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mercoledì 4 luglio 2012

NEMICI


 I miei nemici non sono un esercito compatto, anonimo, non portano uniforme. Di ognuno so il colore degli occhi, le abitudini, i gesti e soprattutto l'odore. Li riconoscerei al buio. Dormono molto, anche di giorno. Stesi nei loro cartoni luridi giacciono come cadaveri. Respirano appena ma si capisce che sono vivi perché ogni tanto si grattano. Più raramente leggono, o bevono, o lanciano lamenti e invettive contro i passanti.
C'è chi della mia città ha un'immagine legata alla bellezza delle prospettive lungo il fiume, chi al profumo di cioccolata che emanano certi vecchi caffè, qualcuno persino dice che è elegante, o forse lo era, altri ne sottolineano grigiore e austerità. Io mi ci muovo seguendo la mappa dei miei nemici.
E li odio. Odio quelle facce mollicce e i capelli unti, quelle mani tese che puzzano, quelle bocche bavose e gli stracci che li avvolgono. Sono uno sfregio, offendono l'estetica, l'ordine e l'olfatto.
Non ho ancora scatenato l'offensiva. Mi limito a perlustrare notte dopo notte i portici deserti. Ne cerco l'usta. Fortunatamente i portici conservano gli odori, li fissano, così non devo faticare troppo. Li distinguo da lontano. Controllo che siano sempre lì. Li conto.
Sto elaborando una strategia. Ci devo pensare bene perché questa guerra non può che essere vinta definitivamente, senza feriti né prigionieri. Oggi ne ho visto uno nella galleria Subalpina, seduto sui gradini che portano al primo piano. Si era tolto le scarpe, con uno straccio bagnato nell'acqua putrida di una bottiglietta curava le piaghe del suo piede sinistro. Schifo e orrore, tra l'indifferenza della gente accaldata che correva a casa per cena. In piazza Carlo Alberto le rondini stridevano e volavano basse, eccitate, felici. Questo giugno afoso centuplica le puzze malgrado il profumo di tigli che satura l'aria. La mia città potrebbe ancora essere bella, sarà di nuovo bella quando la mia guerra sarà vinta. Quando avrò cancellato la vergogna.
Guerra è una parola che amo, una parola che ha ritrovato la sua forza, il suo significato eroico per chi è nel giusto e sa di esserlo, sa di avere dei valori positivi da proporre e imporre. Come me. Io ho nel cuore e nel pensiero una città splendente, dove non c'è posto per gli amanti della sporcizia. Quando i tempi saranno maturi tutti mi daranno ragione. E dopo verrà la riconoscenza: la città liberata sarà la mia vittoria.
Io so che cosa devo fare, perché odio i miei nemici.

La mattina presto percorro corso Cairoli in direzione del Valentino. La bellezza del lungo Po mi fa piangere. Acque verdi scorrono tra sponde verdi, profumi di rose e ligustri, la collina sfuma nella caligine, i platani stendono i rami maestosi. Ma loro si acquattano persino tra le siepi del viale. Lerci sacchi a pelo, cartacce, resti di cibo, bottiglie di birra e bottiglie di plastica, per non parlare della puzza di piscio, straziano l'ora perfetta. Dove sono i miei nemici quando passo di lì? Tutti fuggiti alla prima luce, per un residuo di pudore, per la coscienza di stonare in quell'armonia? Non basta la fuga per ammansire il mio odio. Sono invisibili, ma le tracce del loro passaggio rimangono. Non se la caveranno scappando.

Bene, la guerra può cominciare. È scoppiato un caldo fuori stagione. Certi odori non si possono più sopportare. Devo agire subito, per dare requie ai nasi della mia città.

La grande battaglia di stanotte ha avuto pieno successo. I nemici sono stati sorpresi nel sonno. Giusto e preciso il mio pugnale li ha colpiti a uno a uno, senza che uno schizzo di sangue mi sporcasse le mani. All'alba, dopo avere ripulito le belle sponde del Po, l'ho gettato in acqua dal ponte di corso Vittorio. Non ha fatto rumore e nemmeno ferito la corrente. Tornando a casa, nel breve momento di frescura, mi è venuta voglia di cantare, ma non sapevo che cosa. Non conosco canzoni. Ho gridato a bocca chiusa: l'ho fatto per te, sei libera.
Libera, preziosa e intangibile come un diamante. Tornerai a profumare di cioccolato e tigli. Di sudore operaio. Di operoso decoro. Riconosci il mio atto d'amore? Capisci che la guerra è pulizia, salute, salvezza?

La mia azione ha avuto una grande eco, i giornali l'hanno amplificata. Ma non esultano, anzi esprimono esecrazione e dissenso. Certo non tutti i problemi sono risolti, rimangono altri nemici a minacciare la serenità delle piazze e delle strade, ma questa lezione gli insegnerà qualcosa. Ora hanno paura. Capiranno che devono abbandonare i loro traffici immondi. Forse troveranno la forza di correggersi. In caso contrario la guerra riprenderà. Sono molti, lo so, i furtivi mercanti di morte e i clienti che scivolano nell'ombra, le donne in vendita e gli uomini che le cercano, con le mani sudate piene di banconote appiccicose. Ma il secondo pugnale è pronto e poi ce ne sarà un terzo e un quarto, tutti ben affilati, luccicanti e silenziosi. Queste caldissime notti di giugno sono piene di promesse. Io prometto che nessuno dei miei nemici avrà scampo.
La forza dell'odio che mi nutre, però, sta scemando. Come se ogni volta che il mio braccio ha colpito avessi sanguinato anch'io, perdendo vigore nell'emorragia. Non è stanchezza, non è pietà di certo, né paura, né sazietà. Un semplice calo di tensione. Normale, in fondo. Preparavo la guerra da tanto, l'ho vinta, e adesso sperimento la tregua. Non mi piace. È inutile e snervante.

Ho fatto un errore. Un piccolo errore, non irrimediabile, ma non me lo posso permettere. C'era questo omuncolo – un risibile scheletrico fantasma, di quelli che senza sosta camminano per la città proponendo le loro cianfrusaglie, fastidiosi, famelici, miserabili mendicanti travestiti da venditori –, e il caso ha voluto che fossimo soli sotto i portici di palazzo Carignano, nell'afa deserta dell'ora di cena. Non era un vero nemico, giusto una zanzara che mi ha punto nel momento sbagliato. Il pugnale è scattato da solo. Un colpo debole, era vivo a stento. È rimasto lì sul marciapiedi bollente. Il suo sangue annacquato ha cominciato subito a puzzare. In piazza Castello la folla assetata delle gelaterie e dei bar ha inghiottito la mia presenza. Però l'ammetto, è stato un errore.
Non deve più succedere. Il mio compito è troppo importante.

I tigli sono ormai sfioriti, l'estate precoce avvolge tutto in una coltre spessa di umidità. Nei giardini, la mattina presto, l'ora migliore per pensare e sentire, il verde delle magnolie, dei ginkgo, dei bagolari, degli ippocastani, dei faggi rinfresca e rallegra, rinforza l'animo, rasserena. In giro ci sono solo quelli che portano a spasso i cani. Anche loro un po' nemici per lo schifo degli escrementi abbandonati nei viali, ma insomma, ci sono cose che si possono sopportare.
L'obiettivo che ho in testa: la mia città com'era cinquant'anni fa. Naturalmente io non c'ero, ho appena vent'anni, ma ho visto tante foto delle piazze vuote, i tram a cavalli, le donne con l'ombrellino e i guanti, gli uomini con il cappello, niente traffico, nessun nemico in vista. Forse le foto non sono di cinquant'anni fa, forse sono molto più vecchie, di cento, duecento anni. Non so molto di storia. Però so che così com'è adesso non va.  
Ora passeggiare sotto i portici è piacevole. Più niente odori nauseanti e cartoni intrisi del luridume dei nemici. Gli altri, le donne e i mercanti, sono meno visibili. Il mio cuore vola per il sollievo.

Stamattina in piazza Castello ho visto uno spettacolo orribile. Su una panchina davanti a Palazzo Madama giaceva un laido vecchio con le gambe nude, circondato da sacchetti di plastica e bottiglie di birra. L'ho riconosciuto, è quello che si lavava le piaghe in galleria. Come ha fatto a sfuggirmi? Un vigile lo ha sollevato gentilmente per un braccio e l'ha condotto via sotto la sua protezione. L'unico nemico sopravvissuto. Non ho potuto seguirli perché si sono allontanati in macchina, ma lo scoverò nel suo rifugio.
Continua a fare caldo. Dormire è impossibile, e io non dormo mai, cammino tutta la notte. Ci vorrebbe un temporale che riempisse d'acqua le strade, spazzasse via l'immondizia, lo sporco che m'intralcia il passo. Certe volte la fatica mi fa crollare su una panchina e per poco mi lascio andare al dormiveglia. Se qualcuno mi vede in quei momenti, che cosa può pensare? Che sono uno dei nemici? Il primo di un nuovo esercito che si infiltra subdolo e testardo nella città liberata? O un disperato relitto della guerra vinta?

Dicono che la mia città sta male, non sa più chi è. Io ho la coscienza di avere fatto quanto potevo per aiutarla. Però adesso sono io a stare male. Mi accorgo che perdo lucidità, caldo e stanchezza mi indeboliscono. Non so se avrò la forza di portare fino in fondo la guerra. I miei concittadini sono ostili, i giornali esprimono sollievo per quella che io considero una tregua e loro la fine. Non riescono a capire.
Forse, se piovesse un po', gli si schiarirebbero le idee.

Pare che non facesse un caldo simile, a giugno, dal 1822. Mi immagino che allora la mia città fosse proprio come la sogno io, pulita e leggiadra, abitata da signore delicate che passeggiavano sottobraccio a garbati gentiluomini. La cosa più terribile è che l'esercito puzzolente delle larve senza nome sta riconquistando il centro. Tutti quelli che marcivano rintanati nelle orribili periferie corrono a accaparrarsi i posti che io, con il mio silenzioso pugnale, ho liberato. Non vogliono accettare la sconfitta. Russano a bocca spalancata sulle panchine, inalberano i loro miserabili cartelli davanti alle banche, costruiscono parodie di case sui gradini delle chiese. I vigili, invece di cacciarli, sorvegliano il loro sonno. Vorrei tenere gli occhi chiusi per non vederli. L'odore di miseria e di sporcizia è dovunque. Che cosa posso fare io, con due sole mani?

La guerra è perduta. Stanotte, stanati da un temporale, si sono affollati tutti sotto i portici. Via Roma è un dormitorio nauseabondo, via Po e piazza Vittorio sembrano un accampamento di morti. La gente storce il naso ma getta monete nelle scatole da scarpe. Io provo la vergogna della sconfitta. Se non sono spariti loro dovrò sparire io.

Da tre notti dormo sotto i grandi noci del Caucaso che segnano il limite estremo dei Murazzi. È bello sentire vicino il gorgoglio del Po, e in lontananza le voci piene di birra. Ogni tanto scoppiano i lampi, la pioggia flagella il fiume, ma qui sotto le fronde arrivano solo spruzzi e folate. Quelli che affollano i locali gridano e ridono, ci vuol altro per mandarli a casa. Sembra che per loro la città sia solo leggerezza, allegria, alcol. Non sentono la putredine che si impadronisce di tutto? La povertà che monta come un'onda di piena, la strisciante depressione dei cassintegrati? Lo scricchiolio delle fabbriche che crollano? La città che geme, torcendosi nel suo declino? La puzza più forte dell'odore del fiume?
Non sentono niente, non si accorgono di niente. Le ragazze con i sandali dorati, nelle loro sottovesti impalpabili, bevono guardando negli occhi i maschi trionfanti. Vedono solo quegli occhi pieni di offerte. Si offrono a vicenda. Nessuno si spinge fino alla mia tana. Non hanno bisogno dell'ombra degli alberi per stringersi. Hanno grandi automobili, grandi case con l'aria condizionata, grandi felici letti in cui amarsi dopo essersi scelti. Io li spio dal mio giaciglio di cartoni vecchi. Vorrei mescolarmi a loro. Vorrei colpirli tutti e ognuno con l'ultimo pugnale che mi è rimasto.
Invece. Quest'ultimo pugnale è per me. Lo guardo e lo pulisco fino a farlo brillare. Mi incido il braccio destro, per punirmi di non avere portato a termine il compito che mi sono dato. Il braccio sinistro, perché i miei nemici hanno riconquistato il territorio. La gola, perché non ho parole per esprimere la mia disperazione. Me lo pianto nel cuore, per il troppo amore che porto alla mia città, un amore inutile, perdente, maleodorante come gli stracci in cui mi nascondo.
E mi affido al fiume misericordioso. Mi porterà con sé, ma solo per pochi metri. Domani, alle rapide sotto il ponte di piazza Vittorio, qualcuno si accorgerà di me.
- Guarda, - diranno, - ancora una di quelle barbone che bevono e traballano e cadono nel Po e annegano come gattini. Tocca ai pompieri tirarla fuori

2 commenti:

  1. Ciao Conso, Davvero delizioso, il tuo racconto. Mi ha divertito il giovine ignorante che vuole riportare la città a un momento X del passato. La città delle foto dell'800, dove una gelida architettura è la sola compagna di pochi, smarriti passanti. Non credo sia il genere di racconto che affascina La Stampa o Torino 7 ma è profondamente, assolutamente torinese. Mi ha ricordato intensamente l'Uomo senza qualità di Musi, ma non chiedermi perchè. Complimenti, sei sempre una delle mie scrittrici preferite : )

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  2. Ciao Max! sei troppo gentile. Il tuo commento mi fa un gran piacere. Nemici è uscito nel 2003 su Leggendaria, un numero dedicato alle scrittrici torinesi. Non mi hanno mai più chiesto un'altra collaborazione. Però mi è sembrato ancora abbastanza attuale e adatto al momento contingente.

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