Una notte con Barbablu – prima puntata
Marina,
arrabbiata e infreddolita, guardava con poca speranza la strada di campagna che
si perdeva dietro una curva, dove le prime ombre si raccoglievano sotto una
fila di pioppi. Quello era proprio un viaggio cominciato male. La sua amica
Lauretta, con cui era partita, che cosa aveva pensato bene di fare se non
filarsela con un motociclista conosciuto nel primo bar dove si era fermate a
mangiare un panino? E non ha nemmeno il casco, pensò Marina. Spero che li
fermino e gli diano una multa tale che lei sia costretta a tornarsene a casa
stasera stessa. Spero che lui sia un maniaco sessuale e l'abbia violentata e
uccisa in un bosco. Si pentì immediatamente di avere pensato una cosa simile e
fece mentalmente le sue scuse a Lauretta. La multa era più che sufficiente. Poi
quello stupido camionista che ci aveva provato e l'aveva costretta a scendere
in piena campagna, nell'unica strada in tutt'Italia in cui passava una macchina
ogni mezz'ora. E stava anche cominciando a piovere.
Marina tirò fuori dallo
zaino una felpa stropicciata e se la infilò. Di questo passo, pensò, non ci
arriverò mai a Tropea, non raggiungerò mai i miei amici, e intanto Davide si
troverà un'altra ragazza, le vacanze finiranno, sarà di nuovo l'ora di tornare
a scuola, e io morirò di fame e di freddo su questa stupida strada, lontana da
ogni centro abitato, lontana dai bar illuminati, dalle discoteche, dalle
spiagge, in mezzo alla campagna buia e piena di rumori sconosciuti, e tutto per
risparmiare i soldi del treno, che stupidaggine… Un'idea di Lauretta
naturalmente, quella aveva sempre idee balzane, chi fa più l'autostop al giorno
d'oggi? Avrà visto alla televisione un filmetto degli anni cinquanta, di quelli
pieni di straniere bionde con fularino al collo che calano in Italia a pollice
in fuori e sposano conti veneziani con la Giulietta rossa. Intanto Lauretta era
da qualche parte con il motociclista che era uno studente di Genova carino e
simpatico, mentre nessuno sapeva che lei, Marina, fosse lì da sola mentre la
notte scendeva, nemmeno i suoi genitori che la credevano sull'intercity per
Reggio Calabria.
In quel momento sentì il
rumore di una macchina che proveniva da dietro alla curva. Si affrettò a
rimettersi in posizione con il pollice teso e un sorriso speranzoso sulle
labbra. Veloce ma non troppo, imponente, silenziosa, arrivò una Volvo blu
metallizzato che la fece sognare un proprietario ricco, ma dignitoso e
affabile. Si fermò. C'era solo il guidatore, un signore sulla quarantina che
abbassò il vetro per parlarle.
"Vuole salire, signorina?
La posso condurre fino in paese, è meglio che non resti su questa strada
isolata a quest'ora".
Con un sospiro di sollievo e
un sorriso riconoscente Marina sedette sul sedile coperto da una fodera bianca.
"Avevo paura di
rimanere qui fino a domani," disse sistemando lo zaino tra le gambe (prima
regola dell'autostoppista, mai mettere i bagagli nel baule, le aveva detto
Lauretta) "ma come mai di qui non passa nessuno?".
Il guidatore si mise a
ridere.
"E lei, come mai si
trova tutta sola in un posto così insolito?".
Lei era tanto contenta di
essersi tolta da quella situazione assurda che in due minuti gli aveva
raccontato tutta la storia, Lauretta, la compagnia che l'aspettava a Tropea, il
motociclista, l'intercity per Reggio Calabria, il camionista dalle mani lunghe,
la paura di dover trascorrere la notte all'aperto. L'uomo rideva bonariamente,
da adulto comprensivo e interessato.
"Quel camionista l'ha
portata un bel po' fuori strada, domani avrà qualche difficoltà a trovare un
passaggio. Questi non sono posti di grande traffico".
Parlava gentilmente. Marina
si trovò subito a suo agio.
"Mi chiamo Guido"
disse ancora l'uomo "e sono medico. Sto andando a casa mia, a qualche
chilometro da qui. Domattina andrò a Roma per lavoro. Se vuole posso ospitarla
per la notte e darle uno strappo fino a Roma domani."
Roma andava benissimo. Un
sacco di treni andavano in Calabria da Roma. Marina pensò che se con ogni
probabilità un motociclista di Genova era più divertente, un medico con la
Volvo era senza dubbio utile.
"Benone, grazie mille.
Meglio di così non poteva andarmi".
Guido le chiese se non
potevano darsi del tu, "se no mi fai sentire troppo vecchio" disse.
Marina avrebbe giurato che c'era della timidezza nella sua voce. Un tipo
veramente simpatico anche se aveva l'età di suo padre, gentile, a posto.
Giunsero davanti a un alto
muro di cinta. Guido aprì il cancello di ferro con un telecomando che teneva in
tasca, insieme al telefonino e altri aggeggi voluminosi che rovinavano la linea
della sua costosa giacca sportiva. Quando imboccarono il vialetto che
attraversava il giardino, un doberman grossissimo cominciò a correre davanti
alla macchina abbaiando, subito raggiunto da altri due ancora più grossi. Guido
sorrise affettuosamente alle bestiacce.
"I miei angeli custodi.
Sono ferocissimi, più efficaci di qualunque sistema d'allarme. Ubbidiscono solo
a me, sbranerebbero chiunque cercasse di attraversare il giardino. Non c'è
pericolo che li avvelenino, perché accettano il cibo solo dalle mie mani e dal
guardiano che li accudisce quando sono via. Mi è costato un patrimonio farli
addestrare, ma valeva la pena".
Marina guardò preoccupata il
muso ringhioso e bavoso proteso contro il finestrino, ma non disse niente. Di
fronte alla villa Guido scese prima di lei e le chiese di aspettare in
macchina. Urlò un paio di comandi: i cani si accucciarono fremendo ai suoi
piedi.
"Ora puoi
scendere" disse.
Marina corse in fretta su
per i gradini che conducevano alla porta d'entrata. Guido aprì con tre chiavi
diverse e si voltò a farle un sorriso.
"Ora disinserisco il
sistema d'allarme".
"Le precauzioni non
sono mai troppe, eh?".
"Già".
Nel momento in cui la porta
fu chiusa i doberman si rialzarono abbaiando e corsero via.
Marina si spiegò meglio le
paure di Guido vedendo il lussuoso interno della villa. Desiderò che Lauretta
fosse lì, perché era certa che non avrebbe mai creduto a quello che aveva da raccontare. Un divano
di pelle bianca grande come il salotto di casa sua, un caminetto di marmo nero,
pellicce di tigre al posto dei tappeti, quadri su tutte le pareti, non una
lampadina in vista, eppure la stanza era illuminata a giorno! Tutto
l'arredamento, come l'edificio, era modernissimo, molto formale ma anche
accogliente, e ordinatissimo. Non un giornale in giro, libri solo su uno scaffale
d'acciaio, niente fotografie, grandi mazzi di fiori di giardino sui tavoli.
"Vivi solo?"
chiese Marina molto intimidita, usando il tu con fatica.
"Sì, purtroppo".
La voce di Guido era bassa, senza colore. "Sono vedovo e non ho figli.
Questa casa è troppo grande per me, ma ci sono affezionato. Sono successe tante
cose qui e ho messo tanta cura ad arredarla!".
Marina si sentì indiscreta e
indelicata e cercò di rimediare ammirando tutto con entusiasmo eccessivo. Guido
le dette un buffetto sulla guancia.
"Vieni, andiamo in
cucina a vedere se c'è qualcosa in frigo".
In cucina! A Marina parve
piuttosto una sala operatoria. Tutto era bianco e talmente pulito che sembrava
essere stato leccato da un esercito di gatti. Non c'era in vista neanche un
utensile, non una scatola di biscotti, un cestino del pane, una bottiglia
d'olio, uno qualsiasi dei mille pasticci che ingombrano solitamente le cucine:
solo la superficie scintillante degli armadi e dei ripiani, la perfetta
geometria degli elettrodomestici nuovissimi. Ma poi Guido cominciò ad aprire
sportelli e cassetti, apparvero piatti cucinati e scatolette attraenti, un
intero Saint-Honoré fu estratto dal freezer, la tavola fu apparecchiata con
piatti bianchi e posate nere sulla superficie lucida di un bancone di marmo grigio.
Guido si dava un gran da fare con l'aria di divertirsi moltissimo.
"Capita così raramente
che ci sia qualcuno qui, a mangiare con me," disse, tagliando il fagiano
per servire Marina. "Ma forse tu preferivi una pizza o un hamburger!".
Marina fece un risolino
mondano.
"Non sono mica una
selvaggia. So apprezzare anch'io un piatto raffinato quando lo trovo".
Si sentì scema, ma ormai lo
aveva detto.
"Coca-Cola o
champagne?".
"Champagne,
naturalmente".
Il tappo saltò fino al
soffitto e Marina pensò che cominciava a divertirsi davvero. Guido era
attentissimo, la serviva con grande gentilezza. Per la prima volta lei si
trovava in casa di un uomo affascinante e ricco, trattata come un'adulta che
meritava tutti i riguardi. Perché si era resa improvvisamente conto che lui era
proprio affascinante, alto e bello com'era, con quella faccia un po' sciupata e
quel sorriso triste e lento, quegli occhi azzurri come l'attore americano che
piaceva tanto a sua madre… Paul Newman, sì, lei non l'aveva mai visto in un
film, solo in fotografia, però doveva essere bello da giovane. Le venne da
ridere pensando a Davide che aveva la coda di cavallo e si stava facendo
crescere la barba. Davide, proprio! Quello un fagiano non l'aveva mai visto né
vivo né morto e per aprire una bottiglia di champagne avrebbe usato il
martello.
"Ti diverti?" le
chiese Guido.
"Moltissimo” rispose
lei già un po' sbronza.
Dopo cena Guido la portò a
visitare la casa. C'era solo il pianterreno e un piano superiore, ma le stanze
erano molte. Un salone, una cucina, un office (Marina non osò chiedere che cosa
fosse un office e la stanza, arredata solo con grandi armadi e un tavolo, non
le rivelò niente), un bagno, uno studio, una dispensa-ripostiglio, un alloggio
per la servitù costituito da camera da letto, salotto e bagno, e poi al piano
superiore un altro salotto, cinque camere da letto ognuna con bagno e
spogliatoio, tutto arredato nello stesso stile moderno e accogliente, tutto in
ordine perfetto, senza alcuna traccia di occupazione, nemmeno quella che Guido indicò
come la propria. A Marina girava la testa, si chiedeva quale delle camere le
sarebbe stata assegnata per la notte.
Tornando al piano terreno
vide una porta bianca che si confondeva quasi con la parete, vicino alle scale.
"Che cos'è
quella?" chiese, desiderosa di non far capire che la visita l'aveva
stancata e non vedeva l'ora di stendersi sull'enorme divano di pelle bianca.
"Oh niente! Un
ripostiglio, non c'è niente di bello lì dentro".
Sola in salotto, senza più
nulla da ammirare, tirò un sospiro di sollievo. Guido era in cucina a fare il
caffè.
Mentre bevevano lei si
sorprese a guardargli le mani, che erano lunghe e magre, con dita leggere che
stringevano la tazza come un fiore delicato. Come avrebbero carezzato una donna
delle mani così? Si vergognò un poco di quel pensiero e cercò di pensare a
Davide quando la accarezzava, ma le vennero solo in mente le unghie sempre nere
per la sua mania di trafficare col motore della motocicletta. Si chiese dove
fosse in quel momento. Magari in birreria con gli amici, o sulla spiaggia con
una ragazza, più tardi in discoteca, certamente non perdeva tempo a pensare a
lei, era un ragazzo così estroverso, così… Si accorse che Guido la stava
guardando e arrossì.
"A che cosa
pensi?" le chiese.
"A te" rispose
Marina.
Gli si avvicinò sul divano,
appoggiandosi al suo braccio. Lui posò la tazza e l'abbracciò.
In quel momento,
vicinissimo, squillò il telefono. Guido tolse il braccio dalla sua spalla ed
estrasse di tasca il cellulare.
"Come?" disse.
"Che cosa? Va bene, arrivo".
La guardò con un'espressione
buffa, delusa e colpevole.
"Mi chiamano in
ospedale. Un mio paziente è peggiorato, devo andare".
Marina sospirò, ma era
contenta dell'interruzione.
"Ti aspetto" disse
a bassa voce.
"Vai a dormire, se
vuoi. Prendi la camera che preferisci".
Ma Marina ripeté:
"Ti aspetto".
"Tornerò il più presto
possibile. Ricordati di non uscire in giardino, i cani ti sbranerebbero
immediatamente".
Non c'era bisogno di
raccomandarlo. Quando lui aprì la porta nel buio scoppiò un abbaiare furioso
che smise solo a un secco comando.
Questo non l'ho ancora letto. Rimango in attesa del seguito e mi aspetto uno dei tuoi consueti, perfidi e orribili schierzi.
RispondiEliminaEhi Max! Non lo conosci ma non sarà una gran sorpresa perché l'idea che qui compare nuda e cruda, l'ho utilizzata in modo più elaborato nel racconto "Alla Rina", ALIA 5. Ma non dirlo a nessuno, mi raccomando ;-)
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