua superò l’ultimo tratto di scogliera e sbucò nella baia ancora piena di sole tutti si rianimarono. Rocco, lo skipper, indicò il grande edificio che si ergeva come una fortezza.
– Ecco il convento. Se sbarchiamo subito, possiamo andare a presentarci a padre Josip prima che faccia buio. Dopo non conviene, rischiamo di trovarlo già a letto.
Dal petto di Severino uscì un sospiro di soddisfazione. Improvvisamente euforico, si rivolse alla fidanzata in tono troppo alto.
– Forza, Bella, tira fuori le lettere di presentazione e i regali, non c’è tempo da perdere.
Rocco, al timone, parlò senza voltarsi.
– È meglio se per stasera andiamo solo noi due.
– Perché? C’è una interdizione per le donne in questo monastero?    
– No, ma padre Josip è molto anziano e sta diventando un po’ bizzarro. L’ultima volta che sono venuto qui, il mese scorso, quando ha visto una ragazza nel cortile ha cominciato a gridare, a agitarsi, tanto che ce ne siamo andati subito tutti. Poi sono tornato da solo e mi ha detto che le donne sono diavoli, entrano in chiesa svestite, e altre cose che non ho ben capito perché ha una dentiera che si sposta sempre. Pensare che la ragazza aveva una tunica che le arrivava quasi ai piedi, per niente trasparente, e persino un cappello per ripararsi dal sole.
Bella aveva già il broncio, ma Severino le fece una carezza sui capelli come a una bambina.
– Mi aspetti qui buona buona? Torniamo presto, ti prometto.
Alberta fece una smorfia alla sua schiena massiccia. Quei due le davano sui nervi dal momento che erano saliti a bordo, e anche se sapeva benissimo che lei e Rocco non potevano scegliersi i clienti da portare in barca, essere gentile le costava fatica. Lui era uno studioso di fama ma anche un gran trombone, lei, troppo giovane, si lasciava trattare come una scema senza protestare. Ora, mentre il gommone con i due uomini si allontanava verso la riva, si sforzò di mostrarsi cordiale. Si era alzato un vento disordinato, faceva piuttosto fresco e schiaffetti di schiuma ogni tanto si rovesciavano oltre il bordo.
– Vuoi una tazza di tè? O preferisci, non so, una coca–cola?
– Un tè, certamente.
Sedute al tavolo del pozzetto davanti a una teiera calda e un pacco di biscotti, si osservarono senza parere. Se al posto di questa scema ci fosse una mia amica, pensò Alberta con nostalgia, sarebbe il momento adatto per confessarle che ho alcuni giorni di ritardo, e al ritorno a Zante farò un test di gravidanza. A Rocco non aveva ancora detto niente, ma moriva dalla voglia di parlarne con una donna. Con le mani strette intorno alla tazza, Bella guardava la vegetazione e l’arcigno edificio che si stagliavano contro il cielo verdastro della sera.
– È strana quest’isola, così bassa e rocciosa. Non mi piacerebbe viverci sola tutto l’anno come padre Josip. Tu l’hai incontrato?
– Sì, le prime volte che abbiamo accompagnato dei turisti da queste parti scendevo anch’io, visitavamo il convento, il monaco ci offriva lukum e acqua, uzo, sembrava contento. Poi ho smesso, un po’ perché non c’è molto da vedere, ma soprattutto mi sono accorta che era sempre più insofferente verso le donne. Non diceva niente ma si vedeva che lo irritavamo, cercava di tenerci fuori nel cortile, non rispondeva se gli rivolgevamo la parola, alla fine era talmente sgradevole che ho preferito lasciare a Rocco il compito di tenere i rapporti. Ho pensato che se le turiste sono inevitabili, io almeno posso risparmiargli il fastidio della mia vista.
– Pensi che abbia paura delle tentazioni? O proprio gli stiamo antipatiche?
– Guarda, non lo so. Ormai mi sembra che abbia raggiunto un’età in cui resistere alle  tentazioni dovrebbe essere facile, e poi come ti ho detto, una volta non era così. Era ospitale, si vedeva che i visitatori gli facevano piacere, era anche un gran chiacchierone.
– Come fa a comunicare con il resto del mondo? Non c’è telefono sull’isola, vero?
– No, neanche un ripetitore, i cellulari non prendono, ma lui ha una radio. Poi da Zante vengono regolarmente a portargli quello di cui ha bisogno, e in caso di emergenza può arrivare un elicottero. Almeno credo.
– Ehi! Stanno già tornando!
Il gommone avanzava sbattendo sulle onde che cominciavano a gonfiarsi. Il vento aveva portato via gli ultimi tepori del giorno, e nella penombra trasparente l’isola sembrava un grande relitto alla deriva. Alberta decise che per cena ci voleva qualcosa di caldo. Quando i due uomini salirono a bordo stava calcolando se c’erano abbastanza verdure per una ratatouille e li salutò distrattamente, ma Bella cominciò subito a fare domande con la sua vocina da cartone animato.
– Allora? Com’era il monaco? È stato gentile? Vi siete messi d’accordo?
Severino aveva la sua faccia da grande scrittore infastidito dalle bassezze del mondo in cui gli tocca vivere.
– A dire il vero sembrava che non si ricordasse di avere ricevuto le comunicazioni che, lo so per certo, alcuni miei illustri corrispondenti ateniesi gli hanno inviato. Però quando gli ho dato la lettera dell’archimandrita di Zante e quella del direttore del museo insieme ai miei libri in traduzione greca, si è un po’ intimidito, e alla fine ha promesso che domani mi aprirà la biblioteca e mi darà l’assistenza necessaria.
– Era di malumore, o forse non sta molto bene, – interloquì Rocco. – In effetti mi è sembrato invecchiato, pallido e con delle occhiaie fino a metà faccia. 
– Ma non ho ben capito, che cosa devi fare?
– Ricerche per il saggio che sto scrivendo, – rispose con sussiego Severino. – So che nella biblioteca ci sono alcuni testi che mi servono, esemplari unici. Per me è importantissimo che padre Josip sia ben disposto a aiutarmi, il mio assistente ha avuto un incidente in moto proprio due giorni prima di partire, non ho fatto in tempo a trovare qualcuno per sostituirlo.
Scosse i riccioli canuti che gli facevano una testa leonina e dedicò alle due donne un sorriso benevolo e fascinoso.
– Allora, ragazze, non è ancora ora di mangiare? Tutto questo mare mi ha messo una fame…
Ingoiando la voglia di strozzarlo, Alberta scese a prendere patatine e pistacchi per tenerlo calmo. Mentre cucinava sentiva Bella che cinguettava domande a raffica e Severino che rispondeva compiaciuto. Rocco scese a darle una mano.
– Senti, non bisognerebbe avvertire qualcuno che padre Josip forse sta male? Qualcuno a Zante, non so, qualche suo superiore. Magari comincia a sentire il peso della solitudine, o invecchiando perde un po’ la ragione, poveretto. Non possiamo lavarcene le mani e riderci su.
– Non mi è sembrato affatto fuori di testa. Solo inquieto, cupo, come se avesse qualche preoccupazione che lo rode dentro. Penso che sia meglio se né tu né Bella vi fate vedere.
– Non penserai che passiamo una settimana in barca senza scendere!
– Potete accompagnarci con il gommone e andarvene in giro.
– Sai che divertente! Io e miss squittio sole sole a fare picnic sugli scogli.
Rocco alzò le spalle.
– Mi spiace, cara, ma questa volta è andata così. Sono solo sette giorni, e uno è già passato.
Le posò un bacio sui capelli. Alberta riprese a rimestare la ratatouille in un silenzio nervoso.

La mattina dopo si ritrovarono a bere il caffè al sole, ancora assonnati e silenziosi, tranne Severino che evidentemente aveva deciso di tenere una lezione.
– Le isole Strofadi, rese famose già dal mito secondo cui erano il rifugio delle temibili Arpie, oltre a ospitare il monastero della Beatissima Madre del Signore risalente al tredicesimo secolo, sono state in passato tenute in alta considerazione per la loro fertilità e gli orti rigogliosi in cui si producevano…
– Senti, amore, ma che cos’era quell’uccello che stanotte lanciava richiami così strazianti? Sembrava un’anima dannata, o un maiale quando lo sgozzano.
L’intervento di Bella li salvò dalla noia e scatenò la conversazione. Tutti avevano sentito lo strano, lacerante grido notturno, ma solo lei ne era stata colpita davvero.
– Chiederemo a padre Josip, – disse Rocco. – A meno che fosse un’arpia, naturalmente.
Bella non perse l’occasione di fare l’allieva modello.
– Ma chi sono esattamente le arpie, Severino?
Dopo aver accompagnato a riva gli uomini, le ragazze fecero un giro attorno alle isole, alla ricerca di un punto invisibile dal monastero per andare un po’ in esplorazione. Così nella luce chiara e frizzante della mattina di fine settembre si ritrovarono a arrampicarsi su per gli scogli lisci di una piccola punta coperta di una vegetazione intricata, riempiendosi di graffi e punture le gambe nude. Arrivata in cima, Alberta si accorse che si scorgevano i piani alti dell’imponente edificio.
– Stai giù! Di qui ci possono vedere. Non vorrei che il monaco se la prendesse con Severino e gli impedisse di consultare i suoi volumi. So che è uno studioso di livello internazionale, ma non ho mai letto un suo libro. 
– Sai, neanch’io ne ho letto uno intero. Non sono esattamente alla mia portata.
Si interruppe per raccogliere un frutto da uno stento albero di fico. Sporgendosi in punta di piedi perse l’equilibrio e per evitare di cadere su un cuscino di rovi si appoggiò con entrambe le mani a una vena di marmo giallo che affiorava dalla parete di roccia. E sparì alla vista. 
Quando Alberta si rese conto che c’era qualcosa di strano, si fece strada tra gli sterpi e raggiunse il fico. Il dolce profumo che aleggiava intorno alla pianta era quasi coperto da un odore freddo, acido, e un soffio faceva frusciare le foglie pelose. Piena d’ansia chiamò Bella a più riprese, ma non ebbe risposta. Eppure la sua sacca blu era appoggiata al tronco, non poteva essersi volatilizzata. Da quel punto era impossibile cadere in mare, grossi cespugli si protendevano fino all’orlo degli scogli, non c’erano sentieri. Che la sciocchina si fosse nascosta per fare uno scherzo? Colse anche lei un fico per farsi passare il gusto di rabbia che le era venuto in bocca. Mentre se ne stava protesa verso il ramo più vicino sentì di nuovo un filo d’aria fresca che le si attorcigliava al collo. Con un gesto che veniva dall’infanzia, si bagnò l’indice di saliva e ne seguì la traccia fino alla roccia. Proveniva dalla striscia gialla che serpeggiava dall’alto in basso di tutta la parete di granito chiaro. Percorse la vena con la destra, godendone la liscia perfezione, e precipitò in un’oscurità improvvisa.
Ruzzolò su un pendio umidiccio e appiccicoso, cosparso di pezzetti aguzzi che le ferirono le gambe e le braccia. Non riuscì a fermarsi finché non sbatté contro qualcosa di morbido che lanciò un urlo stridulo.
– Bella! Sei tu?
Le rispose un sussurro terrorizzato.
– Sì. Parla piano. Ho l’impressione che ci sia qualcuno qui dentro.
– Figurati! Alzati, su. Dobbiamo cercare un modo di uscire.
Sentiva una mano gelida di paura stringersi attorno al cuore e al cervello, e capiva che non era il momento di farsi prendere da stupide fissazioni. Si tirò in piedi con molta precauzione perché il terreno era in forte pendenza. Bella le si aggrappò facendole quasi perdere l’equilibrio.
– Ferma, fai attenzione. Cerchiamo di pensare. Senti una corrente d’aria?
– Non so, sento qualcosa, come ragnatele… o tocchi… dobbiamo uscire, questo posto mi fa orrore, non voglio morire qui.
C’era una nota isterica nella voce di Bella, e Alberta si rese conto che doveva essere forte per due. Tastò nel marsupio allacciato alla vita, cercò la pila che portava sempre con sé. Era piccola ma potente, il raggio si proiettava lontano. Si trovavano su un pendio ripido che verso il basso si perdeva nel buio, mentre alla loro destra si innalzava una parete di roccia, che verso l’alto terminava a angolo retto con un soffitto pianeggiante dove si vedevano tracce di scalpello.
– È una grotta artificiale, e questo vuol dire che ci deve essere un modo di uscirne. Anche se non ho ancora capito come ci siamo entrate.
– Mi è bastato sfiorare la roccia e mi sono trovata qui nel buio. È un posto maledetto, mi fa paura, non voglio rimanere qui. Usciamo, ti prego, usciamo.
– Guarda.
Si avvicinò alla parete. Bella, sentendola muoversi, lanciò un grido che si propagò a ondate risvegliando echi spaventosi.
– Non mi lasciare!
Alberta la prese per mano e la trascinò verso di sé. Era agghiacciata da quello che aveva scoperto. Migliaia di figure si stagliavano nella pietra vagamente luccicante, una processione di cui non si vedeva la fine ma si indovinava la mostruosità. Ne spirava un senso di angoscia totale, di nera disperazione, come se ogni speranza fosse sparita da sempre. Eppure, a quello che si riusciva a vedere, erano poco più di abbozzi, forme velate e indistinte. Tanta repulsione le suscitavano che distolse bruscamente il raggio volgendolo verso l’alto, alle loro spalle. Il fondo oscuro in cui si inabissava la grotta con la muta e cieca processione era troppo intollerabile anche solo nell’immaginazione. Ne veniva un fiato acido e gelato, e una specie di mormorio che la ragione rifiutava. Se non trovava qualcosa da fare subito, immediatamente, sarebbe stata sopraffatta dal terrore. Strinse la presa sulla mano di Bella e la costrinse a seguirla nella faticosa risalita del pendio scivoloso. Dal basso salì un rumore indistinto, come di un immane scalpiccio su foglie secche, o un rigirarsi innominabile tra lenzuola fruscianti. Quando si trovarono di fronte la roccia, superando il ribrezzo la tastarono da ogni parte alla ricerca di un pertugio, di una spaccatura, ma la parete era disperatamente compatta.
Bella sussurrò qualcosa che Alberta non capì.
– Che cosa?
– Sento un soffio caldo qui, come un alito.
Seguirono la tenue traccia fino a un punto in cui la pietra pareva tiepida al tatto. Strisciarono le mani in alto, in basso, come carezzando un’epidermide cara, come a provocare piacere o compassione in quel crudele ostacolo. Bella trovò una linea bollente. Non ebbe il tempo di avvertire Alberta che le stava aggrappata al braccio. In un istante incomprensibile si ritrovarono all’aperto, davanti al medesimo blocco di marmo giallo che le aveva fatte prigioniere.

Rimasero ferme a guardare il mare che luccicava oltre i rami di un lentisco, senza forza nelle gambe, senza pensiero in testa. La paura non si era ancora sciolta nel sollievo, avevano il viso al sole ma le schiene madide di sudore freddo non riuscivano a smettere di rabbrividire. Infine Alberta si riscosse, guardò l’ora.
– Sono quasi le cinque, sono passate sette ore da quando siamo arrivate qui. Ci staranno cercando, chissà come sono spaventati, dobbiamo correre, forza.
– Come fanno a cercarci? Abbiamo noi il gommone.
– Padre Josip ha una barchetta.
Corsero giù scivolando e inciampando, accesero il motore e tornarono alla barca a gran velocità. Tutto era calmo a bordo, non c’era segno che qualcuno vi fosse salito in loro assenza. Alberta scese sottocoperta a prendere dell’acqua fresca, ma aveva appena aperto il frigorifero che sentì Bella gridare.
– Siamo qui! Siamo qui!
Tornò sopra di corsa. Severino e Rocco erano sul piccolo molo di cemento, immersi in chiacchiere con padre Josip. Non sembravano per niente inquieti, anzi solo Rocco agitò una mano in segno di saluto gettando uno sguardo distratto verso di loro.
– Non si sono accorti di niente…
Era inconcepibile, ma reale. Alberta andò a prenderli con il canotto, talmente ansiosa di raccontare quello che era successo che la gola le faceva male per l’ingorgo di parole. Ma i tre salirono continuando la fitta conversazione. Rocco fece per darle un bacio in fronte poi si trattenne, forse per rispetto del monaco.
– Il padre viene a cena da noi, mangiamo subito così non fa tardi. C’è qualcosa di pronto?    
Alberta era troppo sconvolta per rispondere. Riavviando il motore scoppiò in lacrime, ma il rumore impedì agli uomini di accorgersene. Appena furono a bordo Rocco corse a prendere delle birre mentre Severino, eccitatissimo dalla sua giornata in biblioteca, continuava a parlare. Bella tremava in piedi nel pozzetto. Finalmente Severino si fermò di fronte a lei e la afferrò per un braccio.
– Che cosa succede, ragazza mia? Stai male? Hai la febbre?
Anche Bella cominciò a piangere. Alberta la raggiunse, la abbracciò, mescolarono lacrime e singhiozzi finché la voce infuriata di Rocco le costrinse a riprendersi.
– Piantatela! Dite che cosa avete, subito!
Mentre Alberta cercava di spiegare la loro avventura, già Severino e Rocco, sollevati, abbozzavano sorrisi rassicuranti, paternalistici, le stringevano alle spalle.
– Vi siete spaventate, ragazze, ma avete scoperto una nuova grotta. O magari è già conosciuta, che ne dite, padre?
Padre Josip, che conosceva un po’ l’italiano, era pallido come uno straccio e scuoteva la testa come se qualsiasi risposta fosse troppo difficile. Crollò seduto sulla panca stringendo i bordi del tavolo con entrambe le mani, poi si diede una manata sulla fronte. La sua voce baritonale risuonò fuori posto nel fruscio di mare e vento, come un’eco di chiesa, odorosa di incenso e candele.
– Andate via, andate. Quest’isola non è sicura per voi. 
Cominciò a parlare in greco, lentamente perché Rocco potesse seguire bene le sue parole e tradurle per gli altri.
– Sta succedendo qualcosa qui. Forze che resistono a qualsiasi preghiera si stanno risvegliando. Potenze oscure, diaboliche. La grotta… si sapeva che doveva esserci, ma nessuno l’aveva trovata finora. O meglio nessuno l’aveva mai cercata, perché è maledetta e non dovrebbe esistere, non bisogna nominarla, nemmeno pensarci. Vi avevo avvisato che le donne non dovevano scendere a terra. Non possono portare che disgrazia, terrore e oscurità. Figlie del diavolo! Sono loro che chiamano le potenze del disordine. Perché non mi avete dato retta? Certe porte, una volta aperte, non si richiudono più. Dovete andarvene stasera stessa e dimenticare tutto. Ho accettato di venire con voi perché la notte non è piacevole al monastero, ma è meglio non perdere tempo a cenare, riportatemi a riva poi via, via, andate via.

Se non fossero state così scosse dall’esperienza del giorno, probabilmente le ragazze sarebbero scoppiate a ridere tanta era l’enfasi che il vecchio metteva nei suoi anatemi contro le donne. Invece sentirono un brivido di paura e nelle loro orecchie risuonò il sussurro gelato della grotta. Rocco era nervoso, irritato di dover pronunciare quelle parole di follia, ma fu Severino a ridere di cuore.
– Ma scherziamo? Traduci, traducigli questo, – gridò gioviale dandogli gran gomitate, – non me andrò di qua finché non avrò finito di esplorare quella fantastica biblioteca, voglio guardare e toccare ogni libro, ogni codice miniato, è una caverna di Alì Babà! Un parco giochi per un bibliofilo!
Si voltò verso Bella, esaltato e sicuro che potesse solo essere d’accordo con lui.
– Vero amore mio? Diglielo anche tu quanto desideravo questa visita.
Bella nascose il volto tra le mani. Padre Josip riprese a parlare con maggiore ansia, come se volesse raccontare in fretta, prima che il buio scendesse del tutto.
– Era tutto in pace, non c’erano spiragli tra il mondo oscuro e il mondo della luce. Tutto taceva, era dimenticato e avrebbe potuto esserlo per sempre se queste terre non fossero state invase da gente curiosa, gente senza prudenza. Le porte dell’Ade… ce ne sono molte in Grecia, passaggi di cui gli antichi pagani sapevano, ma non volevano sapere. Nel Mani, ad esempio, vicino a Porto Kagio, e altri che non nomino. Se ne stavano lì e nessuno se ne occupava. Adesso sembra che vogliano scoprire tutto, esplorare tutto. Ma il peggio è stato quando hanno scavato l’antico, terribile Nekromanteion, il luogo in cui morti e vivi possono ritrovarsi e parlare. Là sulla costa dell’Epiro, nel paese dei Cimmeri, presso la foce dell’Acheronte, dove si riuniva con gli altri fiumi infernali, il Cocito e il Piriflegetonte. Se ne era perso il ricordo, c’era una chiesa cristiana sul sito, che comunque riusciva a stento a nascondere gli orribili misteri del regno delle tenebre senza speranza. E adesso chiunque può visitare il sacro sotterraneo, donne mezze nude, uomini che fumano e masticano e bevono e fanno fotografie di ogni sasso senza sapere che forse stanno rubando l’immagine a un morto, a qualche ombra che poi si porteranno dietro nelle loro case, nelle loro città… Ma non sono i morti a fare paura. I morti sono solo anime di dolore, grumi di inquietudine disperata. I morti che stanno in quei luoghi innominabili naturalmente, nell’inferno e nel paradiso dei cristiani è tutto diverso. Non raccontate a nessuno quello che ho detto, sto facendo un peccato mortale, dico cose che non si dovrebbero dire. Eppure sono un buon cristiano, ma quello che ho visto e quello che so è tremendo… c’è da perdere il senno, non dico la fede, ma la forza di respingere le immagini blasfeme…

Era chiaro che il povero padre Josip era impazzito, parlava del tutto a vanvera. Rocco, sudato per lo sforzo di seguire i suoi vaneggiamenti, traduceva una parola ogni tanto, ma il monaco lo spronava a dire tutto, tutto, perché i suoi amici sapessero quale pericolo stavano correndo.
– Non sono i morti, no, è Lei che si è risvegliata quando qualche bello spirito si è fatto richiudere nel sotterraneo e vi ha trascorso una notte intera, così da acquistare la lucidità necessaria per vedere nel buio, e ha pronunciato qualche formula che non capiva nemmeno, o preso dal terrore ha gridato nelle tenebre e l’aroma del suo sudore ha vellicato le narici di Colei che dormiva immemore, indifferente, cieca e sorda. Si sente il suo respiro, è più forte di quello del mare. L’era della luce, del Padre, della ragione, della giustizia, della crudeltà e della compassione è finita. Lei è pura forza, la cieca vita. Ma quello che pensa, che vuole, nessuno lo può sapere.
Sembrava che non riuscisse più a smettere. Severino gli versò un bicchiere di vino e padre Josip lo bevve d’un fiato, respirando forte e gettando il capo all’indietro con un gesto di infinita stanchezza. Si buttarono tutti sul pane, la frutta, il formaggio portati da Alberta con l’avidità di chi non aveva mangiato nulla dal mattino e l’ansia di fare qualcosa di normale, concreto. Il monaco aveva interrotto il fiume di parole ma sembrava provare ribrezzo verso le donne, evitava con cura qualsiasi contatto fisico. Quando il fumo delle sigarette si levò nell’aria ferma, Severino l’affrontò di petto.
– Ma tutte queste cose, come le sa?
Negli occhi del monaco passò una nuvola di angoscia.
– Le notti sono lunghe sull’isola delle Arpie, e piene di voci che raccontano ciò che non si dovrebbe sapere. Ciò che un uomo di fede come me dovrebbe respingere come bestemmie. E si fanno certi sogni, si vedono delle figure nel fuoco del camino che non scalda ma intossica. E ci sono pietre nelle fondamenta del monastero, dove in anni così antichi che non sappiamo neanche come contarli, artisti senza nome né volto rappresentarono scene piene di mistero e insieme capaci di narrare a chi sa guardarle i misteri più tremendi. Persino nei libri, libri santi che parlano del Padre e del Figlio, ci sono parole che a saperle leggere ricordano Quella che c’era prima, nella notte dei tempi, prima che la luce fosse separata dalle tenebre.
Rocco ne aveva abbastanza. Sempre più irritato da quei discorsi fumosi, diede una pacca sgarbata sulla schiena del monaco.
– Forza, padre. La riporto a riva. Ci facciamo tutti una dormita così domani ci svegliamo con la mente più lucida. Poi magari andiamo a vedere la grotta delle ragazze, non siamo stati gentili con loro, poverine, hanno vissuto un’avventura terribile e non gli abbiamo quasi dato retta per ascoltare le sue panzane.
Ma padre Josip non ne volle sapere di tornare sull’isola. Rocco gli trovò qualche coperta e lo sistemò sulla panca del pozzetto.
– Gli verrà un raffreddore con quest’umidità, e ben gli sta. Speriamo che gli vada via la voce, a questo invasato senza cervello.

La notte fu inquieta per tutti. Si alzò un vento furioso che sibilava e sbatteva e schiaffeggiava ululando e portando strida di uccelli. Le onde si accanivano contro gli scogli, trascinavano la barca verso la riva, e nel cielo senza luna le nuvole si rincorrevano accavallandosi in un movimento vorticoso. Al sorgere del sole si ritrovarono tutti in coperta, con gli occhi gonfi e pochissima voglia di parlare. Il vento era calato del tutto. Dopo la seconda tazza di caffè l’atmosfera cominciò a riscaldarsi un poco, ma nessuno sembrava aver voglia di muoversi di lì. Persino Rocco aveva perso l’energia della sera prima, e scrutava il mare ancora rissoso con aria diffidente. Alberta sperò che avesse dimenticato il proposito di recarsi alla grotta, ma fu Severino a affrontare l’argomento.
– Allora, forse è meglio che prima di cercare di entrare nella grotta, la segnaliamo alla sovrintendenza archeologica di Atene. Potrebbero seccarsi se pasticciamo troppo in giro. Bisogna marcare in qualche modo l’entrata per ritrovarla. Andiamo subito, ragazze? Dopo voglio tornare alla biblioteca, ho ancora un sacco di lavoro da fare.
Soddisfatto come un topo che ha scoperto un deposito di parmigiano, aveva già dimenticato l’angoscia di Bella e Alberta, i discorsi del monaco, i terrori della notte. La reazione di Bella li prese di sorpresa.
– Ma chi se ne frega del tuo lavoro! No, caro mio. Io voglio andarmene subito. Voglio tornare in qualche posto pieno di gente sensata, automobili, telefoni, televisioni, voglio andare al ristorante e camminare sulla terra ferma. Portatemi via subito. Se mi vedo ancora davanti quella faccia da pazzo per un minuto, impazzirò anch’io!
E davvero, con le guance rosse e coperte di lacrime, il dito puntato verso il monaco, la voce strozzata e il corpo che tremava, non sembrava più in sé. Alberta cercò di abbracciarla ma lei la respinse, stringendosi istericamente a Severino. In quel momento la luce perfetta del mattino venne offuscata da una nuvola nera che si attorcigliava attorno al sole. Una tempesta di lugubri voci si abbatté sulla barca ferma nel freddo.
– Uccelli! – gridò Rocco. – Sono uccelli, ma volano così alti che non si capisce quali siano.
– Uno stormo in migrazione, un po’ presto, ma in fondo siamo alla fine di settembre. Siamo sulla rotta per l’Africa di tutti i trampolieri dell’Europa dell’est.
Neanche in quel momento Severino rinunciava a dimostrare la sua competenza. Padre Josip aveva perso il suo bel colorito di uomo abituato all’aria aperta, l’ombra dello stormo lasciò una traccia livida sulle sue guance ingrigite.
– Partirò anch’io con voi.
Discussero il da farsi. Severino era contrarissimo a partire, e anche Rocco pensava che fosse un’idea stupida. Alberta, divisa tra il terrore del giorno prima e il desiderio di non contraddirlo, esitava. Bella era per la partenza immediata, il monaco voleva prima tornare al monastero per sbrigare qualche faccenda. Alla fine si accordarono per trascorrere lì ancora una giornata, ma malgrado padre Josip protestasse cupamente, le ragazze si rifiutarono di essere lasciate sole.
– Verremo con voi poi andremo tutti insieme a segnare il luogo della grotta.
Non c’era altro da dire, e poco dopo il gommone stracarico attraccò alla piccola gettata di cemento.

Davanti al portone che chiudeva l’accesso al cortile padre Josip tirò fuori da una tasca una grossa chiave di ferro, la infilò nella serratura e aprì con grande stridore. In un altro momento Alberta avrebbe trovato divertente quella assurda precauzione, ma sotto il sole oscurato dai volatili che continuavano a turbinare stridendo, nel freddo settembrino, tra i folti lentischi che sembravano contorcersi e stendere braccia maligne, con la prospettiva di entrare nell’ombra gettata dalla costruzione principale che torreggiava su di loro, anche un sorriso le parve un atto sacrilego, una profanazione.
– Restiamo fuori, – sussurrò a Rocco. Lui la spinse dentro sgarbatamente.
Severino, impaziente di raggiungere la biblioteca al primo piano, stava già trafficando con la sua fotocamera digitale. Padre Josip bofonchiava guardando le ragazze con aria disgustata, sputacchiava in terra, tanto sgradevole che Rocco lo interpellò brusco.
– Ma perché mai ce l’ha tanto con le donne?
– Non avrebbero mai dovuto venire qui. Le femmine si chiamano, non riescono a stare lontane tra di loro. Colei che si è svegliata le sentirà e diventerà curiosa. Ha dormito tanto, ora ha il tempo tutto per sé.
In un accesso di rabbia Rocco tirò un calcio a una latta piena di basilico che rotolò versando la terra sul selciato. Il monaco, senza badargli, sollevò una mano per fare silenzio. Si era di nuovo alzato il vento e sibilava furioso attraverso i tetti e le vecchie costruzioni in abbandono. Rimasero tutti fermi a ascoltare. Non c’era da dubitare, non era un’allucinazione: il vento fischiava secondo una melodia, una musica intenzionale. Il vento parlava e cantava. Nella luce violenta ogni particolare risaltava come inciso, a portata di mano. Un turbine di polvere si levò in un angolo del cortile, si alzò nell’aria roteando su se stesso fino a raggiungere le tegole. Tutti lo seguirono con lo sguardo e rimasero agghiacciati a fissare qualcosa – una cosa al di là delle parole, una cosa immensa e insieme minuscola, qualcosa di incredibile che si muoveva sopra al tetto, o nell’aria, o forse in mezzo a loro, con loro, in loro.
Balla come un derviscio sul tetto del monastero. Ruota e prilla con le braccia alzate, se sono braccia, sulla punta di un piede come una ballerina classica, se è un piede, veloce, avvolta su se stessa, ondeggiando come una fiamma. Del colore della fiamma e della terra. Non ha viso né occhi né bocca, non le servono a nulla. Gli uomini e le donne inchiodati nella polvere del cortile vedono le mammelle enormi, il ventre gravido, il taglio verticale tra le cosce gonfie. Provano la divina ebbrezza del vortice di danza, non hanno più peso né battito del cuore. Sentono – non con le orecchie, no, non ci sono parole ma è la comunicazione tra la madre e il feto, sentono con tutto il corpo, con il sangue e le ossa, il cervello e gli occhi ciechi e i polpastrelli senza impronta – sentono creature, non mi piace quello che avete fatto mentre mi riposavo dalle fatiche del parto. Sapevo che il Padre non era all’altezza, ma ero stanca. Dopo aver partorito tutto un universo, ero stanca, lo potete capire? Non importa. Ora sono riposata – mi sono riposata a lungo, a lungo, – e sono pronta a ricominciare. Questa volta andrà meglio. Mi occuperò io di tutto, non mi fiderò più, non affiderò più nulla al Padre. Devo fare tutto io. Sono piena di energia, sono piena, scoppio. Sono pronta. Devo partorire un nuovo universo. Questo no, non mi piace e guardarlo mi fa male.     
La danza rallenta. L’ebbrezza si placa, il ventre pregno si tende sempre più, le mammelle stanno per scoppiare tanto sono gonfie. Ora che il ritmo è più pacato, quando la madre volge le spalle si vede che cosa ha dietro: un teschio ghignante con la lunga lingua rossa come il sangue che pende fino ai piedi, uno scheletro bianchissimo che stringe la sua falce con amore.
È troppo tardi. La grotta non ha più importanza perché non ci saranno più né grotta né morti né vivi. Non torneremo alla grotta, non vedrò il figlio che forse sta crescendo nelle mie viscere, non diventerò mai il più grande studioso del mondo, non sentirò mai più la musica che amo. È tutto inutile, è tutto finito.
 – Ci ucciderà.
Ma sanno che non ne ha bisogno. Sono stati rifiutati dalla madre, sono già morti. Lacrime e terrore e poi il nulla, di loro non resterà nemmeno la polvere o l’ombra.
Mentre l’oscurità riempie il cielo, mentre il caos riconquista il cosmo, la memoria dei loro occhi vede ancora il ventre pallido che si dilata all’infinito, le cosce spalancate come un abisso sul nulla, e al centro un nero vortice pieno di morte, e di vita.    
 
 
  
     
    

 

    

sabato 25 luglio 2015

Il posto più nero d'Islanda, il mare, l'amore, le donne e la poesia: Jón Kalman Stefánsson, I pesci non hanno gambe

Questo romanzo del 2015 di Jón Kalman Stefánsson, l'autore dell'indimenticabile trilogia che inizia con Paradiso e inferno, continua con La tristezza degli angeli e si conclude con Il cuore dell'uomo, oltre che di Luce d'estate, ed è subito notte, ha come sottotitolo Storia di una famiglia ma in realtà è anche la storia dell'Islanda, e in particolare della città di Keflavik (il posto più nero d'Islanda, secondo le parole dell'unico presidente della repubblica che la visitò) nei tempi moderni: tratta argomenti come la presenza americana sul territorio islandese (la base di Keflavik attiva dal 1941 al 2006), l'apertura dell'aeroporto internazionale, la dibattuta questione delle quote ittiche che portò all'impoverimento della città (e alla rinuncia alla membership europea nel marzo 2015), ma soprattutto è una storia che riguarda la morte e il mare. Il mare ti rende uomo, dicono i marinai, e sottintendono che chi non va in mare non lo sarà mai, e le donne, che restano a riva, sono doppiamente segnate.  

Il romanzo ha una struttura complessa, forse eccessivamente, che costringe a un continuo slalom tra epoche, luoghi e personaggi diversi; la storia della famiglia è raccontata soprattutto attraverso le vicende di Oddur e Margret, il capitano che meritò un attestato d'onore e la sua sposa innamorata presa nella rete di una vita soffocante, in un fiordo dell'est, e poi quelle di Ari e sua moglie Dora a Keflavik e della fuga in Danimarca di Ari, senza un perché; e dell'infanzia e adolescenza di Ari e dell'io narrante, segnata da allegri episodi (l'assalto ai camion degli americani, portatori di benessere e di merci sconosciute) e oscuri segreti (tra i quali l'ultimo, relativo alla ragazzina amata da Ari, sinceramente mi è parso troppo melodrammatico, tirato per i capelli e nel complesso superfluo). Importantissima è anche la musica, e i continui riferimenti a gruppi e musicisti islandesi legati al fatto che Keflavik ebbe una scena musicale vivacissima negli anni '60 e '70, tanto che fu chiamata "la città dei Beatles".

Importante è l'amore, soprattutto il primo amore, esplosione solare che ti distrugge la vita e rende abitabili i deserti. Importantissime sono le donne, la Margret sofferente (oggi forse sarebbe definita bipolare), la matrigna mai amata né compresa, la gentile zia Elin, Sigga, di cui si parla sempre ma non compare mai, che dalle umiliazioni di ragazzina trae la forza per diventare una donna lucida e coraggiosa, la dolce Sigrun dalle lentiggini attraenti, quelle che si perdono nell'alcol e dall'alcol traggono la forza per continuare in una vita faticosa e forse deludente. 

La scrittura di Jón Kalman Stefánsson risente molto, nel bene e nel male, del fatto che l'autore è stato prima poeta che narratore. Questo la rende intensamente poetica, ovvio, spesso visionaria, talvolta un po' sentenziosa e sapenziale. Anche la scelta degli argomenti ne è condizionata: la luna compare spesso, il mare è protagonista, e poi la morte, le lacrime, l'amore, gli abbracci, il tempo, la caducità, l'oblio, la poesia e i poeti. (In certi punti, si parva licet, mi ricorda come scrivo quando non so bene dove voglio andare a parare e vado un po' a vanvera). Il ritmo rapsodico, che ricorda un po' José Saramago, è bellissimo e ipnotico, ma forse a Jón Kalman Stefánsson viene meglio narrare il passato, l'epica, come nel perfetto Paradiso e inferno, perché non stride e le allusioni, le omissioni ci stanno benissimo; forse è meno adatto a narrare la modernità e le vicende intricate. 

I pesci non hanno gambe, comunque, è un romanzo nettamente superiore alla media di quello che si legge in giro, con motivi d'interesse sia per chi ama le vicende personali sia per chi cerca anche di scoprire cose nuove sul mondo in cui viviamo a occhi semichiusi, e lo consiglio senza restrizioni. La bella traduzione, duttile e sensibile come sempre, è di Silvia Cosimini

domenica 19 luglio 2015

Arridatece Bridget Jones: Winifred Watson, un giorno di gloria per Miss Pettigrew

Per quale motivo Neri Pozza abbia sentito la necessità, nel 2009, di ripubblicare il romanzetto di Winifred Watson, Un giorno di gloria per Miss Pettigrew (edizione originale 1938, traduzione di Isabella Zani) spacciandolo per una riscoperta e un successo internazionale, non l'ho capito. Si tratta di una storia che promette bene, una specie di Cenerentola agée, in un ambiente, quello londinese del teatro di varietà, dei night club, delle attrici ecc, di cui non so niente (ma secondo me non ne sapeva niente neanche l'autrice) e quindi mi incuriosiva. Inoltre, tanto per prevenire la giusta domanda - ma tu perché l'hai letto? - è presentato come divertente e pensoso, e siccome ho incontrato sovente eccellenti e interessantissime narratrici inglesi (di cui ho più volte parlato su questo blog) l'ho cominciato con un piacere che si afflosciava man mano che andavo avanti e la stretta mortale del conformismo e della prevedibilità si accentuava a ogni pagina.

Dunque, Miss Ginevra Pettigrew, quarantenne istitutrice figlia di parroco e quindi gentildonna, zitella del tutto all'oscuro dei piaceri della vita, e per di più poverissima e alla canna del gas in quanto disoccupata e sfrattata, si presenta allo porta di Miss LaFosse, bellissima e simpatica attrice che, le hanno detto all'agenzia di collocamento, ha appunto bisogno di un'istitutrice. Da questo momento Miss Pettigrew viene travolta da un vortice di imprevisti, sconvenienze, divertimento, sentimenti e emozioni sconosciute, dapprima un po' sorpresa e sbigottita poi sempre più entusiasta, alla fine totalmente coinvolta, e subisce una metamorfosi che, se non proprio in principessa, la trasforma in un'attraente signora di mezz'età. Ma, detto per inciso, quanto bevono tutti! Fin dal primo mattino, un goccetto tira l'altro e dallo sherry si passa al whishy e ai cocktail (micidiali) con estrema disinvoltura, né Miss Pettigrew si tira indietro, e a nessuno viene mai un abbiocco né un calo di lucidità. Per ventiquattr'ore vanno avanti ingurgitando alcol, senza dormire e mangiando pochino. Be', come si diceva una volta, i materiali di prima della guerra erano più robusti.

La conclusione, positiva che più non si potrebbe, non riesce a far dimenticare il conformismo di tutta la storia, pur ammantata di apparenze trasgressive nel mettere la perbenista Miss Pettigrew in un ambiente così diverso da tutto quello che conosceva, che però si rivela caldo, accogliente e generoso. L'ironia è parecchio datata e quella che potrebbe essere una sorta di grazia vintage è deturpata - pesantemente - da parecchie affermazioni razziste, antisemite e anti italiane (o antilatine in generale, perché confonde italiani e spagnoli). Francamente fastidiose, tanto per essere carini. E tutto l'insieme è anche francamente reazionario e sessista. Un citazione tanto per gradire: "Non disse nulla ma la prese premurosamente  sottobraccio con quel magnifico, padronale, maschio senso di protezione che mai nella vita aveva sperimentato. Lei si limitò a appoggiarsi debolmente a lui". Con un corollario: la donna che lavora non può arrivare a mantenersi decorosamente, solo la generosità e l'autorevolezza maschile possono darle sicurezza. So che il romanzo è vecchiotto, però... Viene da pensare che oltre a protestare contro la pubblicità sessista ogni tanto bisognerebbe protestare contro gli stereotipi della chick-lit, e discutere sul fatto che un libro come questo venga ripubblicato e diventi un best seller. Comunque: da Miss Pettigrew la strada per arrivare a Bridget Jones (che consiglio vivamente a chiunque abbia voglia di sorridere e svagarsi senza controindicazioni) è molto, molto lunga e accidentata.

giovedì 16 luglio 2015

L'angelo peloso del vicolo Fulmine: Hiraide Takashi, Il gatto venuto dal cielo

             Non sono una gattofila né una gattomane ma conosco tante persone che coltivano una passione per i gatti e a loro consiglio vivamente il romanzo di cui vado a parlare: Il gatto venuto dal cielo di Hiraide Takisha, poeta giapponese nato nel 1950 e vissuto anche parecchio in Occidente, il che si nota nei dotti riferimenti a Leonardo, Machiavelli e Talete di Mileto.
Io per parte mia mi limito a averlo letto.                                                                                                                                                                        

La vicenda è questa: l'io narrante senza nome e sua moglie altrettanto anonima vivono in affitto nella dépendance di un'antica (60 anni, si dice più avanti) villa, dove non è possibile per contratto tenere animali, ma i due vengono scelti dalla gattina dei vicini, Chibi, che comincia a visitarli regolarmente. È molto indipendente, non miagola mai, non si fa prendere in braccio. La moglie dell'io narrante invece se ne fa prendere totalmente, ben presto tutta la loro vita quotidiana è scandita dai riti e dalle abitudini legate a Chibi, che comunque non è il loro gatto ma quello dei vicini. Tutta la narrazione è intessuta di particolari precisissimi e minuti, con un'attenzione davvero fantastica a quel tanto di natura che si può trovare in un giardino di città, dove oltre all'amatissima gattina incontriamo una libellula frecciazzurra puntabianca. (!!!), una mantide, una cicala, che vivono nella folta vegetazione del giardino in via di inselvatichimento.  

Si parla anche di triangolazione geodetica, si tira in ballo Talete di Mileto e la misurazione delle piramidi per stabilire l'altezza di un olmo in modo che, cambiando casa, sia possibile continuare a vederne la punta. Si parla di camere oscure e immagini capovolte, di sentimenti complessi, gelosie e devozioni, rituali funerari e della bolla della speculazione immobiliare che travolse il Giappone all'inizio degli anni '90... ma che sto a contarvela, qui si parla di due umani per perdono la testa per una gatta altrui che continua la sua vita concedendo di tanto in tanto la propria silenziosa presenza, lasciandosi amare senza impegnarsi.                                                        

Il risultato è un libro soffice e leggerissimo, pieno di grazia e sentimentale da far vergogna. Come il tocco di un gattino, appunto. Ma se vi piacciono i gatti lo consiglio davvero: l'attenzione con cui è osservata, seguita, descritta, immaginata Chibi è insieme commovente e un po' inquietante. Not my cup of tea, come si dice, ma sicuramente quella di molti altri lettori. Agli agnostici come me, se proprio vogliono leggerlo, suggerisco di concentrarsi sui minuziosi e suggestivi particolari di contorno. Traduzione di Laura Testaverde.

mercoledì 15 luglio 2015

Niente di nuovo sotto il cielo di Grecia? La lunga estate calda del commissario Charitos, di Petros Markaris

Giusto due parole per un Markaris del 2006 (2009 in Italia con la scorrevole traduzione di Andrea Di Gregorio), che ho appena finito di leggere nella sua sempre bella patria, La lunga estate calda del commissario Charitos, e non mi ha fatto cambiare opinione sull'autore. Ormai del tutto di maniera nella costruzione del mondo di Charitos (ah come cucina Adriana, ah quanto parla Adriana, la famiglia i consuoceri e il genero e quella Caterina che fa sempre l'uovo fuori dalla cavagna, e quanto è umano lui che ai tempi dei colonnelli non torturava e lasciava che il comunista Zisis fumasse una sigaretta vicino al termosifone - gli altri non si sa, sempre solo di quello si parla - come se non si decidesse a prendersi le sue responsabilità di essere un poliziotto, come se sotto sotto si vergognasse un po'). E poi, se la prima delle due vicende che si intrecciano ha un certo sapore di novità - anonimi terroristi sequestrano un traghetto Atene-Creta su cui si trovano la preziosa Caterina e il suo fidanzato Fanis -, la seconda, con le spietate esecuzioni di personaggi legati alla pubblicità televisiva, è veramente disarmante. Primo, non riuscirebbe a crederci neanche un bambino dell'asilo come favola della buonanotte, secondo, sempre lì vai a parare? Sempre a sgattare nel passato voi greci? Ma non vi è successo mai altro? Vediamo come Markaris metabolizzerà gli eventi di quest'estate. E speriamo gli diano una frustata di novità e rinnovamento tematico. Ela, Petraki mas, stupiscici, dai!
E se ne volete di più di Markaris, qui si parla di Prestiti scaduti.

mercoledì 8 luglio 2015

Neanche in Islanda tutte le ciambelle vengono con il buco: Sólveig Jónsdóttir, Reykjavik Café


Ho passato anni in ammirazione entusiastica per il numero (in percentuale su quello degli abitanti) e la strepitosa bravura degli scrittori islandesi, poi ho cominciato a ricredermi un po' leggendo qualche modestissimo giallo (o noir se preferite) e infine sono caduta su questo Reykjavìk Café che è, senza esagerazione, uno dei libri più brutti che abbia letto. 

Hervor, Mìa, Silja e Karen sono le quattro protagoniste di questa storia invernale che storia non è: si tratta di quattro decerebrate, anche se sono più volte presentate come intelligentissime, le quali soffrono tutte per amore e tradimento. Non si conoscono (o si conoscono per il motivo sbagliato) ma ci sono piccoli punti di contatto, uno dei quali il caffè del titolo dove Hervor è cameriera, e questo è l'aspetto più interessante di tutto il libro. Per il resto c'è solo da tacere e stupire. Sono ragazze variamente irresponsabili, con storie d'amore pessime (Hervor scopa con il suo ex professore d'università, Silja ha un marito che la tradisce e maltratta che lei scusa continuamente, Mìa è stata mollata per un'altra, Karen ha un'oscuro senso di colpa per qualcosa che veniamo a sapere alla fine), cuori spezzati, autostima a meno mille, risorse zero, capaci solo a ingozzarsi di alcol in tutti i modi e le varietà possibili e a finire nel letto di chiunque incontrino al bar. O di stare a casa a mangiare pizza surgelata, ma l'alcol batte la pizza dieci a uno. Ora, io non voglio fare la superiore e fingere di non avere mai pianto per un coglione, ma qui si esagera veramente. Poi, mai un minimo tentativo di capire quello che succede: è sempre colpa dell'altra (zoccola ovviamente e questa, insieme a "bere" coniugato in tutte le sue forme, è certo la parola più frequente nel romanzo). Però non state tanto a preoccuparvi, alla fine gli va bene a tutte e quattro. 

Nelle recensioni che ho visto in rete ho trovato Reykjavìk Café definito come brillante e ironico. Ora, forse io non ho ben chiaro il significato di questi termini, ma sono gli ultimi che mi sentirei di attribuire. Diciamo noioso (difficile distinguere le quattro protagoniste, malgrado l'eccesso di caratterizzazione sono opache e piatte), pieno di cliché e luoghi comuni (gli amori antichi tutti romantici e duraturi, la palestra come sinonimo di salvezza e moralità, la famiglia è l'unica realtà, l'unica fonte di calore, l'unica cosa che interessa alle donne è un uomo che si occupi di loro, ecc). Poi quello che stupisce, e davvero è interessante, è il ritratto di una società che si può leggere tra una lacrima e una sbronza. Il senso del possesso, la gelosia di queste ragazze fa l'effetto di ritornare indietro di cent'anni. Il fiume di alcol in cui si buttano fa intuire una disperazione senza fondo. Anche il sesso, frequentato con tanta costanza a e varietà, è stranamente insapore, intercambiabile, non lascia tracce né rimpianti. A nessuna importa il lavoro, neppure a Silja che è medico, nessuna cerca una realizzazione, nessuna ha un sogno, qualcosa che ama fare, qualcosa per cui mantenersi sobria. Povere loro, davvero. Quanto all'ironia non so proprio dove sia. Insomma un romanzo superleggero, veramente "al femminile", ma né rosa né frizzante come la chick-lit ci ha abituato a aspettarci. Un romanzo umido di lacrime e alcol.       

La traduzione è dell'ottima Silvia Cosimini, abituata a cimentarsi con ben altri calibri, tipo Halldor Laxness, Jon Kalman Stefannson o Kristin Maria Balsdurdottir i cui libri ho adorato e raccomando a chiunque abbia voglia di leggere qualche scrittore islandese veramente fuoriclasse. E questo è l'unico motivo per cui ho perso tempo a scrivere questa recensione, nella speranza che qualcuno magari si voglia rifare la bocca con Gente indipendente o Paradiso e inferno o Il sorriso dei gabbiani.
Sólveig Jónsdóttir ha studiato scienze politiche e vive a Reykjavìk, dove ha lavorato come giornalista alla redazione di Lifestyle Magazine. Da tre anni è capo della comunicazione di UNICEF Islanda. Reykjavík Café è il suo primo romanzo. Per parte mia, non mi precipiterò sicuramente a leggere il secondo.