CENTO DI QUESTI GIORNI
Eh quanta gente! Siete
sicuri di essere venuti nel posto giusto? Cercate proprio me?
La festa, la festa, che festa volete farmi? Ma fatemi il
piacere! Ma non parliamone nemmeno! Non voglio nessuna festa. Lo so benissimo
che stasera a mezzanotte compirò cento anni. Vi sembra una cosa da festeggiare?
Piuttosto, non potete
liberarmi da quei tipi della televisione, ragazzotti con la coda di cavallo e
giovanotte aggressive che quasi mi infilano il microfono in bocca, che mi
tormentano da stamattina? Nonna Marianna mi chiamano, e la cosa mi fa
arrabbiare perché non sono nonna di nessuno, ma non dico niente, chi mai ci può
parlare con simili energumeni?
Va be’, grazie mille. Siete ben
gentili a esservi presi tutto questo disturbo. Mi dicono che il mondo là fuori
è impazzito per questo Capodanno del 2000. Non era meglio se andavate a ballare
con i morosi e le morose? Tanto io vado a dormire presto. Però adesso
smettetela con la storia del compleanno.
Mi viene da prendermela con mia madre, anima
santa, che mi ha fatta nascere proprio allo scoccare del secolo. Già lei mi
raccontava che, nel paesino di montagna dove aveva partorito nella stalla per
trovare un po’ di caldo, tutti mi chiamavano “la figlia del secolo”. Non
immaginava certo che sarei vissuta cent’anni! Cent’anni sono troppi per
chiunque. I primi venti faticosi, dieci meravigliosi, dieci di sofferenza
ignobile, quindici di ricostruzione, quindici di serenità, dieci di
rassegnazione, venti di felicità pura perché sopravvivevo, perché ogni mattina
ritrovavo il respiro e la luce e il piacere di prendere un caffè. Tre figli con
due uomini diversi e nessun nipote. Ma potevo raccontare questo ai ragazzotti e
alle giovanotte? No di certo. Per cui, ho sorriso alle domande sceme, ho ringraziato
per le mentine, e mi sono tenuta dentro tutto quello che a loro non interessa.
Loro vogliono sentirmi dire “Sì, sono felice, sì i miei tempi erano diversi,
sì, è una grande emozione vedere l’alba del nuovo millennio.”
Ho visto due guerre, il
fascismo, la guerra fredda, lo sbarco sulla Luna, il crollo del muro di
Berlino. Sì, certo, sono informata. Perché non dovrei? Ma chi se ne frega del
nuovo millennio. Cambierà qualcosa per me, domani? Dovrò sempre chiedere aiuto
per andare al gabinetto, sottopormi alle visite noiose di chi vuole sapere come
va la pressione, sopportare i vezzeggiativi e le vocine artefatte delle gentili
infermiere che mi lavano, mi voltano, mi imboccano, mi infiocchettano e mi
rincalzano le coperte come se fossi il Bambin Gesù nella mangiatoia.
Voi invece ragazzi mi siete
proprio simpatici. Be’, per me siete tutti ragazzi, è normale. Ma come vi è
venuta l’idea di una festa in questo posto così triste? Lì per lì mi avete
presa alla sprovvista, però adesso sono molto contenta.
Che buone cose avete
preparato, che bella tovaglia, che festoni allegri. Una fetta di torta sì,
volentieri. Un dito di spumante, certo. Davvero è champagne? Ma chi lo paga?
Anche la trombetta! Quella no, per piacere, e nemmeno il cappellino di carta.
Non siamo mica in un telefilm americano. Bella roba da offrirmi, il torrone!
Scherzava? Uno scherzo scemo, se lo lasci dire. Senza offesa.
Un reperto archeologico,
ecco che cosa sono per quei lì che volevano parlarmi, intervistarmi, interrogarmi.
Loro vedono solo l’involucro, l’esterno così cambiato, non capiscono niente di
quello che c’è dietro. Io invece sono una persona, e la cosa più importante che
mi resta è la dignità. Sono una donna che ha molto vissuto e molto amato, è
stata molto amata, ha assistito costernata alla rovina del proprio corpo, ha
dovuto accettare, accetta, ma non dimentica. Se avessi detto a quel ventenne
sprizzante di ormoni con la sua telecamera in spalla che ancora ricordo una
notte di luglio con Alberto, l’odore del mare e il tocco delle sue mani, si sarebbe
fatto il segno della croce e sarebbe fuggito via come davanti a un’indemoniata.
La musica sì, quella mi
piace. Con Alberto andavamo all’opera, quando avevamo i soldi. Come faceva
quell’aria? “Su brindiamo nei lieti calici che la bellezza infiora…”. Proprio
adatta a questa bella festa. Peccato che non abbiate il disco, o il compact, o
quello che si usa adesso. Anche questa canzone va benissimo. Non la conosco, ma
è carina. Belle le parole.
Non ho raccontato niente a
questi sani ragazzi brufolosi. Non sapranno mai che quando Alberto morì io mi
tagliai le vene, per dieci anni lo invocai ogni notte mordendo le lenzuola
bagnate di lacrime, poi ritrovai la voglia di vivere perché un altro uomo mi
desiderava, e io accettai il suo amore per rinascere. Non racconterò le discussioni
appassionate con gli amici, l’occhio aperto sul mondo, i dubbi, i mille
interrogativi che hanno accompagnato la mia vita.
Il sindaco! Con tutto quello
che avrà da fare! E io che non mi sono nemmeno cambiata. Rose rosse, per me? La
pergamena del comune? Un bacio del sindaco, che onore! Fa sempre piacere un
bacio da un bell’uomo. Le foto però non mandatemele, è tanto che non sopporto
più di vedermi in fotografia. Come siete tutti gentili! Ma grazie, che bei
regali. Uno scialle, un plaid, una sciarpa! Ma qui non fa mica freddo, sapete.
Non risparmiano sul riscaldamento. E poi, verrà pure l’estate.
Mi viene un po’ da piangere. Il
sindaco non l’avevo mai visto da vicino. Tutta questa gente così gentile, con i
vestiti da sera, che trova il tempo di venirmi a salutare! Poi andrete a
divertirvi in qualche bel locale, spero.
Non state a farmi tante
domande. Non sono saggia. Sono solo vecchia, ecco tutto. Ero bionda, sì, quando
avevo i capelli. E avevo mani morbide labbra rosa e gambe lunghe. Già, quella
sono io a vent’anni con Alberto, il giorno del nostro matrimonio. E lì sono con
Luigi e i miei figli, in ferie al mare. Ho anche lavorato, certo. Stiratrice,
commessa di panetteria, cameriera d’albergo, cose così. Sono nata povera e non
ho studiato. Ma non sono scema né ignorante.
Soprattutto non sono in pace
solo perché gli anni sono passati, tanti, crudeli o gioiosi, perché la mia
pelle è rugosa e gli occhi lacrimano. Dentro sono sempre la stessa. Mica solo
l’amore ricordo, i due uomini che ho amato e i pochi altri con cui ho diviso
una notte o una settimana. Ho avuto tre figli, e nessuno è stato fortunato. Il
primo me l’hanno ammazzato i fascisti da partigiano, il secondo è scampato alla
guerra ma è morto in fabbrica sotto a una pressa, e Maria, la più piccola, l’ho
vista con questi occhi piangere e torcersi dopo un aborto che non mi aveva
confessato. Forse non sono stata una buona madre per lei, se no avrebbe avuto
più fiducia in me e non sarebbe morta senza avere il tempo di dirmi chi aveva
amato. Ma nel mio stanco ventre avvizzito, tradito dal tempo contro la mia
volontà, sento ancora il peso di quei tre figli tanto attesi e voluti, che mi
hanno lasciata sola a trascinare la maschera ambigua e umiliante della
vecchiaia. Troppi funerali ho visto nella mia vita, troppe tombe aspettano i
fiori che non ho più la forza di portargli. Ma non ho dimenticato i miei morti,
credetemi.
Adesso vi racconto una cosa
che vi sembrerà strana. Certe volte, la mattina, quando mi lavo la faccia, non
posso proprio fare a meno di vedermi nello specchio. Non lo faccio volentieri,
credetemi. Eppure, se mi guardo bene, vedo la stessa Marianna di sempre. Gli
stessi occhi allegri che vedo da cent’anni, lo stesso naso troppo lungo, le
fossette se mi sorrido. Ma se invece intravedo per caso la mia immagine
riflessa nel vetro della finestra mi pare di vedere mia madre. Mi pare di
muovermi come lei, di avere le stesse espressioni, e mi impressiono. Dicono che
succede a tutti, invecchiando. Io comunque preferisco sempre non vedermi per
niente.
Mi fa ridere l’idea di
apparire in televisione proprio adesso che la mia faccia fa senso a vederla. Eh
da giovane ero vanitosa, mi piaceva essere guardata, mi piacevano i
complimenti, e dire che Alberto era gelosissimo, e anche Luigi, che quando
stavo con lui non ero più tanto giovane. Ma naturalmente allora la televisione
non c’era.
Però, a quelli lì non ho
raccontato che non ho dimenticato niente. Ho cent’anni, sono diventata un
personaggio da fiaba, e come tale mi comporto. Chiedete, ragazzi. La nonnina
crollerà il capo candido sorridendo, dirà che tutto era diverso ai suoi tempi,
la gente era buona, la vita semplice, il mondo comprensibile e amichevole. Come
se fossi nata centenaria, come se il fatto che ora sono vecchia avesse
cancellato tutto il resto della mia vita. Ma che cosa credete che si vivano a
fare cent’anni? Davvero pensate che io non abbia mai bestemmiato, che non mi
sia mai sbronzata, non sia mai stata piegata, travolta da un orgasmo,
innamorata e pronta al delitto per vivere il mio amore, invidiosa, gelosa,
cattiva, furiosa per la politica e capace di barare a poker, davvero credete di
essere i primi a vivere?
Ma fatemi il piacere. Chiedete
alle vostre nonne. Prima di diventare vecchi si è giovani, tutti quanti, mentre
il contrario non è certo.
Grazie, grazie a tutti. Che
bella festa. Per un attimo mi è sembrato che fossero qui anche Alberto e Luigi,
lì vicino alla finestra, sorridenti. Mi vien da ridere! Pensate se avrebbero mai
potuto starsene vicini calmi e tranquilli. Si sarebbero pestati a sangue, si
sarebbero cavati gli occhi a vicenda. Ma per fortuna non si sono mai incontrati
in vita.
Voglio dormire un po’, ma
grazie ancora.
Ci vediamo l’anno prossimo,
se ve ne ricorderete.
Me lo ricordavo: un personaggio impagabile, la tua centenaria...
RispondiEliminaQuando l'ho scritto mi pareva fantascienza, e adesso un po' troppo realistico... ahi ahi ahi. Maledetto tempo.
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