Felicissima friandise, invece, la serie di Mary Poppins di P. L. Travers. Niente a che vedere con la sdolcinata interpretazione disneyana, Mary Poppins è severissima, autoritaria e piena di difetti, primo dei quali una vanità senza limiti. Altro che i sorrisi di Julie Andrews. Giovanna e Michele, con i loro fratellini minori Giovannino, Barbara e Annabella, sono stati i miei amici per molti anni. Mi affascinava quella vita così diversa dalla mia, fatta di spedizioni per comprare il panpepato (mai saputo che cosa sia), pioggia e soprascarpe, zucchero d’orzo e “mettiti il cappello”, cene nella stanza dei bambini e “se sento una sola parola…”. Una vita di regole rigidissime e infrazioni continue attraverso le magie di Mary Poppins, che lei ogni volta negava in nome di una sua indiscutibile dignità. Le mie storie preferite erano “Venerdì disgraziato”, in cui Michele in crisi di capricci e perfidia spacca un piatto di porcellana su cui è dipinto un paesaggio con figure, poi ci finisce dentro e verifica i guai che ha combinato in quel mondo, “Compere di Natale” dove i bambini incontravano Merope, una delle Pleiadi scesa in terra a cercare i regali di Natale alle sue sorelline, “Il parco nel parco” dove i personaggi di plastilina fatti dai bambini prendevano vita in mezzo all’erba. Quanto volte ho scostato fili d’erba nella speranza di scoprire che vi si agitavano piccole repliche di esseri umani! Per non parlare poi dei personaggi di contorno, Robertson Ay la cui unica incombenza nella vita era lucidare stivali, l’ammiraglio Boom, il poliziotto innamorato della cameriera Ellen sempre raffreddata, un mondo intero insieme rassicurante e sempre pronto a squarciarsi per lasciare entrare Nelly Rubina, la signora Corry dalle dita di zucchero d’orzo e le sue grosse lacrimose figlie, il vento dell’est e quello dell’ovest, gli aquiloni e i pettirossi. Basta dimenticare il film e tuffarsi nelle pagine dei volumi originali per perdersi in un incanto pieno di fantasia e spigoli stimolanti. Ebbi però una grave delusione quando, in quarta o quinta elementare, nell’ora dedicata alla lettura a voce alta, proposi alle mie compagne di classe le vicende della famiglia Banks: troppo irreale, nessuna situazione strappalacrime, ottenni un pollice verso unanime.
Non che disprezzassi le storie patetiche, anzi. Senza famiglia di Hector Malot l’ho molto amato, nel mio baule di ricordi indelebili stanno le frittelle di Mamma Barberin, la povera scimmia Capitano squassata dalla tosse, il signor Vitalis che muore di stenti, la canzone napoletana Fenesta vascia e patrona crudele che fa incontrare Remigio e suo fratello sullo yacht Cigno che avanzava regale nei canali della campagna francese, tra chiuse e argini, trainato da cavalli… E la protagonista di In famiglia, dello stesso autore, mi ha insegnato molto sui meccanismi dell’ascesa sociale: sola, miserrima, raminga, riesce a farsi assumere in una fabbrica, trova rifugio in una capanna abbandonata vicino a un ruscello e investe il primo guadagno in un pezzo di sapone, uno specchietto, un pettine e una pezza di cotone bianco con cui si cuce delle camicie. Così, presentandosi al lavoro pulita e ordinata, inizia una carriera che alla fine la porterà a conquistarsi tutto ciò che le mancava. Magari mi rimanessero in mente con la stessa lucidità i tanti libri che leggo ora, e riuscissi a trarne gli insegnamenti che la mia ignoranza di bambina sapeva raccogliere.
Avere letto tanti romanzi ottocenteschi, fin dall’infanzia, mi ha reso molto sensibile alle dinamiche sociali, alla concreta realtà del lavoro, a pormi sempre la domanda “ma come mangia questo personaggio? come paga l’affitto, i vestiti?” e sicuramente ha influenzato anche il modo in cui costruisco le storie che scrivo. Mi infastidiscono quei libri, non importa se realistici o fantastici, che si svolgono in una borghesia diffusa, sganciata dalle necessità economiche, dove tutti sono liberi di coltivare i propri squisiti tormenti come se i soldi piovessero dal cielo. E anche nella mia vita sono sempre incuriosita dalla provenienza sociale, dalle origini delle persone che incontro.
Non perderò tempo a parlare di quei romanzi “per bambini” che ancora negli anni cinquanta-sessanta facevano parte delle letture obbligate, ma non imposte, che anch’io ho fatto. Mi sono appassionata a I ragazzi della via Pal, Il piccolo lord, Il giardino segreto, Il lampionaio, ovviamente e senza riserve a Piccole donne, un po’ meno a Piccole donne crescono, I ragazzi di Jo, Otto cugini, Rosa in fiore. Di Piccole donne ricordo praticamente tutto, dal primo capitolo con il Natale senza altro dono che il Pilgrim’s progress e la recita casalinga alla morte di Beth e al ritorno del colonnello March dalla guerra. Non mi sono mai fatta una ragione che Jo, con le sue mele mangiate in soffitta e i suoi libri, i capelli tagliati per mandare i soldi al padre, il vestito di tartan (stupenda parola incomprensibile) bruciato sulla schiena, i guanti usati, i pomeriggi passati a leggere all’antipatica cugina ricca che la chiamava Josephine, il coraggio, la capacità di saltare gli steccati, rifiuti l’amore di Laurie. E che se lo sposi quella gatta morta di Amy. Un colpo basso che Louise May Alcott avrebbe potuto risparmiarci, a me e a milioni di altre lettrici. Per farle sposare un vecchio tedesco triste e noioso, poi. Non glielo perdonerò mai e poi mai.
Lessi anche Davide Copperfield in un’edizione illustrata ma completa, assolutamente entusiasta ma scervellandomi su molti particolari incomprensibili. Agghiacciata dalla scena in cui, dopo che la madre, infelicissima per il matrimonio con l’orrido Murdstone, muore insieme al bambino appena nato, Davide viene portato nella stanza dove i due cadaveri giacciono sotto un lenzuolo. Affascinata dalla zia Trottwood furiosa con gli asini che le mangiano i fiori del giardino, schifata da Huria Heep e dalla sua viscida madre, commossa per la triste sorte di Dora Spenlow e il suo panierino di chiavi. Incapace di penetrare i motivi che rendono impossibile il matrimonio tra la bella Emilie e l’eroico Ham Peggotty, dalle mani che sporgono dalle maniche troppo corte. Mah, i misteri della vita sono così tanti e affascinanti che averne incontrato un bel numero in queste pagine meravigliose mi ha sicuramente resa, se non più sveglia, almeno più sensibile e attenta agli altri. Un antidoto efficacissimo contro l’egocentrismo e la contemplazione del proprio ombelico. Come si possa considerare Dickens un autore per bambini non lo capirò mai. Da grande ho letto tutti i suoi romanzi e l’ho elevato nell’empireo dei miei autori guida. Ne parlerò a suo tempo.
....poi mi domando: ma chissà perchè amo tanto leggere ?!? Sarà forse anche merito tuo ? Leggere le tue riflessioni fa venire voglia di leggere tutto .... so già che mio figlio adora i libri e spero che anche la bambina si metta sulla stessa strada .... Piccole donne lo ha iniziato ... sarà un buon segno?
RispondiEliminaun abbraccio. Nadia
Nadia, grazie! Non potevi dirmi niente di più gratificante. Io comunque penso che non importa (tanto) quello che si legge, quanto avere la capacità di farlo, di lasciarsi andare alle avventure della mente, di uscire un po' dalla propria vita per seguire sentieri dove i nostri piedi, da soli, non ci porterebbero mai. Ti abbraccio anch'io e auguro a te e ai tuoi bambini molte ore liete con un libro in mano (e anche, ovviamente, passate a ballare, nuotare, fare l'amore, mangiare un gelato, guardare le nuvole ecc ecc ecc...)
RispondiEliminasi ma la protagonista di Venerdì disgraziato era Giovanna, non Michele: imperdonabile! ^^
RispondiEliminaMannaggia hai ragione!!! Quello di Michele era un martedì e ci ha fatto il giro della Rosa dei Venti. Come ho potuto commettere un errore così madornale? Non mi resta che fare harakiri.
RispondiEliminaMa tu chi sei, spulciatore di giorni disgraziati? ;-)
E grazie per aver rimesso in carreggiata i miei ricordi fuori controllo.