RESURGAM
A quell’ora
qualsiasi isola era bellissima nello spolverio d’oro dei raggi ormai freddi. La
barca scivolò nell’ombra della costa, in silenzio, senza quasi ferire l’acqua
trasparente. Nella parete di rocce si aprivano bocche scure, non si riusciva a
distinguere se erano vere e proprie grotte o semplici spaccature. Nessuno aveva
voglia di parlare, i commenti morivano in gola nell’aria sospesa tra il giorno
e la notte, ma quando la prua superò l’ultimo tratto di scogliera e sbucò nella
baia ancora piena di sole tutti si rianimarono. Rocco, lo skipper, indicò il
grande edificio che si ergeva come una fortezza.
– Ecco il
convento. Se sbarchiamo subito, possiamo andare a presentarci a padre Josip
prima che faccia buio. Dopo non conviene, rischiamo di trovarlo già a letto.
Dal petto di
Severino uscì un sospiro di soddisfazione. Improvvisamente euforico, si rivolse
alla fidanzata in tono troppo alto.
– Forza,
Bella, tira fuori le lettere di presentazione e i regali, non c’è tempo da
perdere.
Rocco, al timone,
parlò senza voltarsi.
– È meglio se
per stasera andiamo solo noi due.
– Perché? C’è
una interdizione per le donne in questo monastero?
– No, ma padre
Josip è molto anziano e sta diventando un po’ bizzarro. L’ultima volta che sono
venuto qui, il mese scorso, quando ha visto una ragazza nel cortile ha
cominciato a gridare, a agitarsi, tanto che ce ne siamo andati subito tutti.
Poi sono tornato da solo e mi ha detto che le donne sono diavoli, entrano in
chiesa svestite, e altre cose che non ho ben capito perché ha una dentiera che
si sposta sempre. Pensare che la ragazza aveva una tunica che le arrivava quasi
ai piedi, per niente trasparente, e persino un cappello per ripararsi dal sole.
Bella aveva
già il broncio, ma Severino le fece una carezza sui capelli come a una bambina.
– Mi aspetti
qui buona buona? Torniamo presto, ti prometto.
Alberta fece
una smorfia alla sua schiena massiccia. Quei due le davano sui nervi dal
momento che erano saliti a bordo, e anche se sapeva benissimo che lei e Rocco
non potevano scegliersi i clienti da portare in barca, essere gentile le
costava fatica. Lui era uno studioso di fama ma anche un gran trombone, lei,
troppo giovane, si lasciava trattare come una scema senza protestare. Ora,
mentre il gommone con i due uomini si allontanava verso la riva, si sforzò di
mostrarsi cordiale. Si era alzato un vento disordinato, faceva piuttosto fresco
e schiaffetti di schiuma ogni tanto si rovesciavano oltre il bordo.
– Vuoi una
tazza di tè? O preferisci, non so, una coca–cola?
– Un tè,
certamente.
Sedute al
tavolo del pozzetto davanti a una teiera calda e un pacco di biscotti, si
osservarono senza parere. Se al posto di questa scema ci fosse una mia amica,
pensò Alberta con nostalgia, sarebbe il momento adatto per confessarle che ho
alcuni giorni di ritardo, e al ritorno a Zante farò un test di gravidanza. A
Rocco non aveva ancora detto niente, ma moriva dalla voglia di parlarne con una
donna. Con le mani strette intorno alla tazza, Bella guardava la vegetazione e
l’arcigno edificio che si stagliavano contro il cielo verdastro della sera.
– È strana
quest’isola, così bassa e rocciosa. Non mi piacerebbe viverci sola tutto l’anno
come padre Josip. Tu l’hai incontrato?
– Sì, le prime
volte che abbiamo accompagnato dei turisti da queste parti scendevo anch’io,
visitavamo il convento, il monaco ci offriva lukum e acqua, uzo, sembrava
contento. Poi ho smesso, un po’ perché non c’è molto da vedere, ma soprattutto
mi sono accorta che era sempre più insofferente verso le donne. Non diceva niente
ma si vedeva che lo irritavamo, cercava di tenerci fuori nel cortile, non
rispondeva se gli rivolgevamo la parola, alla fine era talmente sgradevole che
ho preferito lasciare a Rocco il compito di tenere i rapporti. Ho pensato che
se le turiste sono inevitabili, io almeno posso risparmiargli il fastidio della
mia vista.
– Pensi che
abbia paura delle tentazioni? O proprio gli stiamo antipatiche?
– Guarda, non
lo so. Ormai mi sembra che abbia raggiunto un’età in cui resistere alle tentazioni dovrebbe essere facile, e poi come
ti ho detto, una volta non era così. Era ospitale, si vedeva che i visitatori
gli facevano piacere, era anche un gran chiacchierone.
– Come fa a
comunicare con il resto del mondo? Non c’è telefono sull’isola, vero?
– No, neanche
un ripetitore, i cellulari non prendono, ma lui ha una radio. Poi da Zante
vengono regolarmente a portargli quello di cui ha bisogno, e in caso di
emergenza può arrivare un elicottero. Almeno credo.
– Ehi! Stanno
già tornando!
Il gommone
avanzava sbattendo sulle onde che cominciavano a gonfiarsi. Il vento aveva
portato via gli ultimi tepori del giorno, e nella penombra trasparente l’isola
sembrava un grande relitto alla deriva. Alberta decise che per cena ci voleva
qualcosa di caldo. Quando i due uomini salirono a bordo stava calcolando se
c’erano abbastanza verdure per una ratatouille e li salutò distrattamente, ma
Bella cominciò subito a fare domande con la sua vocina da cartone animato.
– Allora?
Com’era il monaco? È stato gentile? Vi siete messi d’accordo?
Severino aveva
la sua faccia da grande scrittore infastidito dalle bassezze del mondo in cui
gli tocca vivere.
– A dire il
vero sembrava che non si ricordasse di avere ricevuto le comunicazioni che, lo
so per certo, alcuni miei illustri corrispondenti ateniesi gli hanno inviato.
Però quando gli ho dato la lettera dell’archimandrita di Zante e quella del
direttore del museo insieme ai miei libri in traduzione greca, si è un po’
intimidito, e alla fine ha promesso che domani mi aprirà la biblioteca e mi darà
l’assistenza necessaria.
– Era di
malumore, o forse non sta molto bene, – interloquì Rocco. – In effetti mi è
sembrato invecchiato, pallido e con delle occhiaie fino a metà faccia.
– Ma non ho
ben capito, che cosa devi fare?
– Ricerche per
il saggio che sto scrivendo, – rispose con sussiego Severino. – So che nella
biblioteca ci sono alcuni testi che mi servono, esemplari unici. Per me è
importantissimo che padre Josip sia ben disposto a aiutarmi, il mio assistente
ha avuto un incidente in moto proprio due giorni prima di partire, non ho fatto
in tempo a trovare qualcuno per sostituirlo.
Scosse i
riccioli canuti che gli facevano una testa leonina e dedicò alle due donne un
sorriso benevolo e fascinoso.
– Allora,
ragazze, non è ancora ora di mangiare? Tutto questo mare mi ha messo una fame…
Ingoiando la
voglia di strozzarlo, Alberta scese a prendere patatine e pistacchi per tenerlo
calmo. Mentre cucinava sentiva Bella che cinguettava domande a raffica e
Severino che rispondeva compiaciuto. Rocco scese a darle una mano.
– Senti, non
bisognerebbe avvertire qualcuno che padre Josip forse sta male? Qualcuno a
Zante, non so, qualche suo superiore. Magari comincia a sentire il peso della
solitudine, o invecchiando perde un po’ la ragione, poveretto. Non possiamo
lavarcene le mani e riderci su.
– Non mi è
sembrato affatto fuori di testa. Solo inquieto, cupo, come se avesse qualche
preoccupazione che lo rode dentro. Penso che sia meglio se né tu né Bella vi
fate vedere.
– Non penserai
che passiamo una settimana in barca senza scendere!
– Potete
accompagnarci con il gommone e andarvene in giro.
– Sai che
divertente! Io e miss squittio sole sole a fare picnic sugli scogli.
Rocco alzò le
spalle.
– Mi spiace,
cara, ma questa volta è andata così. Sono solo sette giorni, e uno è già
passato.
Le posò un
bacio sui capelli. Alberta riprese a rimestare la ratatouille in un silenzio
nervoso.
La mattina
dopo si ritrovarono a bere il caffè al sole, ancora assonnati e silenziosi,
tranne Severino che evidentemente aveva deciso di tenere una lezione.
– Le isole
Strofadi, rese famose già dal mito secondo cui erano il rifugio delle temibili
Arpie, oltre a ospitare il monastero della Beatissima Madre del Signore
risalente al tredicesimo secolo, sono state in passato tenute in alta
considerazione per la loro fertilità e gli orti rigogliosi in cui si
producevano…
– Senti,
amore, ma che cos’era quell’uccello che stanotte lanciava richiami così
strazianti? Sembrava un’anima dannata, o un maiale quando lo sgozzano.
L’intervento
di Bella li salvò dalla noia e scatenò la conversazione. Tutti avevano sentito
lo strano, lacerante grido notturno, ma solo lei ne era stata colpita davvero.
– Chiederemo a
padre Josip, – disse Rocco. – A meno che fosse un’arpia, naturalmente.
Bella non
perse l’occasione di fare l’allieva modello.
– Ma chi sono
esattamente le arpie, Severino?
Dopo aver
accompagnato a riva gli uomini, le ragazze fecero un giro attorno alle isole,
alla ricerca di un punto invisibile dal monastero per andare un po’ in
esplorazione. Così nella luce chiara e frizzante della mattina di fine
settembre si ritrovarono a arrampicarsi su per gli scogli lisci di una piccola
punta coperta di una vegetazione intricata, riempiendosi di graffi e punture le
gambe nude. Arrivata in cima, Alberta si accorse che si scorgevano i piani alti
dell’imponente edificio.
– Stai giù! Di
qui ci possono vedere. Non vorrei che il monaco se la prendesse con Severino e
gli impedisse di consultare i suoi volumi. So che è uno studioso di livello
internazionale, ma non ho mai letto un suo libro.
– Sai,
neanch’io ne ho letto uno intero. Non sono esattamente alla mia portata.
Si interruppe
per raccogliere un frutto da uno stento albero di fico. Sporgendosi in punta di
piedi perse l’equilibrio e per evitare di cadere su un cuscino di rovi si
appoggiò con entrambe le mani a una vena di marmo giallo che affiorava dalla
parete di roccia. E sparì alla vista.
Quando Alberta
si rese conto che c’era qualcosa di strano, si fece strada tra gli sterpi e
raggiunse il fico. Il dolce profumo che aleggiava intorno alla pianta era quasi
coperto da un odore freddo, acido, e un soffio faceva frusciare le foglie
pelose. Piena d’ansia chiamò Bella a più riprese, ma non ebbe risposta. Eppure
la sua sacca blu era appoggiata al tronco, non poteva essersi volatilizzata. Da
quel punto era impossibile cadere in mare, grossi cespugli si protendevano fino
all’orlo degli scogli, non c’erano sentieri. Che la sciocchina si fosse
nascosta per fare uno scherzo? Colse anche lei un fico per farsi passare il
gusto di rabbia che le era venuto in bocca. Mentre se ne stava protesa verso il
ramo più vicino sentì di nuovo un filo d’aria fresca che le si attorcigliava al
collo. Con un gesto che veniva dall’infanzia, si bagnò l’indice di saliva e ne
seguì la traccia fino alla roccia. Proveniva dalla striscia gialla che
serpeggiava dall’alto in basso di tutta la parete di granito chiaro. Percorse
la vena con la destra, godendone la liscia perfezione, e precipitò in
un’oscurità improvvisa.
Ruzzolò su un
pendio umidiccio e appiccicoso, cosparso di pezzetti aguzzi che le ferirono le
gambe e le braccia. Non riuscì a fermarsi finché non sbatté contro qualcosa di
morbido che lanciò un urlo stridulo.
– Bella! Sei
tu?
Le rispose un
sussurro terrorizzato.
– Sì. Parla
piano. Ho l’impressione che ci sia qualcuno qui dentro.
– Figurati!
Alzati, su. Dobbiamo cercare un modo di uscire.
Sentiva una
mano gelida di paura stringersi attorno al cuore e al cervello, e capiva che
non era il momento di farsi prendere da stupide fissazioni. Si tirò in piedi
con molta precauzione perché il terreno era in forte pendenza. Bella le si
aggrappò facendole quasi perdere l’equilibrio.
– Ferma, fai
attenzione. Cerchiamo di pensare. Senti una corrente d’aria?
– Non so,
sento qualcosa, come ragnatele… o tocchi… dobbiamo uscire, questo posto mi fa
orrore, non voglio morire qui.
C’era una nota
isterica nella voce di Bella, e Alberta si rese conto che doveva essere forte
per due. Tastò nel marsupio allacciato alla vita, cercò la pila che portava
sempre con sé. Era piccola ma potente, il raggio si proiettava lontano. Si
trovavano su un pendio ripido che verso il basso si perdeva nel buio, mentre
alla loro destra si innalzava una parete di roccia, che verso l’alto terminava
a angolo retto con un soffitto pianeggiante dove si vedevano tracce di
scalpello.
– È una grotta
artificiale, e questo vuol dire che ci deve essere un modo di uscirne. Anche se
non ho ancora capito come ci siamo entrate.
– Mi è bastato
sfiorare la roccia e mi sono trovata qui nel buio. È un posto maledetto, mi fa
paura, non voglio rimanere qui. Usciamo, ti prego, usciamo.
– Guarda.
Si avvicinò
alla parete. Bella, sentendola muoversi, lanciò un grido che si propagò a
ondate risvegliando echi spaventosi.
– Non mi
lasciare!
Alberta la prese
per mano e la trascinò verso di sé. Era agghiacciata da quello che aveva
scoperto. Migliaia di figure si stagliavano nella pietra vagamente luccicante,
una processione di cui non si vedeva la fine ma si indovinava la mostruosità.
Ne spirava un senso di angoscia totale, di nera disperazione, come se ogni
speranza fosse sparita da sempre. Eppure, a quello che si riusciva a vedere,
erano poco più di abbozzi, forme velate e indistinte. Tanta repulsione le
suscitavano che distolse bruscamente il raggio volgendolo verso l’alto, alle
loro spalle. Il fondo oscuro in cui si inabissava la grotta con la muta e cieca
processione era troppo intollerabile anche solo nell’immaginazione. Ne veniva
un fiato acido e gelato, e una specie di mormorio che la ragione rifiutava. Se
non trovava qualcosa da fare subito, immediatamente, sarebbe stata sopraffatta
dal terrore. Strinse la presa sulla mano di Bella e la costrinse a seguirla
nella faticosa risalita del pendio scivoloso. Dal basso salì un rumore
indistinto, come di un immane scalpiccio su foglie secche, o un rigirarsi
innominabile tra lenzuola fruscianti. Quando si trovarono di fronte la roccia,
superando il ribrezzo la tastarono da ogni parte alla ricerca di un pertugio,
di una spaccatura, ma la parete era disperatamente compatta.
Bella sussurrò
qualcosa che Alberta non capì.
– Che cosa?
– Sento un
soffio caldo qui, come un alito.
Seguirono la
tenue traccia fino a un punto in cui la pietra pareva tiepida al tatto.
Strisciarono le mani in alto, in basso, come carezzando un’epidermide cara,
come a provocare piacere o compassione in quel crudele ostacolo. Bella trovò
una linea bollente. Non ebbe il tempo di avvertire Alberta che le stava
aggrappata al braccio. In un istante incomprensibile si ritrovarono all’aperto,
davanti al medesimo blocco di marmo giallo che le aveva fatte prigioniere.
Rimasero ferme a guardare il mare che luccicava oltre i rami di un lentisco, senza forza nelle gambe, senza pensiero in testa. La paura non si era ancora sciolta nel sollievo, avevano il viso al sole ma le schiene madide di sudore freddo non riuscivano a smettere di rabbrividire. Infine Alberta si riscosse, guardò l’ora.
– Sono quasi
le cinque, sono passate sette ore da quando siamo arrivate qui. Ci staranno
cercando, chissà come sono spaventati, dobbiamo correre, forza.
– Come fanno a
cercarci? Abbiamo noi il gommone.
– Padre Josip
ha una barchetta.
Corsero giù
scivolando e inciampando, accesero il motore e tornarono alla barca a gran
velocità. Tutto era calmo a bordo, non c’era segno che qualcuno vi fosse salito
in loro assenza. Alberta scese sottocoperta a prendere dell’acqua fresca, ma
aveva appena aperto il frigorifero che sentì Bella gridare.
– Siamo qui!
Siamo qui!
Tornò sopra di
corsa. Severino e Rocco erano sul piccolo molo di cemento, immersi in
chiacchiere con padre Josip. Non sembravano per niente inquieti, anzi solo
Rocco agitò una mano in segno di saluto gettando uno sguardo distratto verso di
loro.
– Non si sono
accorti di niente…
Era
inconcepibile, ma reale. Alberta andò a prenderli con il canotto, talmente
ansiosa di raccontare quello che era successo che la gola le faceva male per
l’ingorgo di parole. Ma i tre salirono continuando la fitta conversazione.
Rocco fece per darle un bacio in fronte poi si trattenne, forse per rispetto
del monaco.
– Il padre
viene a cena da noi, mangiamo subito così non fa tardi. C’è qualcosa di
pronto?
Alberta era
troppo sconvolta per rispondere. Riavviando il motore scoppiò in lacrime, ma il
rumore impedì agli uomini di accorgersene. Appena furono a bordo Rocco corse a
prendere delle birre mentre Severino, eccitatissimo dalla sua giornata in
biblioteca, continuava a parlare. Bella tremava in piedi nel pozzetto.
Finalmente Severino si fermò di fronte a lei e la afferrò per un braccio.
– Che cosa
succede, ragazza mia? Stai male? Hai la febbre?
Anche Bella
cominciò a piangere. Alberta la raggiunse, la abbracciò, mescolarono lacrime e
singhiozzi finché la voce infuriata di Rocco le costrinse a riprendersi.
– Piantatela!
Dite che cosa avete, subito!
Mentre Alberta
cercava di spiegare la loro avventura, già Severino e Rocco, sollevati,
abbozzavano sorrisi rassicuranti, paternalistici, le stringevano alle spalle.
– Vi siete
spaventate, ragazze, ma avete scoperto una nuova grotta. O magari è già conosciuta,
che ne dite, padre?
Padre Josip,
che conosceva un po’ l’italiano, era pallido come uno straccio e scuoteva la
testa come se qualsiasi risposta fosse troppo difficile. Crollò seduto sulla
panca stringendo i bordi del tavolo con entrambe le mani, poi si diede una
manata sulla fronte. La sua voce baritonale risuonò fuori posto nel fruscio di
mare e vento, come un’eco di chiesa, odorosa di incenso e candele.
– Andate via,
andate. Quest’isola non è sicura per voi.
Cominciò a
parlare in greco, lentamente perché Rocco potesse seguire bene le sue parole e
tradurle per gli altri.
– Sta
succedendo qualcosa qui. Forze che resistono a qualsiasi preghiera si stanno
risvegliando. Potenze oscure, diaboliche. La grotta… si sapeva che doveva
esserci, ma nessuno l’aveva trovata finora. O meglio nessuno l’aveva mai
cercata, perché è maledetta e non dovrebbe esistere, non bisogna nominarla,
nemmeno pensarci. Vi avevo avvisato che le donne non dovevano scendere a terra.
Non possono portare che disgrazia, terrore e oscurità. Figlie del diavolo! Sono
loro che chiamano le potenze del disordine. Perché non mi avete dato retta?
Certe porte, una volta aperte, non si richiudono più. Dovete andarvene stasera
stessa e dimenticare tutto. Ho accettato di venire con voi perché la notte non
è piacevole al monastero, ma è meglio non perdere tempo a cenare, riportatemi a
riva poi via, via, andate via.
Se non fossero state così scosse dall’esperienza del giorno, probabilmente le ragazze sarebbero scoppiate a ridere tanta era l’enfasi che il vecchio metteva nei suoi anatemi contro le donne. Invece sentirono un brivido di paura e nelle loro orecchie risuonò il sussurro gelato della grotta. Rocco era nervoso, irritato di dover pronunciare quelle parole di follia, ma fu Severino a ridere di cuore.
– Ma
scherziamo? Traduci, traducigli questo, – gridò gioviale dandogli gran
gomitate, – non me andrò di qua finché non avrò finito di esplorare quella
fantastica biblioteca, voglio guardare e toccare ogni libro, ogni codice
miniato, è una caverna di Alì Babà! Un parco giochi per un bibliofilo!
Si voltò verso
Bella, esaltato e sicuro che potesse solo essere d’accordo con lui.
– Vero amore
mio? Diglielo anche tu quanto desideravo questa visita.
Bella nascose
il volto tra le mani. Padre Josip riprese a parlare con maggiore ansia, come se
volesse raccontare in fretta, prima che il buio scendesse del tutto.
– Era tutto in
pace, non c’erano spiragli tra il mondo oscuro e il mondo della luce. Tutto
taceva, era dimenticato e avrebbe potuto esserlo per sempre se queste terre non
fossero state invase da gente curiosa, gente senza prudenza. Le porte dell’Ade…
ce ne sono molte in Grecia, passaggi di cui gli antichi pagani sapevano, ma non
volevano sapere. Nel Mani, ad esempio, vicino a Porto Kagio, e altri che non
nomino. Se ne stavano lì e nessuno se ne occupava. Adesso sembra che vogliano
scoprire tutto, esplorare tutto. Ma il peggio è stato quando hanno scavato
l’antico, terribile Nekromanteion, il luogo in cui morti e vivi possono
ritrovarsi e parlare. Là sulla costa dell’Epiro, nel paese dei Cimmeri, presso
la foce dell’Acheronte, dove si riuniva con gli altri fiumi infernali, il
Cocito e il Piriflegetonte. Se ne era perso il ricordo, c’era una chiesa
cristiana sul sito, che comunque riusciva a stento a nascondere gli orribili
misteri del regno delle tenebre senza speranza. E adesso chiunque può visitare
il sacro sotterraneo, donne mezze nude, uomini che fumano e masticano e bevono
e fanno fotografie di ogni sasso senza sapere che forse stanno rubando l’immagine
a un morto, a qualche ombra che poi si porteranno dietro nelle loro case, nelle
loro città… Ma non sono i morti a fare paura. I morti sono solo anime di
dolore, grumi di inquietudine disperata. I morti che stanno in quei luoghi
innominabili naturalmente, nell’inferno e nel paradiso dei cristiani è tutto
diverso. Non raccontate a nessuno quello che ho detto, sto facendo un peccato
mortale, dico cose che non si dovrebbero dire. Eppure sono un buon cristiano,
ma quello che ho visto e quello che so è tremendo… c’è da perdere il senno, non
dico la fede, ma la forza di respingere le immagini blasfeme…
Era chiaro che il povero padre Josip era impazzito, parlava del tutto a vanvera. Rocco, sudato per lo sforzo di seguire i suoi vaneggiamenti, traduceva una parola ogni tanto, ma il monaco lo spronava a dire tutto, tutto, perché i suoi amici sapessero quale pericolo stavano correndo.
– Non sono i
morti, no, è Lei che si è risvegliata quando qualche bello spirito si è fatto
richiudere nel sotterraneo e vi ha trascorso una notte intera, così da
acquistare la lucidità necessaria per vedere nel buio, e ha pronunciato qualche
formula che non capiva nemmeno, o preso dal terrore ha gridato nelle tenebre e
l’aroma del suo sudore ha vellicato le narici di Colei che dormiva immemore,
indifferente, cieca e sorda. Si sente il suo respiro, è più forte di quello del
mare. L’era della luce, del Padre, della ragione, della giustizia, della
crudeltà e della compassione è finita. Lei è pura forza, la cieca vita. Ma
quello che pensa, che vuole, nessuno lo può sapere.
Sembrava che
non riuscisse più a smettere. Severino gli versò un bicchiere di vino e padre
Josip lo bevve d’un fiato, respirando forte e gettando il capo all’indietro con
un gesto di infinita stanchezza. Si buttarono tutti sul pane, la frutta, il
formaggio portati da Alberta con l’avidità di chi non aveva mangiato nulla dal
mattino e l’ansia di fare qualcosa di normale, concreto. Il monaco aveva
interrotto il fiume di parole ma sembrava provare ribrezzo verso le donne, evitava
con cura qualsiasi contatto fisico. Quando il fumo delle sigarette si levò
nell’aria ferma, Severino l’affrontò di petto.
– Ma tutte
queste cose, come le sa?
Negli occhi
del monaco passò una nuvola di angoscia.
– Le notti
sono lunghe sull’isola delle Arpie, e piene di voci che raccontano ciò che non
si dovrebbe sapere. Ciò che un uomo di fede come me dovrebbe respingere come
bestemmie. E si fanno certi sogni, si vedono delle figure nel fuoco del camino
che non scalda ma intossica. E ci sono pietre nelle fondamenta del monastero,
dove in anni così antichi che non sappiamo neanche come contarli, artisti senza
nome né volto rappresentarono scene piene di mistero e insieme capaci di
narrare a chi sa guardarle i misteri più tremendi. Persino nei libri, libri santi
che parlano del Padre e del Figlio, ci sono parole che a saperle leggere
ricordano Quella che c’era prima, nella notte dei tempi, prima che la luce
fosse separata dalle tenebre.
Rocco ne aveva
abbastanza. Sempre più irritato da quei discorsi fumosi, diede una pacca
sgarbata sulla schiena del monaco.
– Forza,
padre. La riporto a riva. Ci facciamo tutti una dormita così domani ci
svegliamo con la mente più lucida. Poi magari andiamo a vedere la grotta delle
ragazze, non siamo stati gentili con loro, poverine, hanno vissuto un’avventura
terribile e non gli abbiamo quasi dato retta per ascoltare le sue panzane.
Ma padre Josip
non ne volle sapere di tornare sull’isola. Rocco gli trovò qualche coperta e lo
sistemò sulla panca del pozzetto.
– Gli verrà un
raffreddore con quest’umidità, e ben gli sta. Speriamo che gli vada via la
voce, a questo invasato senza cervello.
La notte fu
inquieta per tutti. Si alzò un vento furioso che sibilava e sbatteva e
schiaffeggiava ululando e portando strida di uccelli. Le onde si accanivano
contro gli scogli, trascinavano la barca verso la riva, e nel cielo senza luna
le nuvole si rincorrevano accavallandosi in un movimento vorticoso. Al sorgere
del sole si ritrovarono tutti in coperta, con gli occhi gonfi e pochissima
voglia di parlare. Il vento era calato del tutto. Dopo la seconda tazza di
caffè l’atmosfera cominciò a riscaldarsi un poco, ma nessuno sembrava aver
voglia di muoversi di lì. Persino Rocco aveva perso l’energia della sera prima,
e scrutava il mare ancora rissoso con aria diffidente. Alberta sperò che avesse
dimenticato il proposito di recarsi alla grotta, ma fu Severino a affrontare
l’argomento.
– Allora,
forse è meglio che prima di cercare di entrare nella grotta, la segnaliamo alla
sovrintendenza archeologica di Atene. Potrebbero seccarsi se pasticciamo troppo
in giro. Bisogna marcare in qualche modo l’entrata per ritrovarla. Andiamo
subito, ragazze? Dopo voglio tornare alla biblioteca, ho ancora un sacco di
lavoro da fare.
Soddisfatto
come un topo che ha scoperto un deposito di parmigiano, aveva già dimenticato
l’angoscia di Bella e Alberta, i discorsi del monaco, i terrori della notte. La
reazione di Bella li prese di sorpresa.
– Ma chi se ne
frega del tuo lavoro! No, caro mio. Io voglio andarmene subito. Voglio tornare
in qualche posto pieno di gente sensata, automobili, telefoni, televisioni,
voglio andare al ristorante e camminare sulla terra ferma. Portatemi via
subito. Se mi vedo ancora davanti quella faccia da pazzo per un minuto,
impazzirò anch’io!
E davvero, con
le guance rosse e coperte di lacrime, il dito puntato verso il monaco, la voce
strozzata e il corpo che tremava, non sembrava più in sé. Alberta cercò di
abbracciarla ma lei la respinse, stringendosi istericamente a Severino. In quel
momento la luce perfetta del mattino venne offuscata da una nuvola nera che si
attorcigliava attorno al sole. Una tempesta di lugubri voci si abbatté sulla
barca ferma nel freddo.
– Uccelli! –
gridò Rocco. – Sono uccelli, ma volano così alti che non si capisce quali siano.
– Uno stormo
in migrazione, un po’ presto, ma in fondo siamo alla fine di settembre. Siamo
sulla rotta per l’Africa di tutti i trampolieri dell’Europa dell’est.
Neanche in
quel momento Severino rinunciava a dimostrare la sua competenza. Padre Josip
aveva perso il suo bel colorito di uomo abituato all’aria aperta, l’ombra dello
stormo lasciò una traccia livida sulle sue guance ingrigite.
– Partirò
anch’io con voi.
Discussero il
da farsi. Severino era contrarissimo a partire, e anche Rocco pensava che fosse
un’idea stupida. Alberta, divisa tra il terrore del giorno prima e il desiderio
di non contraddirlo, esitava. Bella era per la partenza immediata, il monaco
voleva prima tornare al monastero per sbrigare qualche faccenda. Alla fine si
accordarono per trascorrere lì ancora una giornata, ma malgrado padre Josip
protestasse cupamente, le ragazze si rifiutarono di essere lasciate sole.
– Verremo con
voi poi andremo tutti insieme a segnare il luogo della grotta.
Non c’era
altro da dire, e poco dopo il gommone stracarico attraccò alla piccola gettata
di cemento.
Davanti al
portone che chiudeva l’accesso al cortile padre Josip tirò fuori da una tasca
una grossa chiave di ferro, la infilò nella serratura e aprì con grande
stridore. In un altro momento Alberta avrebbe trovato divertente quella assurda
precauzione, ma sotto il sole oscurato dai volatili che continuavano a
turbinare stridendo, nel freddo settembrino, tra i folti lentischi che
sembravano contorcersi e stendere braccia maligne, con la prospettiva di
entrare nell’ombra gettata dalla costruzione principale che torreggiava su di
loro, anche un sorriso le parve un atto sacrilego, una profanazione.
– Restiamo
fuori, – sussurrò a Rocco. Lui la spinse dentro sgarbatamente.
Severino,
impaziente di raggiungere la biblioteca al primo piano, stava già trafficando
con la sua fotocamera digitale. Padre Josip bofonchiava guardando le ragazze
con aria disgustata, sputacchiava in terra, tanto sgradevole che Rocco lo
interpellò brusco.
– Ma perché
mai ce l’ha tanto con le donne?
– Non
avrebbero mai dovuto venire qui. Le femmine si chiamano, non riescono a stare
lontane tra di loro. Colei che si è svegliata le sentirà e diventerà curiosa.
Ha dormito tanto, ora ha il tempo tutto per sé.
In un accesso
di rabbia Rocco tirò un calcio a una latta piena di basilico che rotolò
versando la terra sul selciato. Il monaco, senza badargli, sollevò una mano per
fare silenzio. Si era di nuovo alzato il vento e sibilava furioso attraverso i
tetti e le vecchie costruzioni in abbandono. Rimasero tutti fermi a ascoltare.
Non c’era da dubitare, non era un’allucinazione: il vento fischiava secondo una
melodia, una musica intenzionale. Il vento parlava e cantava. Nella luce
violenta ogni particolare risaltava come inciso, a portata di mano. Un turbine
di polvere si levò in un angolo del cortile, si alzò nell’aria roteando su se
stesso fino a raggiungere le tegole. Tutti lo seguirono con lo sguardo e
rimasero agghiacciati a fissare qualcosa – una cosa al di là delle parole, una
cosa immensa e insieme minuscola, qualcosa di incredibile che si muoveva sopra
al tetto, o nell’aria, o forse in mezzo a loro, con loro, in loro.
Balla come un
derviscio sul tetto del monastero. Ruota e prilla con le braccia alzate, se
sono braccia, sulla punta di un piede come una ballerina classica, se è un
piede, veloce, avvolta su se stessa, ondeggiando come una fiamma. Del colore
della fiamma e della terra. Non ha viso né occhi né bocca, non le servono a
nulla. Gli uomini e le donne inchiodati nella polvere del cortile vedono le
mammelle enormi, il ventre gravido, il taglio verticale tra le cosce gonfie.
Provano la divina ebbrezza del vortice di danza, non hanno più peso né battito
del cuore. Sentono – non con le orecchie, no, non ci sono parole ma è la
comunicazione tra la madre e il feto, sentono con tutto il corpo, con il sangue
e le ossa, il cervello e gli occhi ciechi e i polpastrelli senza impronta –
sentono creature, non mi piace quello che avete fatto mentre mi riposavo
dalle fatiche del parto. Sapevo che il Padre non era all’altezza, ma ero
stanca. Dopo aver partorito tutto un universo, ero stanca, lo potete capire?
Non importa. Ora sono riposata – mi sono riposata a lungo, a lungo, – e sono
pronta a ricominciare. Questa volta andrà meglio. Mi occuperò io di tutto, non
mi fiderò più, non affiderò più nulla al Padre. Devo fare tutto io. Sono piena
di energia, sono piena, scoppio. Sono pronta. Devo partorire un nuovo universo.
Questo no, non mi piace e guardarlo mi fa male.
La danza
rallenta. L’ebbrezza si placa, il ventre pregno si tende sempre più, le
mammelle stanno per scoppiare tanto sono gonfie. Ora che il ritmo è più pacato,
quando la madre volge le spalle si vede che cosa ha dietro: un teschio
ghignante con la lunga lingua rossa come il sangue che pende fino ai piedi, uno
scheletro bianchissimo che stringe la sua falce con amore.
È troppo
tardi. La grotta non ha più importanza perché non ci saranno più né grotta né
morti né vivi. Non torneremo alla grotta, non vedrò il figlio che forse sta
crescendo nelle mie viscere, non diventerò mai il più grande studioso del
mondo, non sentirò mai più la musica che amo. È tutto inutile, è tutto finito.
– Ci ucciderà.
Ma sanno che
non ne ha bisogno. Sono stati rifiutati dalla madre, sono già morti. Lacrime e
terrore e poi il nulla, di loro non resterà nemmeno la polvere o l’ombra.
Mentre
l’oscurità riempie il cielo, mentre il caos riconquista il cosmo, la memoria
dei loro occhi vede ancora il ventre pallido che si dilata all’infinito, le
cosce spalancate come un abisso sul nulla, e al centro un nero vortice pieno di
morte, e di vita.
STUPENDO!
RispondiEliminaIl primo lavoro tuo che ho letto: non ti conoscevo e, da questo racconto, mi è venuta voglia di scoprire se avevi scritto altro e... il resto è storia! :-)))
Ho divorato con piacere enorme ogni tuo libro e sempre ne sono stato estremamente felice e soddisfatto.
Un abbraccissimo!
Orlando
Grazie Orlando! mi emoziona sempre tantissimo sapere che qualcuno mi ha letto e ne ha tratto piacere... non mi sembra mai possibile. Spero che tu sia in un posto bellisimo (come me) e ti stia divertendo un sacco. Smack a tutti.
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