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mercoledì 25 agosto 2010

Halldor Laxness, Gente indipendente

Trebisonda, 19/7/2010

Pubblicato in Islanda in due parti nel 1934-35, quando l'autore aveva trentadue anni e era ancora ben lontano dal Nobel attribuitogli nel 1955, questo romanzo, che definire straordinario è poco, racconta la vita testarda e la titanica sconfitta di Bjartur di Somarhus, allevatore di pecore che per la sua aspirazione all'indipendenza è disposto a qualsiasi sacrificio, anche e soprattutto a quello delle persone che gli vivono intorno. Dopo diciotto anni a servizio in una fattoria ricca, riesce a acquistare un podere per il quale si carica di debiti, si sposa e inizia la sua vita di contadino padrone della sua terra, di fatto schiavo di un lavoro disumano che non prevede sosta né gratificazioni, nel nord di un paese (siamo tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento) che non può trovare nell'agricoltura la sua vocazione. Non faccio nessun riassunto delle vicende, leggetelo e non vi pentirete. Mi limito a fare qualche osservazione sul protagonista.

Bjartur è un personaggio "larger than life", magnificamente raccontato senza una parola di descrizione. E' quello che è e tanto basta. Un'unica idea lo domina, quella di essere indipendente, non dovere niente a nessuno. I debiti li affronta ma non sopporta di dovere dire grazie a chicchessia. Un regalo per lui è un affronto, come si capisce da alcuni episodi tra cui quello della "massaia" Dunya mi ha straziato il cuore, perché la delusione di chi si fa delle aspettative sul piacere che recherà un suo dono che poi viene rifiutato, è qualcosa che mi è insopportabile. Affronta qualsiasi rinuncia, privazione, sacrifici, perché per lui non sono tali, quello che conta è la strada che segue la via dell'indipendenza. Ciò che è perduto non lo rimpiange, e questo è ripetuto più volte nel corso del romanzo, e rappresenta la notazione più sconvolgente per il lettore. Sono parecchi i personaggi che via via spariscono, a volte in modo terribile, lasciando un vuoto che provoca un mare di interrogativi in chi legge e neanche un battito di ciglia in Bjartur. Almeno fino all'ultima sparizione, che apre una breccia nella sua corazza e lo salverà, in un certo senso, alla fine.

E l'altro aspetto sconvolgente per il lettore è la tremenda fatica, l'asprezza della vita, le condizioni spaventose di ignoranza, promiscuità, insalubrità, lavoro massacrante, in cui si svolge l'esistenza degli allevatori di pecore del nord dell'Islanda. Bambini e adulti che lavorano diciotto ore al giorno, mangiando pappa d'avena e scarti di merluzzo salato, bevendo caffè, dormendo in sette o otto nella stessa stanza in cui cucinano, con delle condizioni climatiche altrettanto estreme. E la conclusione è solo una: i poveri sono condannati, per loro non c'è riscatto da miseria e tisi, l'indipendenza è una chimera, politici e commercianti gli unici che riescono a guadagnare sempre nella vita. Pochi i sogni che possono andare a buon fine, forse solo la fuga, l'America là in fondo, terra favolosa in cui le pecore si trovano da sole l'erba da brucare.

L'amore non esiste, l'affetto chi lo sa, l'ambiguità del rapporto tra Biartur e Asta Solillja una delle cose più belle che ho letto. Ma non è un romanzo deprimente, è un epico inno alla capacità umana di seguire i propri ideali sbagliando e risbagliando senza accettare la sconfitta. La natura eccessiva e arcigna domina su tutto ma l'uomo non si lascia schiacciare, la usa e la contrasta sperando sempre di piegarla ai propri voleri. E sul fondo c'è il mondo che cambia, la prima guerra mondiale, le discussioni su Dio e sull'anima, le banche, le cooperative, le donne e il loro destino spietato. Un romanzo che mi fa venire in mente solo un termine: magnifico. Non se ne esce facilmente una volta finito, e Bjartur è indimenticabile.

Si capisce bene che il pubblico islandese sia stato sconvolto da Gente indipendente che metteva a nudo miserie e arretratezze del paese, come si spiega in modo interessante e esauriente nella postfazione di Silvia Cosimini, autrice anche della splendida traduzione. Leggete anche Il concerto dei pesci, ne vale davvero la pena.

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