Il salotto della vecchia
casa sembrava veramente l’illustrazione di un libro per bambini: le tende tirate,
il camino acceso, le decorazioni natalizie tutte verde, rosso e oro, la tavola
preparata e i mucchi di regali distribuiti in giro, ognuno con il nome del
destinatario scritto su di un bigliettino; c’erano anche una nonna e dei
nipotini, che aspettavano impazienti il momento di aprire i pacchi. La nonna
veramente non aveva i capelli candidi, ma bruni e tagliati alla moda; i
nipotini erano tutti belli, biondi e con le guance lustre.
– Nonna, raccontaci una
storia, – disse il più grande dei bambini, che aveva un mucchio di riccioli e
si chiamava Luchino.
La nonna lo guardò
perplessa: non aveva mai raccontato storie ai nipoti, e per quel che ricordava,
nemmeno ai figli. Ma è difficile sottrarsi all’atmosfera natalizia, per cui
rispose:
– Va bene, vi racconterò una
storia, così almeno la smetterete di girare intorno ai regali; sapete benissimo
che non si possono aprire finché non arrivano i vostri genitori. Che storia
volete? Una che sapete già oppure una nuova?
– Una che sappiamo già, –
gridarono i più piccoli.
– Una nuova, – disse
Luchino.
– Allora ve ne racconterò una
nuova, fatta apposta per voi, – disse la nonna. – Sarà molto più divertente.
C’era una volta un papà che
lavorava in banca, e una mamma che lavorava in casa, faceva i dolci, le patatine
fritte, i letti, e i bambini. E di bambini ne aveva fatti tre: due femmine e un
maschio. Le femmine erano bionde, il maschio era bruno. Anche la mamma era
bionda, e il papà era bruno. Una mattina, all’ora di andare a scuola, la
bambina più grande, che si chiamava Mara, disse ai suoi fratellini:
“Io devo andare in
cartoleria a comperare un quaderno; ci vediamo a scuola”.
A scuola Mara non si vide
per tutta la mattina, e all’ora di andare a casa i due bambini più piccoli se
ne tornarono da soli. La mamma, quando vide che Mara era scomparsa, si
preoccupò molto; fece un mucchio di telefonate, uscì a cercarla, andò persino
alla polizia; ma i fratellini erano abbastanza contenti, perché Mara era una
spiona, le sue pagelle erano sempre molto più belle delle loro, e non si
sporcava mai.
Mara non ricomparve più.
Qualche giorno dopo, tornando da scuola, i due fratelli incontrarono una
bambina che le assomigliava moltissimo. Solo che Mara aveva la frangetta, i
capelli lisci, gli occhiali e la macchinetta per i denti; questa bambina invece
aveva i capelli sparati, i buchi alle orecchie con due piccoli orecchini di
brillanti, un giaccone imbottito rosa fragola tutto coperto di spillette di
band mai sentite.
“Sei Mara?” le chiesero i
bambini.
“Ma va’ là, scemi, io mi
chiamo Myra, con la ipsilon,” rispose lei, “non vedete come sono diversa da
Mara, che portava sempre la felpa di Hello Kitty e i fermagli in testa? Io ho
le scarpe da trecento euro, e poi voi il sabato pomeriggio andate sempre con il
vostro papà in centro a mangiare le paste in pasticceria, io invece vado al
bowling, o in discoteca con il mio ragazzo che ha il motorino”.
I due bambini rimasero con
la bocca spalancata per dieci minuti, poi se ne tornarono a casa mogi; ma alla
loro mamma non dissero niente.
Passarono degli altri
giorni. Una mattina mentre tornavano da scuola, il bambino, che si chiamava
Nicola, lasciò la mano della sua sorellina davanti a un semaforo verde e le
disse:
“Tu comincia ad
attraversare; io devo tornare indietro a cercare il berretto che mi è caduto”.
La bambina attraversò, e si
fermò dall’altra parte della strada ad aspettare il fratello. Passarono i
minuti, passò mezz’ora e Nicola non si vedeva. La bambina incominciò a
piangere. Un signore gentile si fermò e le chiese:
“Perché piangi, piccola?
Come ti chiami?”
“Mi chiamo Cecilia,” disse
lei, “e piango perché mio fratello è andato a cercare il suo berretto, mi ha
lasciata qui e non è più tornato. Io sono piccola, non so la strada per tornare
a casa, ci sono tanti semafori e non mi ricordo mai se si passa col rosso o col
verde”.
Il signore gentile chiamò un
vigile che accompagnò Cecilia a casa; per la seconda volta la mamma si agitò
moltissimo, fece un mucchio di telefonate e andò alla polizia, ma di Nicola non
si seppe più nulla. Cecilia era contentissima. Nicola le faceva sempre i
dispetti, la faceva piangere e qualche volta le tirava delle sberle; e siccome
lei era piccola, adesso la mamma la accompagnava tutti giorni a scuola e la
andava anche a prendere.
Una mattina, mentre, seduta
su una panchina dei giardinetti davanti alla scuola, aspettava la sua mamma che
era in ritardo, Cecilia vide un bambino che assomigliava moltissimo a Nicola.
Era un piccolo zingaro e il suo collo era così sporco che sembrava portasse una
sciarpetta nera.
“Ti chiami Nicola?” gli
chiese Cecilia.
“No di certo,” rispose lo
zingarello, “mi chiamo Mirko, con la cappa, non so leggere né scrivere, non
vado mai a scuola, rubo nei negozi e chiedo l’elemosina facendo finta di essere
un bambino scappato di casa. E se la tua mamma non arriva presto a prenderti,
ti rubo la cartella, ti strappo tutti i quaderni e poi vado a vendere i tuoi
libri di scuola come carta straccia”.
Cecilia scoppiò
immediatamente in lacrime; ma quando arrivò la mamma, non volle dire perché
piangeva.
E adesso, bambini, – disse
la nonna rivolgendosi ai nipotini che non avevano mai fiatato mentre lei
parlava e alcuni dei quali avevano i lucciconi, – come la facciamo continuare
questa storia? Facciamo scomparire anche Cecilia?
– No no, – gridò una
bambina, la più piccola e la più bionda, – io lo so un bel modo di fare finire
la storia. Cecilia, il suo papà e la sua mamma vanno a fare una gita. Partono
con la macchina e si portano i panini, e la coca-cola per Cecilia. Papà e mamma
si siedono davanti e lei dietro con le sue bambole. Vanno sull’autostrada e a
un certo punto c’è un tunnel. La macchina entra nel tunnel col papà, la mamma,
Cecilia, la coca-cola, i panini e le bambole, e non esce mai più dall’altra parte.
E così la storia è finita.
– Sì, mi piace, – disse la
nonna, – è un bel finale, ma ce n’è ancora un pezzo.
Intanto, il loro
appartamento era rimasto chiuso. Sui mobili lucidi si depositava la polvere,
sui pavimenti tirati a cera si formavano quei riccioletti contro cui la mamma
di Cecilia aveva sempre combattuto vittoriosamente. Nei lavandini l’acqua
sgocciolava formando delle macchie marroni che ammuffivano; e da sotto l’acquaio
in cucina uscivano lunghe file nere e silenziose di scarafaggi. Le tapparelle rimanevano
abbassate e dopo un po’ un gruppo di zingari che giravano nella zona si accorse
che quell’appartamento era disabitato, così decisero di svaligiarlo.
Forzarono la serratura con
un piede di porco, entrarono in due o tre e portarono via tutto quello che si
poteva trasportare: la televisione, lo stereo, il computer, il Nintendo dei
bambini, le catenine della prima comunione, la pelliccia della mamma e persino
la macchina foto subacquea e la radiosveglia di papà. Con gli zingari c’era
anche un bambino - e non vi dico che collo sporco aveva! - che aprì un armadio
nell’entrata, e prese una racchetta da tennis, un pallone e uno skate-board.
Nessuno vide i ladri
andarsene, e quando il portinaio si accorse della serratura scassinata, chiuse
la porta con un po’ di scotch e non si preoccupò granché, tanto i padroni di
casa non si erano più visti da molto tempo. Qualche giorno dopo, il ragazzino
zingaro, facendo un giro con lo skate-board sul marciapiede attorno all’isolato,
andò a sbattere contro una bambina con i capelli tutti ad aculei e gli orecchini
di brillanti. La bambina riuscì a non cadere per miracolo e spalancò la bocca
per piantare un urlo: ma quando vide in faccia il bambino, la richiuse in
fretta per reprimere un sorriso. Poi, con una strizzatina d’occhio, corse a
salutare un altro bambino che se ne stava seduto sul suo motorino fermo, poco
lontano.
E questa volta la storia è
finita per davvero.
Luchino, con gli occhi
celesti gonfi per le lacrime trattenute, stringeva le labbra cercando di
controllare il tremito del mento. Quando alla fine riuscì a parlare, protestò
con grande energia:
– No, no e no! La storia non
è finita per niente così! La macchina è entrata nel tunnel, e dentro era tutto
buio ma si vedeva una luce in fondo. La macchina andava molto forte e così è
uscita in fretta; la mamma si è girata per vedere se Cecilia stava bene, se non
si era spaventata troppo per il buio. E ha visto che Cecilia aveva aperto la
sua lattina di coca-cola, e stava bevendo; e vicino a lei c’erano seduti da una
parte Mara, e dall’altra Nicola. L’autostrada era finita e c’era un prato
bellissimo, hanno fatto merenda coi panini e poi sono tornati a casa; e non c’era
nemmeno uno scarafaggio.
In quel momento arrivarono i
genitori, e chiesero alla nonna:
– Sono stati buoni i
bambini?
– Degli angeli, – rispose
lei.
Finalmente si poterono
aprire i pacchi e guardare i regali, poi tutti si sedettero a cena e i bambini
fecero un gran casino e bevvero persino un po’ di spumante.
Quando fu l’ora di andare a
dormire, tutti i nipotini andarono a dare un bacio alla nonna e a ringraziarla
per la buona cena, i bei regali e la bella serata; ma Luchino voltò la faccia
dall’altra parte e non la volle baciare. E quando fu sulla porta di casa con il
cappotto addosso, pronto per uscire, si girò veloce e le tirò fuori la lingua.
Bel racconto. Penso che a tutti sia nato il desiderio di raccontare una storia perfida ai bambini. Comprensibilissima la spietata nonna ma ancora più comprensibile il piccolo Luchino. In fondo tutti vogliamo disperatamente sperare che il mondo sia migliore di come appare.
RispondiEliminaCi vorrebbe poco... ma io soprattutto voglio disperatamente che natale passi in fretta e senza troppi danni ;-) Smack e tanti auguri carissimi!
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