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domenica 3 maggio 2009

Maggi, Pasquali, Ramos


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JULIE MAGGI, ELISABETTA PASQUALI, FRANCESCA RAMOS
Tre autrici esordienti che in realtà hanno alle spalle una lunga frequentazione con l’espressione artistica, in diverse forme: musica e disegno ma anche scrittura giornalistica, blog, racconti. I loro romanzi sono molto diversi tra di loro ma nello stesso tempo ci sono rimandi, punti di contatto, che mi hanno fatto molto pensare. Prima cosa è la centralità in tutti e tre dell’amore vissuto come dramma, anzi in due casi come tragedia vera e propria. Le protagoniste di questi romanzi , che parlano tutte e tre in prima persona, sono personaggi tormentati, inquieti, segnati, e le loro “antagoniste”, le donne che amano, lo sono altrettanto se non di più. Eppure sono tutti e tre romanzi fortemente intrisi di vita, che viene guardata con occhi mai delusi, mai scoraggiati. Anche dove non c’è il lieto fine si sente che la vita continuerà malgrado tutto. Altrettanto centrali in Pasquali e Ramos sono la famiglia, e la malattia. C’è molto alcol, molto sangue e morte soprattutto. Poco sesso, tranne in Una come me. L’omosessualità è scontata, non si presenta come problema in Elenoir, sparisce nella difficoltà di amare e è accettata da tutti in Il gusto del picchio; è un condizione assoluta ma fonte di conflitti (la seconda malattia) in Una come me.
Julie Maggi è nata nel 1983 a Manduria, vive a Roma, è pittrice, fumettista, illustratrice, colorista, impaginatrice e grafica. Ha tre siti, juliemaggi.blogspot.com, iraccontidipoe.blogspot.com e jelenoir.blogspot.com.
Elisabetta Pasquali, laureata in Lettere Moderne e Storia Medievale, vive a Bologna dove insegna alle scuole superiori. È giornalista pubblicista, ha lavorato come segretaria di produzione e autrice di testi per varie televisioni.
Francesca Ramos è nata a Milano nel 1961, ha viaggiato per alcuni anni suonando in un gruppo.
JULIE MAGGI, ELENOIR, Foschi editore
Elenoir è una ragazza di ventidue anni che si tormenta perché ha perso il suo amore, Valentine. Cerca di capire, cerca spiegazioni, e la sua ricerca attraversa vari luoghi e incontri in una collana di capitoli abbastanza autonomi tra di loro, e ognuno dedicato a un personaggio, in una città senza nome e in una contemporaneità priva di precise indicazioni. E’ in un certo senso una discesa all’inferno, ma anche un percorso di salvezza durante il quale si svelano segreti. E’ anche un racconto fortemente onirico, spesso surreale, e malgrado la tragicità dell’argomento ci sono anche momenti ironici, divertenti, e argomenti pesanti trattati con molta leggerezza. Ambientato a nostri giorni in una città senza nome, non fa riferimenti riconoscibilii né ai tempi né ai luoghi.
E’ un romanzo illustrato, e le illustrazioni dell’autrice sono importanti non solo per il loro valore intrinseco ma anche perché sottolineano momenti o personaggi particolarmente significativi. Unisce due espressioni artistiche, la parola e il disegno, in modo nuovo perché la scrittrice e l’illustratrice coincidono.
Un aspetto che ho molto apprezzato è l’importanza attribuita agli amici. All’inizio Elenoir dice i genitori sono le uniche persone che ti amano davvero, ma poi si scopre che la sua vita è piena di amicizie vere, persone importanti che non l’abbandonano nel momento del bisogno: Lov, Ska, Karina. In compenso c’è un cattivo, un personaggio abbastanza enigmatico, Blake, determinante per lo sviluppo della storia. C’è molto sangue in questo romanzo. Morte. Ma anche un finale aperto alla speranza, non un lieto fine tradizionale, anzi, questo è un romanzo parecchio noir, ma un’apertura, una luce in fondo alla galleria. Elenoir parte, e la partenza è un inizio. Elenoir è un personaggio smarrito ma anche molto coraggioso. In un certo senso un’Alice nel paese delle difficoltà della vita, forse ingenua ma determinata.
Ci sono molte notazioni precise, un occhio attento. I vestiti di Elenoir che si fa guidare dall’umore del momento quando si veste. L’episodio della discoteca e dello sballo, dove Elenoir cade nella trappola di uno sconosciuto senza rendersene conto, per distrazione più che per ingenuità.
E il fantastico capitolo intitolato Jesus, dove Julie Maggi riesce nel miracolo di equilibrare i toni in modo da non cadere né nel melenso né nello sberleffo, e il personaggio di Jesus diventa più che umano senza perderci in dignità, anzi. Non c’è molto sesso, poca sensualità, ma tanta disperazione e leggerezza.
ELISABETTA PASQUALI, IL GUSTO DEL PICCHIO, Robin Edizioni
Romanzo molto particolare, in cui la cosa che per prima mi ha colpito è l’importanza che vi assume la famiglia. È ambientato ai giorni nostri a Bologna, ma senza storicizzazione, ciò che conta è la vicenda personale della protagonista, Elena de Pisis, psicoterapeuta giovane ma già autorevole per studi e background. Tutta la vicenda ruota intorno al suo incontro folgorante con Clara, una paziente mandatale dal suo supervisore, maestro e guru, il dottor Hermann. Elena si ammanta di freddezza chirurgica, derivatale forse per imitazione dal padre neurochirurgo. È (o vuole essere) dura, manca di empatia apparente con i pazienti anche se poi in momenti chiave dimostra di essere capace di coinvolgimento. Professionale, stimata, ma nell’insieme quello che le manca è la fiducia in se stessa. La sua vicenda umana si risolve nelle ultime 35 righe di cui taccio, anche se tracce sono sparse qua e là nel testo. La sua amata poi amante, Clara, è una donna profondamente ferita, dal vissuto pesantissimo e insieme molto fragile, dipendente da una madre davvero spaventosa e dalla mancanza d’amore da parte del padre, assente e traditore, e del compagno molto simile. Il rapporto tra Elena e Clara è controverso e segnato dalla malattia di Clara e dal desiderio di Elena di salvarla, di liberarla, anche se forse in fondo vuole sottrarla alla famiglia non per renderla libera ma per legarla a sé.
Elena ripete continuamente “sono una terapeuta” come se non ci credesse fino in fondo. Malgrado Clara le tolga le luci del palcoscenico con le sue plateali manifestazioni di disagio, questo personaggio è il più problematico, il più tormentato. L’autrice parla più volte di “famiglia importante” a proposito di Elena e di Clara, nel senso di “padri che hanno un posto importante nella società cittadina”, come se questo aspetto contasse molto. In realtà appare più che altro come una metafora per “famiglia pesante, famiglia da cui non ci si emancipa”. In senso totalmente negativo per Clara, positivo per Elena che ha un rapporto molto bello con il padre, meno con la madre che però si riscatta alla fine. Nel romanzo ci sono molti padri. Elena ne ha uno biologico, saggio anche se malato e a poco a poco privato anche della parola, una coscienza serena. Uno d’elezione, Hermann il guru che la consiglia e aiuta in tutto, la sostiene nei momenti di sfiducia, e anche la nutre e la cura con le sue frizioni al cuoio capelluto. Infine c’è Gildo, forse meno importante ma caldo legame con l’infanzia, anche lui prodigo di cure, affetto, cibo. Sono rapporti affettivi ma anche carnali, l’affetto passa attaverso le parole e anche attraverso il contatto fisico e il cibo. Inoltre tutti e tre la incoraggiano nel suo rapporto con Clara, la accolgono e approvano. Solo la madre ha dei dubbi vedendo che non c’è più distinzione tra la sua vita professionale e quella privata. Il personaggio di cui sappiamo meno è Clara. Anche se la cura psicanalitica è rivolta a lei, rimane ambigua fino alla fine, non riusciamo a penetrare davvero le ragioni del suo andirivieni tra Elena, Filippo e la madre.
Alla fine sembra che Elena rimanga sola con sua madre. Dice: continuo a camminare avvinghiata a mia madre. Una sorta di lieto fine se il rapporto con la madre è così importante, malgrado la vita di Elena appaia molto buia e disperata.
Il romanzo è pieno di metafore, frequentissime, e alcune più importanti, il picchio e il tronco, il tarlo, la cartomante, compaiono più volte. Il sesso, la sensualità sono quasi inesistenti. La carnalità tra Elena e Clara si esprime soprattutto attraverso le mani intrecciate.
FRANCESCA RAMOS, UNA COME ME, La Tartaruga
Questo è l’unico dei tre romanzi che ha una contestualizzazione storica precisa, siamo nei primi anni Ottanta e gli ambienti rispettano questa collocazione, anche i frequenti flash-back sono attenti alla storicizzazione. La struttura è abbastanza complessa, il romanzo comincia quando la vicenda è già conclusa – Lucida, la protagonista, si trova sola a Barcellona dopo la fine del suo amore con Julia Baumann, detta JB, con cui ha trascorso alcuni mesi a Formentera nel paesino di La Mola, sereno rifugio degli ultimi hippy. Nelle ore febbrili che la separano dalla partenza per l’Italia, Lucida ripercorre la sua vita intrecciandola ai ricordi dell’amore con Julia. Ha 22 anni come Elenoir, alle spalle un’infanzia segnata dalla malattia, ha un polmone solo, che l’ha costretta a lunghi periodi lontano da casa e cure continue, e dal dolore della morte prematura del padre, di cancro, quando lei aveva undici anni. Un bagaglio pesante. Ha un fratello poco amato e una madre con cui ha un rapporto conflittuale da quando ha scoperto la sua omosessualità e l’ha colpevolizzata, umiliata e rifiutata. Lucida è un personaggio complesso, sfaccettato, molto interessante, mescolato com’è di debolezza (la malattia, il conflitto con la madre) e rabbia, desiderio di affermazione, che la fa essere protagonista nel rapporto con Julia malgrado lei sia così sfuggente, sbagliata, fonte di dolore. Dice Lucida che l’omosessualità è la sua seconda malattia. Una malattia dapprima amata, considerata il suo giardino segreto, finché non si rende conto che non è accettata in famiglia. Addirittura ne rifiuta il nome. Una terza malattia è quella del padre, che rivela la sua fragilità in una scena clou che è quasi una scena primaria, tanto che Lucida può chiedersi se è perché ha visto troppe volte suo padre a letto che non vuole un uomo nel suo.
La storia d’amore tra Lucida e Julia è molto forte, ma fin dall’inizio abbiamo un senso di ineluttabilità, sappiamo che è destinata a finire lasciandosi molto dolore dietro. Questo potrebbe rendere il libro un po’ malinconico, ma la forza di Lucida, che ne è consapevole, lo riempie con la sua rabbia e la sua volontà di vivere.
I personaggi sono molto ben costruiti, anche le molte figure minori, dal barista Miguel ai frequentatori del suo bar fumoso, da Paca la Tomate al ragazzo canadese che Lucida incontra nella lavanderia a gettoni, alle figure dell’infanzia – penso al tremendo inverno trascorso a Cervinia, così come l’ambiente, Barcellona, Formentera, Milano, le vacanze nelle Marche, le terme, per cui la narrazione pur essendo in un certo senso intimista è anche fortemente concreta, e visiva.
Il corpo è molto importante per Lucida. Afferma che ha disseminato pezzi del suo corpo in Italia e Svizzera durante le lunghe cure e gli esami cui si è sottoposta, e si interroga sulla minore dignità di questi pezzi, che non meritano né sepoltura né benedizione. Anche la sessualità è forte e esplicita, certe volte anche aggressiva, rabbiosa, persino rivendicativa. Esprime molto bene il personaggio di Lucida, che vive l’amore come una colpa.
Apparentemente alla fine c’è una ricomposizione, ma la visione della famiglia, della madre, rimane negativa. Anche se Julia dice non è sterminando la famiglia che ci si può emancipare, poi aggiunge bisogna imparare a difendersi senza farli fuori tutti, altrimenti al mondo non ci resta nessuno. Eppure Lucida torna dalla madre, consapevole che a modo sua la ama, che la malattia ha creato tra loro un legame strettissimo.
La scrittura è molto forte, molto coraggiosa, e anche decisamente esperta. Nelle scarne note biografiche di Francesca Ramos si legge che nel 2000 ha frequentato un corso di scrittura creativa e questo è il suo primo romanzo. Questa scrittura sembra però troppo originale, troppo sua, e troppo cosciente di sé per essere una prima prova. Ci sono immagini fulminanti, frasi che sorprendono anche quando sono semplici (es: la bambina non cresce, neppure in bottiglia). Posso solo ipotizzare che l’autrice abbia strappato molto prima di pubblicare.

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