Pagine

Pagine

venerdì 27 agosto 2010

Mehmet Murat Somer, Scandaloso omicidio a Istanbul

Ho visto oggi sul Venerdì di Repubblica che è uscito da Bompiani un altro libro di questo autore di cui per caso ho finito di leggere Scandaloso omicidio a Istanbul (Sellerio 2009) proprio ieri. Non pensavo di parlarne ma l'occasione me ne ha fatto venire voglia. Premetto che avendo fatto un lungo viaggio in Turchia ho letto parecchi libri di autori turchi, tra cui - ahimé - uno del mio amatissimo Pamuk, Il libro nero, che mi ha stravolta di noia malgrado ci siano cose bellissime (se trovo il coraggio ne parlo) e bloccata per un bel po' perché andavo avanti a mezza pagina per volta; e La figlia di Istanbul di Halide Edip Hadivar, un superclassico del 1935 appena tradotto da Elliott che mi ha riconciliata con il mondo, e poi il giallo di Somer come coda al ritorno. A differenza dell'inqualificabile Hotel Bosforo, si tratta di un giallo divertente e notevolmente sofisticato in cui Istanbul è una presenza reale, fuori dai cliché turistico-folkloristici ma convincente. Il/la protagonista, personaggio che potrebbe essere molto rischioso, risulta invece simpatico e plausibile: non ha nome, parla di sé al femminile ma di giorno lavora come informatico abilissimo e un po' hacker (caratteristica ormai inevitabile per ogni personaggio poliziesco, Sherlock Holmes ai giorni nostri invece che chimico eccellente sarebbe hacker) in panni maschili, la sera si veste da donna, preferibilmente seguendo il modello Audrey Hepburn, e si reca al night-club di cui è comproprietaria, dove non disdegna di fare la sua parte di marchette. Spasima per ogni maschio ben messo e attraente, il suo idolo è John Pruitt: ho controllato, un modello palestrato e lucido. Si offende se la chiamano finocchio ma pretende rispetto e attenzioni come donna, e nel caso è in grado di mettere ko i più muscolosi usando arti marziali e semplici botte. E' coraggiosa, vagamente ironica, paziente con le altre "ragazze" che le contano i loro guai e la tirano in mezzo, forse un filino "diversa" ma senza snobberie, e coinvolta fino in fondo. Quando una delle ragazze, che le ha chiesto aiuto, viene uccisa, parte in quarta alla ricerca della verità in modo forse imprudente e avventato ma certo non timido. La soluzione del delitto, in cui compaiono mafia dei ricatti e un politico iperconservatore, è complessa e io forse non ho capito proprio fino in fondo ma in realtà è così che deve andare. La realtà è complessa, il mondo pieno di doppi fondi e inganni, non si può pretendere che giustizia sia sempre fatta. Tutta la vicenda si svolge poi tra interni piccolo borghesi (descritti in modo molto divertente e acuto), night club, molti taxi, la città notturna e il confortevole appartamento della protagonista, in modo del tutto naturale. E i personaggi di contorno sono tratteggiati alla svelta ma a fondo, il mondo dei travestiti è nitido e privo di qualsiasi sfumatura di giudizio, e privi di pregiudizi appaiono anche gli abitanti di Istanbul, la cui parte maschile gradisce molto schiettamente la compagnia delle "ragazze". Insomma sono contenta che sia stata tradotta un'altra avventura della serie, e la leggerò.

mercoledì 25 agosto 2010

Esmahan Aykol, Hotel Bosforo

Trebisonda 21/7/2010
Mi dispiace davvero per Sellerio che è un mio mito insuperato, ma questo Hotel Bosforo è uno dei
libri più brutti che abbia mai letto. E soprattutto più inutili. Una trama insulsa e del tutto pretestuosa, un giallo di cui non frega niente a nessuno, men che meno all'autrice che per tre quarti del libro pensa a altro e poi alla fine telefona la soluzione giusto per scaricarsi la coscienza. E il motivo che non rivelo è quello più sfruttato nella maggior parte dei libri degli ultimi dieci-quindici anni. Il resto è una serie di cliché dei più banali, scritti nella prosa di una ragazzina di prima media poco dotata ma convinta di essere spiritosa. Si direbbe tradotto dal tedesco perché la prima edizione è di una casa editrice tedesca, ma non è chiaro leggendo, in certi punti si direbbe tradotto dal turco. Sembra un repertorio di luoghi comuni sui turchi a uso dei tedeschi, e viceversa. Tipo: i turchi fumano come turchi. Ma va'? E' come se Aykol volesse gratificare gli uni e gli altri presentandoli a volte con gli occhi di un popolo, ora dell'altro. Il risultato è che come terzi ci si sente un po' esclusi.

Si svolge in una Istanbul tutta localini furbi e gran bevute, naturalmente lontanissima dal turismo ma non per questo meno stereotipata e finta. L'insopportabile protagonista, tedesco-turco-ebrea libraia specializzata in gialli, il che per qualche ragione che non ho afferrato la qualificherebbe a risolvere delitti, incontra una vecchia amica tedesca che resta invischiata in un assassinio. Primo, non si capisce perché la tedesca ha cercato la libraia di cui aveva perso le tracce da secoli. Due, la libraia fa un paio di telefonate da scocciatrice e questo è tutto lo sviluppo della trama. In compenso tutti se la vogliono scopare, e lei non sembrerebbe maldisposta, non disdegna poliziotti né delinquenti ma alla fine la vita la premia. L'unica idea che ha in testa è andare dall'estetista, avere le unghie in ordine e mettersi elegante. Ah no, dimenticavo, anche schiaffare la madre in un ospizio alle Baleari. L'autrice è talmente cretina che crede di dare pennellate di realtà nominando un paio di volte la "crisi di febbraio" (?).

Insomma, mi chiedo perché questo libro è stato tradotto: sperando di cavalcare l'onda dei gialli esotici? Ma questo non è né giallo né esotico, solo un'emerita cazzata che fa venire i nervi per il tempo sprecato a leggerlo. E per Sellerio, che sa fare di molto meglio.
Traduzione, non si sa da che cosa, di Emanuela Cervini.

Halldor Laxness, Gente indipendente

Trebisonda, 19/7/2010

Pubblicato in Islanda in due parti nel 1934-35, quando l'autore aveva trentadue anni e era ancora ben lontano dal Nobel attribuitogli nel 1955, questo romanzo, che definire straordinario è poco, racconta la vita testarda e la titanica sconfitta di Bjartur di Somarhus, allevatore di pecore che per la sua aspirazione all'indipendenza è disposto a qualsiasi sacrificio, anche e soprattutto a quello delle persone che gli vivono intorno. Dopo diciotto anni a servizio in una fattoria ricca, riesce a acquistare un podere per il quale si carica di debiti, si sposa e inizia la sua vita di contadino padrone della sua terra, di fatto schiavo di un lavoro disumano che non prevede sosta né gratificazioni, nel nord di un paese (siamo tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento) che non può trovare nell'agricoltura la sua vocazione. Non faccio nessun riassunto delle vicende, leggetelo e non vi pentirete. Mi limito a fare qualche osservazione sul protagonista.

Bjartur è un personaggio "larger than life", magnificamente raccontato senza una parola di descrizione. E' quello che è e tanto basta. Un'unica idea lo domina, quella di essere indipendente, non dovere niente a nessuno. I debiti li affronta ma non sopporta di dovere dire grazie a chicchessia. Un regalo per lui è un affronto, come si capisce da alcuni episodi tra cui quello della "massaia" Dunya mi ha straziato il cuore, perché la delusione di chi si fa delle aspettative sul piacere che recherà un suo dono che poi viene rifiutato, è qualcosa che mi è insopportabile. Affronta qualsiasi rinuncia, privazione, sacrifici, perché per lui non sono tali, quello che conta è la strada che segue la via dell'indipendenza. Ciò che è perduto non lo rimpiange, e questo è ripetuto più volte nel corso del romanzo, e rappresenta la notazione più sconvolgente per il lettore. Sono parecchi i personaggi che via via spariscono, a volte in modo terribile, lasciando un vuoto che provoca un mare di interrogativi in chi legge e neanche un battito di ciglia in Bjartur. Almeno fino all'ultima sparizione, che apre una breccia nella sua corazza e lo salverà, in un certo senso, alla fine.

E l'altro aspetto sconvolgente per il lettore è la tremenda fatica, l'asprezza della vita, le condizioni spaventose di ignoranza, promiscuità, insalubrità, lavoro massacrante, in cui si svolge l'esistenza degli allevatori di pecore del nord dell'Islanda. Bambini e adulti che lavorano diciotto ore al giorno, mangiando pappa d'avena e scarti di merluzzo salato, bevendo caffè, dormendo in sette o otto nella stessa stanza in cui cucinano, con delle condizioni climatiche altrettanto estreme. E la conclusione è solo una: i poveri sono condannati, per loro non c'è riscatto da miseria e tisi, l'indipendenza è una chimera, politici e commercianti gli unici che riescono a guadagnare sempre nella vita. Pochi i sogni che possono andare a buon fine, forse solo la fuga, l'America là in fondo, terra favolosa in cui le pecore si trovano da sole l'erba da brucare.

L'amore non esiste, l'affetto chi lo sa, l'ambiguità del rapporto tra Biartur e Asta Solillja una delle cose più belle che ho letto. Ma non è un romanzo deprimente, è un epico inno alla capacità umana di seguire i propri ideali sbagliando e risbagliando senza accettare la sconfitta. La natura eccessiva e arcigna domina su tutto ma l'uomo non si lascia schiacciare, la usa e la contrasta sperando sempre di piegarla ai propri voleri. E sul fondo c'è il mondo che cambia, la prima guerra mondiale, le discussioni su Dio e sull'anima, le banche, le cooperative, le donne e il loro destino spietato. Un romanzo che mi fa venire in mente solo un termine: magnifico. Non se ne esce facilmente una volta finito, e Bjartur è indimenticabile.

Si capisce bene che il pubblico islandese sia stato sconvolto da Gente indipendente che metteva a nudo miserie e arretratezze del paese, come si spiega in modo interessante e esauriente nella postfazione di Silvia Cosimini, autrice anche della splendida traduzione. Leggete anche Il concerto dei pesci, ne vale davvero la pena.