LEGGERE PER
VIVERE
La meraviglia dei libri, secondo me, è che sono
fatti di parole. Senza mattoni né pietre né cazzuola né malta, senza effetti
speciali né facce bellissime di attori né technicolor, parola dopo parola,
aprono mondi e ti portano via, dove vogliono loro. Cattedrali di parole
sontuose o ignobili, fresche o vecchie come il mondo, non hanno limiti legati
ai materiali di costruzione, dicono quello che vogliono e tacciono quello che
non gli interessa. Con la minima spesa possono tutto, e anche se oggi viviamo
nell’età dell’immagine, rimangono il regno inarrivabile dell’economia
fantastica. L’immaginazione esiste anche senza l’immagine, e prospera grazie
alla parola.
Non riesco a
ricordare la mia vita prima dei libri. Mio padre aveva l’abitudine, quando ero
piccolina, di raccontarmi l’Iliade. Più tardi cominciò a leggermi Salgari a
voce alta, forse anche Cuore che non lessi mai. Poi c’erano i libri illustrati,
certi grossi volumi con storie un po’ noiose ma figure stupende, luccicanti e
precise, “perché sono fatte con il bianco d’uovo”, ricordo che diceva. Chissà
che cosa significa. Mi faceva anche fare lunghi viaggi sugli atlanti: viaggi a
puntate, oggi andiamo dall’Italia alla Grecia, domani arriviamo in Persia, poi
in India. Di ogni paese mi raccontava tutto quello che sapeva, lui che aveva
viaggiato pochissimo e si era fatto le sue conoscenze sui libri. Ecco, non
riesco a scindere i libri dal viaggio, così come non posso scindere i libri da mio padre. Sono stata una viaggiatrice abbastanza
precoce e baldanzosa per i tempi, continuo a esserlo malgrado la deprimente
globalizzazione e le tristezze portate dal turismo di massa. Ogni luogo che ho
visitato mi mostrava una faccia che aveva lunghe, forti radici nelle letture
fatte quando non sapevo neppure che i luoghi di cui leggevo fossero reali, raggiungibili,
gremiti di persone vive. Di questo, lo so per certo, è responsabile mio padre e
la sua biblioteca.
A casa mia
c’erano due biblioteche: una vera, il regno di mio padre, una grande sala con
un tavolo al centro e intorno armadi a vetri, e un’altra per bambini, composta
da uno scaffale rosso pieno di libri squinternati nella stanza dove studiavo e
giocavo – i libri brutti, e un armadio di legno scanalato, scrigno di
meraviglie inenarrabili, nell’anticamera al primo piano – i libri belli.
Siccome sono l’ultima di cinque figli, molto più giovane dei miei fratelli,
questa seconda biblioteca era il mio libero terreno di caccia. Ho potuto
usufruire dell’eredità di quattro bambini, più quelli che mi appartenevano
davvero, un territorio praticamente infinito da cui forse non sono mai uscita.
Per vicende varie i libri della mia infanzia per me sono persi, tesori sepolti
che so esistere ma di cui non ho la mappa. Frequentando i mercati dell’usato
sto raccogliendone alcuni con fatica. Ogni tanto ho qualche emozione felice,
esaltante, quando sollevando un volume qualsiasi scopro uno dei miei amici
perduti. Lo vivo come un miracolo, il segno di un destino che di colpo mi
sorride contento, sapendo di farmi un grandissimo favore. Ancora ne desidero
molti, ma ormai ho la speranza di imbattermi in loro prima o poi, quando meno
me lo aspetto, in certi giorni fausti per congiunzioni astrali che non conosco
e in cui non credo, ma agiscono di sicuro indirizzandomi al banchetto giusto.
Dei libri
infantili che ho amato appassionatamente ricordo non solo le parole ma anche le
illustrazioni. La serie meravigliosa di Karin Michaelis, Bibi, una bimba del
Nord, che aveva i disegni più belli che abbia mai visto. Le storie di Bibi
la seguono da quando ha sei, sette anni fino ai primi turbamenti
dell’adolescenza, insieme alle congiurate, le sue amiche del cuore, Ulla, Anna
Carlotta, Astrid e Valborga. Ho ancora in mente le fisionomie delle cinque
ragazzine, e saprei descriverne difetti e qualità nel dettaglio, nonché le
famiglie di provenienza: Bibi nata da una mésalliance, un matrimonio d’amore
tra un capostazione e una giovane aristocratica morta troppo presto, Ulla (con
cui Bibi si scambia il nome) e Astrid (invidiosa, falsa, intrigante) borghesi,
Anna Carlotta viziatissima, scaltra e fintamente fragile figlia di un pastore
protestante, Valborga intelligentissima e piena di risorse, proveniente da una
famiglia proletaria, con un nugolo di fratellini minori e una madre sempre
ammalata. Questa serie oggi sarebbe improponibile tanto Bibi è libera, priva di
paure e paranoie, sempre pronta a partire da sola (come figlia di ferroviere
può prendere qualsiasi treno gratis) e ficcarsi in situazioni pericolose come
farsi ospitare da un gruppo di zingari nel loro carrozzone. Nessun genitore
contemporaneo, iperprotettivo e ansioso,
metterebbe in mano ai figli dei libri così, li considererebbe
antieducativi. Per me sono stati sorsate di libertà e curiosità. Quando molti
anni dopo sono stata a Praga, per esempio, la prima cosa che ho cercato è
l’orologio della torre che avevo visto in un disegno precisissimo del volume Bibi
e il suo grande viaggio. A Bibi devo anche molti pensieri dedicati a un
incontro di sostantivo e aggettivo che mi ha colpito perché non lo capivo bene:
una dolce camicetta azzurra. Mi sono interrogata a lungo come una camicetta
potesse essere dolce. E ricordo la delusione quando è uscito un volume scritto
dalla traduttrice, Emilia Villoresi, in cui Bibi veniva ricondotta alla
normalità facendone un’infermiera che si innamorava di un medico italiano.
Ricordo ancora le parole della quarta di copertina: Bibi diventa una splendida
sposa italiana. Ma va’ là, Bibi continua a aggirarsi per l’Europa con il suo
amico Ole, quello che da bambino è caduto nella fossa del padre al cimitero,
con la cicogna Jensen, il suo berrettino rosso, gli occhi azzurri, le trecce
biondissime e le gambe lunghe con le calze alla scagassa.
Altro scrigno
di meraviglie senza fine l’enciclopedia Il tesoro del ragazzo italiano.
Otto o nove volumoni rilegati in rosso che estraevo a turno dalla libreria per
portarmeli in camera, sul letto. Ancora ho l’abitudine di leggere sdraiata sul
letto, il pomeriggio. C’era un po’ di tutto ma io leggevo soprattutto la
sezione delle fiabe di tutto il mondo, corredate da illustrazioni di artisti
magnifici. Uno di cui ricordo le fiabe greche e quelle nordiche, faceva figure
dalle linee dolci e colori netti, semplici e accattivanti. Ricordo ad esempio,
una fiaba dell’Epiro in cui c’era una ragazza con un costume fantastico, trecce
nere e lunga palandrana, in cui c’entrava un gallo, o degli alberi azzurri con
frutti rotondi nelle fiabe provenienti dalla Finlandia. Ma il più magico era
l’illustratore delle fiabe orientali che innalzava architetture tutte torri,
pinnacoli, altane, balconi, tanto complesse da sovrastare con la loro
incredibile ricchezza persino le vicende delle principesse di Baghdad e i
tappeti volanti. Nel Tesoro c’erano anche riassunti di opere teatrali
(mi sono rimaste indelebili quelle dell’Aio nell’imbarazzo e La vita
è un sogno) o episodi della vita di personaggi famosi, come il piccolo
Mozart che suona davanti alla futura Maria Teresa d’Austria e Ludovico
Muratori, pastorello avido di cultura che ascolta fuori dalla finestra le
lezioni impartite a nobili infanti. E poi la sezione dei giochi scientifici,
che non provavo mai a riprodurre, ma ancora mi rimane la curiosità di
controllare se è vero che il vetro può essere tagliato con le forbici
sott’acqua. Fantastica miniera questo tesoro, che trattava anche storia e
geografia con taglio decisamente fascista, ma alla mia fantasia evasiva e poco
portata a interrogarmi sulle questioni reali, d’altronde avevo meno di dieci
anni, inarrivabile e indimenticabile.
Poi ci
sarebbero decine di altri libri da ricordare, come la serie dei Ragazzi
della valle misteriosa di Aloisio T. Sonnleitner, tre volumi noiosi che ricreano la storia dell’umanità
partendo dalla vicenda di due cugini rimasti intrappolati in una valle alpina
in cui si erano recati con la nonna per cercare funghi. Una frana li isola
dalla civiltà e quelli ripartono dalla caverna, poi si fanno una casa sulle
palafitte infine una casa di pietra. Si accoppiano, hanno dei figli, trovano
l’oro (la parte più incomprensibile, per me: dopo avere sempre vissuto in pace
e concordia l’oro li divide rendendoli nemici) e alla fine, non ricordo più per
quale disastro naturale, ritrovano la via per tornare tra gli uomini. Ho detto
noiosi ma forse intendevo solo pesanti, anche questi volumi li ho letti e
riletti, magari con più fatica ma con lo stesso piacere di altri più facili.
Anzi, qui devo confessare che ho sempre apprezzato i libri che non capivo fino
in fondo: mi costringevano a pensare, a interrogarmi sulle parole che mi
risultavano oscure, e mi spingevano a fantasticare a lungo. In questo senso
basilare per me è stato Amei, una bimba, di Ruth Schaumann, pieno di
enigmi e immagini che mi sono rimaste indelebilmente in un angolo del cervello,
e solo rileggendolo da adulta ho capito perché: è un libro scritto benissimo,
molto difficile, un libro che non considera i bambini piccole bocche da nutrire
a bocconcini, ma persone in grado di intuire emozioni grandi come la vita. La
frase che ricordavo meglio, “com’è duro questo scopettino!” si riferiva proprio
alla capacità di provare dolore anche delle creature più piccole, come le mosche
e i bambini. Altra frase indimenticabile, “raccogli un mazzolino di venti
violette e cinque foglie verdi”, mi sembrava l’equivalente delle fatiche di
Ercole, un’impresa quasi impossibile: come si fa un mazzo con sole venti
violette? Ci ho provato tante volte, lo giuro, non ci riuscirebbe nessuno. E
ancora, la mosca che scivola sui lucidi capelli neri di una zia così povera che
nella dispensa ha solo una fetta di salame e un uovo che sacrifica per Amei,
che detesta l’uovo sbattuto… insomma un tipo di nutrimento per il cervello che
mi ha aiutata in modo decisivo a crescere, lo giuro.
Felicissima
friandise, invece, la serie di Mary Poppins di P. L. Travers. Niente a che
vedere con la sdolcinata interpretazione disneyana, Mary Poppins è severissima,
autoritaria e piena di difetti, primo dei quali una vanità senza limiti. Altro
che i sorrisi di Julie Andrews. Giovanna e Michele, con i loro fratellini
minori Giovannino, Barbara e Annabella, sono stati i miei amici per molti anni.
Mi affascinava quella vita così diversa dalla mia, fatta di spedizioni per
comprare il panpepato (mai saputo che cosa sia), pioggia e soprascarpe,
zucchero d’orzo e “mettiti il cappello”, cene nella stanza dei bambini e “se
sento una sola parola…”. Una vita di regole rigidissime e infrazioni continue
attraverso le magie di Mary Poppins, che lei ogni volta negava in nome di una
sua indiscutibile dignità. Le mie storie preferite erano “Venerdì disgraziato”,
in cui Michele in crisi di capricci e perfidia spacca un piatto di porcellana
dipinta poi ci finisce dentro e verifica i guai che ha combinato in quel mondo,
“Compere natalizie” dove i bambini incontravano Merope, una delle Pleiadi scesa
in terra per comprare regali di Natale alle sue sorelline, “Il parco nel parco”
dove i personaggi di plastilina fatti dai bambini prendevano vita in mezzo
all’erba. Quanto volte ho scostato fili d’erba nella speranza di scoprire che
vi si agitavano piccole repliche di esseri umani! Per non parlare poi dei
personaggi di contorno, Robertson Ay, l’ammiraglio Boom, il poliziotto
innamorato della cameriera Ellen sempre raffreddata, un mondo intero insieme
rassicurante e sempre pronto a squarciarsi per lasciare entrare Nelly Rubina,
la signora Corry e le sue grosse lacrimose figlie, il vento dell’est e quello
dell’ovest, gli aquiloni e i pettirossi. Basta dimenticare il film e tuffarsi
nelle pagine dei volumi originali per perdersi in un incanto pieno di fantasia
e spigoli stimolanti. Ebbi però una grave delusione quando, in quarta o quinta
elementare, nell’ora dedicata alla lettura a voce alta, proposi alle mie
compagne di classe le vicende della famiglia Banks: troppo irreale, nessuna
situazione strappalacrime, ottenni un pollice verso unanime.
Non che
disprezzassi le storie patetiche, anzi. Senza famiglia di Hector Malot
l’ho molto amato, nel mio baule di ricordi indelebili stanno le frittelle di
Mamma Barberin, la povera scimmia Capitano squassata dalla tosse, il signor
Vitalis che muore di stenti, la canzone napoletana amata da Remigio, “Fenesta
vascia e patrona crudele” che fa incontrare Remigio e suo fratello sullo yacht
Cigno che avanzava regale nei canali della campagna francese, tra chiuse e
argini, trainato da cavalli… E la protagonista di In famiglia, dello
stesso autore, mi ha insegnato molto sui meccanismi dell’ascesa sociale: sola,
miserrima, raminga, riesce a farsi assumere in una fabbrica, trova rifugio in
una capanna abbandonata vicino a un ruscello e investe il primo guadagno in un
pezzo di sapone, uno specchietto, un pettine e una pezza di cotone bianco con
cui si cuce delle camicie. Così, presentandosi al lavoro pulita e ordinata,
inizia una carriera che alla fine la porterà a conquistarsi tutto ciò che le
mancava. Magari mi rimanessero in mente con la stessa lucidità i tanti libri
che leggo ora, e riuscissi a trarne gli insegnamenti che la mia ignoranza di
bambina sapeva raccogliere.
Sul versante opposto, ricordo con grande piacere il libri della Comtesse de Ségur, Buoni ragazzi, Le memorie di un asino, L'albergo dell'angelo custode, Il generale Dourakine, Les malheurs de Sophie, con quei bambini che vivevano tutti in castelli e per farsi visita ordinavano la carrozza. C'erano illustrazioni in cui mi incantavano le loro gambine a clavetta e gli scarpini talmente piccoli e sottili che immaginavo il male a ogni sasso che i poveretti pestavano nei grandi parchi dei loro castelli. I personaggi erano indimenticabili: la buonissima Camilla, che mi faceva un po' pena perché la sua bontà era premiata dal curato con uno stendardo che lei lasciava sull'altare, e ci credo, che cosa poteva farsene di uno stendardo, poveretta? Sofia sempre intenta a combinare guai molto rimediabili, lo zuavo (parola già di per sé evocativa al massimo), e il generale Dourakine che frustava col terribile knut la pessima signora Papovski, che nelle illustrazioni inalberava una pettinatura talmente insensata (con due ciocche orizzontali che sporgevano ondulate dalle tempie) che a casa mia "sembri la signora Papovski" significava "sei così scarmigliata che sembri una pazza".
Avere letto tanti romanzi ottocenteschi, fin dall’infanzia, mi ha reso molto sensibile alle dinamiche sociali, alla concreta realtà del lavoro, a pormi sempre la domanda “ma come mangia questo personaggio? come paga l’affitto, i vestiti?” e sicuramente ha influenzato anche il modo in cui costruisco le storie che scrivo. Mi infastidiscono quei libri, non importa se realistici o fantastici, che si svolgono in una borghesia diffusa, sganciata dalle necessità economiche, dove tutti sono liberi di guardarsi l’ombelico come se i soldi piovessero dal cielo. E anche nella mia vita sono sempre incuriosita dalla provenienza sociale, dalle origini delle persone che incontro.
Avere letto tanti romanzi ottocenteschi, fin dall’infanzia, mi ha reso molto sensibile alle dinamiche sociali, alla concreta realtà del lavoro, a pormi sempre la domanda “ma come mangia questo personaggio? come paga l’affitto, i vestiti?” e sicuramente ha influenzato anche il modo in cui costruisco le storie che scrivo. Mi infastidiscono quei libri, non importa se realistici o fantastici, che si svolgono in una borghesia diffusa, sganciata dalle necessità economiche, dove tutti sono liberi di guardarsi l’ombelico come se i soldi piovessero dal cielo. E anche nella mia vita sono sempre incuriosita dalla provenienza sociale, dalle origini delle persone che incontro.
Non perderò
tempo a parlare di quei romanzi “per bambini” che ancora negli anni cinquanta
facevano parte delle letture obbligate, ma non imposte, che anch’io ho fatto.
Mi sono appassionata a I ragazzi della via Pal, Il piccolo lord, Incompreso (dove ho imparato la parola “abluzioni”
e che cos’è un dente di narvalo) Il giardino segreto, Il lampionaio,
ovviamente e appassionatamente Piccole donne, un po’ meno a Piccole
donne crescono, I ragazzi di Jo, Otto cugini, Rosa in
fiore. Di Piccole donne ricordo praticamente tutto, dal primo
capitolo con il Natale senza altro dono che il Pilgrim’s progress e la
recita casalinga alla morte di Beth e al ritorno del colonnello March dalla
guerra. Non mi sono mai fatta una ragione che Jo, con le sue mele mangiate in
soffitta e i suoi libri, i capelli tagliati per mandare i soldi al padre, il
vestito di tartan (stupenda parola incomprensibile) bruciato sulla schiena, i
guanti usati, i pomeriggi passati a leggere ad alta voce all’antipatica cugina ricca che la
chiamava Josephine, il coraggio, la capacità di saltare gli steccati, rifiuti
l’amore di Laurie. E che se lo sposi quella gatta morta di Amy. Un colpo basso
che Louisa May Alcott avrebbe potuto risparmiarci, a me e a milioni di altre
lettrici. Per farle sposare un vecchio tedesco triste e noioso, poi. Non glielo
perdonerò mai e poi mai. Poi c'era Marigold, la bimba dal cuore esultante di L.M. Montgomery, che mi agghiacciava perché sua nonna aveva una bambola di nome Alicia che stava in una teca di cristallo come una morticina e non si poteva toccare. E che dire di Monica al Madagascar di Max Mezger, che viaggiava in quell'isola esotica piena di scimmie e altre bizzarrie perché suo padre - ma veramente stentavo a crederci - di mestiere raccoglieva orchidee.
Lessi anche Davide
Copperfield in un’edizione illustrata ma completa, assolutamente entusiasta
ma scervellandomi su molti particolari incomprensibili. Attterrita dalla
scena in cui, dopo che la madre, infelicissima per il matrimonio con l’orrido
Murdstone, muore insieme al bambino appena nato, Davide viene portato nella stanza
dove i due cadaveri giacciono sotto un lenzuolo. Affascinata dalla zia
Trottwood furiosa con gli asini che le mangiano i fiori del giardino, schifata
da Huria Heep e dalla sua viscida madre, commossa per la triste sorte di Dora
Spenlow e il suo panierino di chiavi. Come si possa considerare Dickens un
autore per bambini non lo capirò mai. Da grande ho letto tutti i suoi romanzi e
l’ho elevato nell’empireo dei miei autori guida. Ne parlerò a suo tempo.
Delle fiabe ho
amato soprattutto quelle di Andersen, perché anche lì c’erano misteri e cupezze
a palate. Le figlie di Waldemar Daa, per esempio, con il vento che
soffia nella casa abbandonata e racconta le tragiche vite delle ragazze ridotte
in miseria dall’ostinata ricerca alchimistica del padre. Di una, imbarcata su
una nave travestita da uomo, si dice che “per fortuna” cadde da un albero e
morì prima che i marinai scoprissero il suo segreto. Solo rileggendola da
adulta ho capito il perché. E la miseria dello studente nella sua soffitta
gelida, che compra aringhe avvolte in pagine strappate da libri di poesia in Il
folletto del droghiere, mi ha colpito come il destino doloroso del piccolo
malato di Cinque in un baccello. Molti anni dopo ho visto la piccola
casa in cui visse Andersen a Cintra, in Portogallo. Era un tipo ben complicato,
maestro di squisitissime infelicità, e ha scritto storie di un sadismo
inarrivabile anche nel campo della fiaba e della letteratura per ragazzi, che a questo riguardo non ha mai
scherzato. La piccola fiammiferaia, tanto per fare un esempio che non è
tra i miei preferiti, a me sembra molto più pericolosa di qualsiasi cartoon
giapponese. E Il bambino cattivo,
storia di un vecchio professore o poeta, non ricordo bene, che in una sera di
pioggia accoglie in casa un piccino biondo e zuppo ricavandone in cambio una
freccia nel cuore, a parte le implicazioni pedofile e omosessuali, ha procurato
non pochi turbamenti alla mia giovane immaginazione. Ma ripeto, più una storia
mi risultava incomprensibili più ne rimanevo affascinata. In confronto a quelle
di Andersen, le fiabe dei fratelli Grimm mi sembravano piuttosto scontate, ma
non dimentico un’illustrazione in cui una bambina trova delle fragole in pieno
inverno scavando nella neve di un bosco oscuro: una magia povera ma potente,
ancora adesso, in fondo, spero sempre di trovare qualcosa di rosso e di caldo
nel gelo, di imbattermi nel meraviglioso a poco prezzo, e mi illudo che basti
scavare un po’ per portare alla luce un tesoro.
Una collana
senza misteri ma divertentissima era La Biblioteca dei miei Ragazzi della
Salani. Libretti dalla carta ruvida, la copertina piena di bei colori,
incantevoli disegni in bianco e nero all’interno, titoli allegri e vicende
coinvolgenti. Tempesta e Mollica, Un Pierrot e tre bambine, Lo
sbaglio del quarto piano, e soprattutto il meraviglioso Otto giorni in
una soffitta, che ho ritrovato magicamente proprio mentre ci pensavo
sgattando in una pila di libretti smangiati e muffiti. Non era la mia edizione,
dei tre fratelli Alano, Francesco e Maurizio che trovano in soffitta la bambina
Nicoletta sfuggita alla perfida nonna Giulia e l’adottano di nascosto finché la
loro giovane e bella madre la scopre accogliendola in casa, il primo era
diventato Paolo; ma chi se ne importa, i disegni erano gli stessi, la
minestrina senza burro e la torta di albicocche c’erano ancora, e me lo sono
portata a casa con la sensazione di avere trovato delle fragole profumate sotto
un cumulo di neve.
Un discorso a
parte, che non riuscirò mai a esaurire, meritano i romanzi di Emilio Salgari.
Mi sono entrati nel sangue, proprio, molto prima di sapere leggere perché mio
padre me li leggeva a voce alta, e poi hanno nutrito la mia fantasia per anni e
anni. Mi sono precocemente innamorata del Corsaro Nero: non riuscivo a parlarne
nemmeno con mio padre tanto mi emozionava. Carmaux e Van Stiller, le battute
scipite che mi parevano geniali (“Chi va là?” “Il diavolo!”), il fratellino
sacco di carbone, i lamantini che affioravano di notte ricordando al Signore di
Ventimiglia i fratelli morti, “Guarda! Il Corsaro nero piange”, i turni di
guardia di notte, la Folgore, gli arrembaggi, le navi nemiche arpionate e
Honorata Van Guld, potrei continuare per venti pagine a accumulare ricordi che
ancora mi fanno tremare il cuore. Ma a Salgari devo soprattutto la passione per
i viaggi, per l’Oriente, l’India dei marabù e dei Thug, le pagode e i vicoli di
Benares, i misteri della jungla nera, i fuochi nella notte, i babirussa, le
tigri, i manghi che hanno il gusto di mille sorbetti, l’albero del pane e chi
più ne ha più ne metta. Sono stata molte volte in India e certamente Salgari ne
è responsabile, ma la cosa più incredibile è che ho potuto verificare che c’era tutto quello lui mi aveva promesso. Non ho incontrato mai
Tremalnaik né il fedele maharatto Kammamuri, la tigre Darma e il cane Punti, la
folle Ada né ho mai sentito il ramsinga dei thug ma solo perché non ho cercato
bene. La casa della mia infanzia aveva due piani e io avevo paura a fare le
scale, un po’ perché erano buie e un po’ perché c’era appesa una stampa di
Fouquet che mi guardava male (e che ora è appesa nel mio studio, benevolo nume
delle lunghe ore che passo a scrivere al computer), per cui chiamavo sempre mio
padre che mi aspettasse sotto quando dovevo scendere. Lui si divertiva a
fingere di suonare il ramsinga (quale strumento sia in realtà non l’ho mai
saputo) terrorizzandomi, e insieme riempiendomi di piacere. In compenso
riaprendo I misteri della giungla nera da grande l’ho trovato
illeggibile, scritto in modo vetusto e del tutto sconclusionato come struttura.
Malgrado la sua fama di scrittore per ragazzi Salgari è un vero esponente del
decadentismo, i suoi personaggi sono febbrili, nevrotici, tormentati, si
innamorano di bellissime quindicenni che comunque muoiono subito. Poi è
profondamente libertario, anticolonialista, capace, in tempi in cui i bianchi
portavano in giro con orgoglio il loro fardello di razza superiore uccidendo e
depredando con disprezzo in nome della civiltà, di eleggere a eroi indiani,
malesi, filippini e cinesi, corsari e deportati in fuga dalle prigioni di Port
Blair. Non c’è angolo del mondo su cui non abbia scritto. Qualche anno fa,
visitando il sito di Angkor in Cambogia, ho scoperto che era nientemeno che La
città del Re Lebbroso. A Sandokan, principotto malese, ha fornito un
aiutante tuttofare portoghese, l’ineffabile Yanez che fuma l’ennesima sigaretta
sdraiato sul canapè. Si può essere di più larghe vedute? Chi lo ha letto
nell’infanzia non potrà mai essere razzista. Salgari ha contato più di un
amore, più di quello che ho studiato e letto negli anni successivi. Ė una
pietra miliare, un demiurgo della mia immaginazione e di tante esperienze che
ho inseguito sulle sue tracce. Ho per lui una riconoscenza totale. Senza Salgari,
probabilmente, la mia vita sarebbe stata diversa.
C’è un libro,
invece, che pur amato da bambina ho capito veramente solo quando l’ho scoperto
da grande, leggendolo in inglese: Alice nel paese delle meraviglie.
L’edizione in mio possesso aveva illustrazioni così così, Alice era una
ragazzina poco attraente, con i capelli corti e scuri, una gonnellina a pieghe
che le scopriva le ginocchia e un golfetto abbottonato. Mi piaceva, mi colpiva
il racconto del topo a forma di coda e la lacrimosa canzone della Finta
Tartaruga, “Buon brodo verde e oro”, Bill il giardiniere del Coniglio Bianco
(che orrore la traduzione Bianconiglio!), il Cappellaio Matto e la Lepre
Marzolina, ma è da adulta che gli ho votato un’ammirazione sconfinata. In
assoluto è il libro che vorrei avere scritto io. La mia invidia per Lewis
Carrol, la sua capacità di giocare con le parole, di allargare e stringere la
realtà a proprio piacere, di costruire archetipi indimenticabili frullando
poesie, nursery rhymes, figure familiari dell’immaginario infantile, è feroce.
La lotta continua di Alice, inerme guerriera, per affermare le ragioni della ragione in un mondo irrazionale, mi esalta con la sua cocciuta sicurezza di essere dalla parte giusta malgrado tutto. E il piacere che mi dà è infinitamente rinnovabile. Ė l’unico libro che leggo e
rileggo, quando incappo in una giornata no, di quelle grigie e pesanti che
fanno sembrare la vita un budello senza finestre, apro una copia ormai tutta squinternata
in inglese con le illustrazioni di Tenyel e il mondo ricupera i colori, si
riempie di festa. Come, per parlare di film, mi succede con Rocky Horror
Picture Show, che mi rimette sempre di buonumore appena vedo Brad e Janet
nella chiesa dell’American Gothic. Non amo altrettanto Alice oltre lo
specchio, per i miei gusti troppo costruito, appesantito da un certo
intellettualismo e sdolcinature. Ma Alice nel paese delle meraviglie
è il libro che
porterei con me su
un’isola deserta, quello che salverei se dovessi sceglierne uno solo. L’unico,
ripeto, che vorrei davvero avere scritto io: penso che essere ricordato come
l’autore di questo meraviglioso viaggio nel paese delle meraviglie debba
rendere il reverendo Charles Dogson, dovunque si trovi ora, l’anima più felice
e fiera di tutto l’aldilà. (Per onor di verità, devo dire che c’è un altro
libro che vorrei avere scritto, ma non fa parte delle mie letture infantili: è Kyra Kyralina di Panait Istrati).
Leggevo come
una furia da bambina, ma questo non mi impediva di giocare anche come una furia
con amiche e amici furiosamente amati. Ero molto libera pur avendo genitori
anziani, probabilmente perché essendo come ho già detto la quinta, ultima e
molto più piccola dei miei fratelli, si erano un po’ stancati del ruolo. Mi
guardavano vivere, dandomi regole e sicurezze ma anche una fiducia illimitata.
E mio padre mi nutriva di libri e immaginazione. A dieci anni decise che potevo
passare a letture da grandi e cominciò con I Malavoglia. Mi piacque
enormemente. Per questo non ho mai creduto che ai bambini si debba fornire solo
letteratura calibrata, quelle tremende classificazioni “dai nove ai tredici
anni”, “dagli undici ai quattordici e cinque mesi”, come se ci fossero degli
ingranaggi che scattano, clic clic, a ogni compleanno. Il troppo facile non
aiuta a crescere. Non so che cosa capii a quella prima avventura nel mondo
complesso della vita adulta, ma so che rileggendo I Malavoglia anni dopo
mi piacquero altrettanto. Fui presa, stregata ancora una volta e non mi fermai
più. Cominciò, per mio padre, un tormentone che non ebbe fine fino a quando non
fui abbastanza grande da comprarmi i libri che volevo: “Papà, che cosa leggo?”.
Andavamo in biblioteca e lui cercava, sfogliando i volumi su cui, all’ultima
pagina, scriveva con una matita con la mina dura a pressione, la data
dell’ultima volta che l’aveva letto (non era raro ci fossero tre, quattro date)
e un “Sì” o un “No” che volevano dire adatto o non adatto, in base a una
pruderie sessuale legata alla sua educazione. Mio padre era un uomo d'altri tempi, e
non mi negò mai un libro perché troppo difficile, troppo problematico, ma solo
perché, a suo parere, era troppo scollacciato. Devo dire che i suoi standard
non erano severi. Non mi diede mai Zola ma Balzac, Stendhal, Flaubert,
moltissimi romanzi inglesi e russi, storie che della vita parlavano eccome, in
tutti gli aspetti, solo che non usavano certe parole né descrizioni precise. Ricordo
ancora con dispiacere e vergogna quando per Natale gli regalai, ero ormai più
che ventenne, Fattaccio a Buenos Aires di Manuel Puig. Non l’avevo letto
ma ero stata incuriosita da una recensione. Ne fu scandalizzato, e rivedo
l’espressione mortificata con cui mi chiese: “Ma tu l’hai letto?”. Risposi,
sinceramente, di no, lui non fece commenti e non ne parlò più. Di Puig in
seguito ho letto alcuni romanzi che ho trovato molto belli, ma capisco che non
erano adatti per mio padre, proprio per niente. A me invece la letteratura
erotica o pruriginosa, o anche pornografica, non dispiace affatto. Al ginnasio
ho letto tenendolo sotto il banco Cioccolata a colazione di Pamela Moore,
che all’epoca passava per molto osé. Ricordo solo un passaggio che parlava di
meduse, alghe, probabilmente riferendosi a un’erezione: non lo capii per
mancanza di esperienza, e non ho mai più avuto la curiosità di rileggerlo pur
avendolo trovato tristemente negletto nelle bancarelle dell’usato. Ma, come
credo molti della mia generazione, ho letto con piacere Emanuelle, con
un po’ di noia, in quanto per nulla masochista, Historie d’O, e
recentemente mi sono sorbita il tomo di Catherine Millet La vie sexuelle di
Catherine M., certo ripetitivo dato l’argomento, ma molto interessante
finché l’autrice racconta della sua ossessiva pratica sessuale con chiunque le
capitasse a tiro, dell’esibizionismo e del gusto di sprofondare nell’abiezione,
molto meno quando, finalmente accoppiata, la sua perversione si trasforma in
banale narcisismo.
Mio padre, industriale,
in politica conservatore (amava definirsi codino, forse nemmeno
scherzosamente), uomo molto colto, profondamente liberale e rispettoso degli
altri ma certo non in sintonia con i rivoluzionari, era in letteratura un
amante dell’avanguardia. Leggeva Joyce in inglese ben prima che fosse tradotto
in italiano, adorava Gadda, Musil, era di una curiosità senza prevenzioni
quando si trattava di libri. Ricordo di essere corsa alla mitica libreria
Hellas di Angelo Pezzana, l’unica libreria moderna nella Torino della mia
giovinezza, per comprare su sua commissione Il tamburo di latta appena
tradotto, molto prima del Nobel che rese famoso Gunther Grass. Senza che mai me
l’avesse insegnato, da lui ho imparato a leggere le recensioni e capire se
quello di cui si parla può diventare un “mio” libro. Le recensioni indirizzano
i miei acquisti, e raramente mi sbaglio. Forse per questo adesso scrivo
volentieri di libri, ma faccio fatica a occuparmi di quelli che mi hanno
delusa. Stroncare non mi sembra utile né mi interessa molto. Se invece un libro
mi è piaciuto ne parlo, ne scrivo e vorrei farlo leggere a tutte le persone che
amo. Adoro imprestare i libri, mi provoca una profonda soddisfazione essere
diventata per alcuni amici una sorta di biblioteca circolante, almeno finché
non ho cominciato a leggere prevalentemente in digitale. Anche se come autrice
può sembrare che mi dia un po’ la zappa sui piedi, sono convinta che ogni libro
prestato diventerà, prima o poi, un libro comprato in più. Però sono molto
pistina: i miei libri li voglio indietro, ne tengo un’accurata contabilità,
posso diventare noiosa se non ritornano nelle mie ahimè troppo affollate
librerie. Alcuni li ho ricuperati dopo anni, quando ormai avevo perso le
speranze, e li ho accolti con tutta la gioia e la cura che si dedica a un amore
ritrovato. Ma ho anche avuto l’audacia, e forse l’imprudenza, di sbarazzarmi di
venti scatoloni di libri una volta che ho dovuto sgombrare il mio appartamento.
Non me ne sono mai pentita ma preferisco non pensarci.
L’adolescenza
è stata la fase dei grandi romanzi cui mi lasciavo andare con totale adesione.
Da bambina amavo portarmi da leggere nel prato in fondo al cortile, magari con
qualche biscotto, per godere insieme dello straniamento spaziale e di quello
immaginativo, poi ho perso quest’abitudine, leggevo in camera mia sdraiata sul
letto come faccio ancora oggi. Ora frequento spiagge solitarie dove non ci sono
lettini né ombrelloni, e anche sdraiata sulla sabbia, sui ciottoli o su uno
scoglio la lettura mi sembra più completa, o nelle sale d’aspetto degli
aeroporti, nelle camere d’albergo, in treno. Non mi piace leggere in poltrona.
Eppure a casa mia, dove la televisione è arrivata tardissimo, la sera in
salotto stavamo in sette, cinque figli e due genitori, ognuno con il suo libro,
e la domanda più frequente era: che cosa stai leggendo? Ho cominciato molto
presto a leggere tutto quello che potevo nella lingua originale, senza
dizionari, sforzandomi di capire le parole sconosciute dal contesto. Ricordo
quando leggevo un romanzetto francese per signorine, Mon oncle et mon curé,
o Mon cousin Guy, o La folle histoire de Fridoline o qualsiasi
altra scemenza avessi trovato nello scaffale dei libri permessi senza
supervisione di mio padre: a ogni riga chiedevo il significato di una parola a
uno dei miei fratelli, che vuol dire moine? abbaye? e loro,
annoiati, alzavano lo sguardo dalla pagina e mi dicevano: ma perché leggi in
francese se non lo sai? Invece è proprio così che ho imparato inglese e
francese, più tardi anche lo spagnolo, leggendo. Anche in questo ho seguito le
orme di mio padre che affrontò anche il portoghese senza mai sapere la
pronuncia, ma scavando ostinato nelle parole che lo affascinavano.
Questa
religione del libro in cui sono cresciuta mi ha influenzato pesantemente quando
ho cominciato a scrivere. Da tanto, forse da quando ero bambina, avevo in testa
il desiderio di farlo, e come, ma fino all’8 dicembre 1982 avevo scritto solo
diari, tanti, lettere, anche, temi, tesi e una serie di itinerari geografici
per un testo scolastico. Quel giorno mi trovai per la prima volta da anni sola
in casa, con nessuna voglia di uscire per motivi che non ha importanza
ricordare qui, e piena di angoscia. Mi misi alla macchina da scrivere (non ho
mai scritto a mano da quando ho cominciato con la narrativa cosciente di sé, e
sono passata prestissimo al computer, verso il 1987) e buttai giù un racconto, Quattro
storie di viaggio. Ora lo trovo illeggibile ma allora ne fui soddisfatta e
stupita: avevo scritto quello che volevo scrivere nel modo che desideravo.
Certo vi si trovavano già, in nuce, molti dei temi che mi appartengono. Fu
l’inizio di una passione che con il tempo è cresciuta fino a diventare
dominante, predominante, soddisfacente più di qualsiasi amore e molto più
tormentosa, ma insieme liberatrice perché non dipende dalla volontà di un
altro, è mia e solo mia. Comunque mi sentivo tremendamente colpevole di
presunzione: consideravo, e forse considero, scrivere la più alta delle
attività umane, e osavo farlo! Mi pareva un atto di hubris per il quale avrei potuto essere amaramente punita.
Per anni non ho avuto il coraggio di confessarlo a nessuno, nemmeno alle
persone con cui avevo maggiore confidenza. Mia madre è morta senza saperne
niente, mio padre, che forse se ne sarebbe rallegrato, era morto già da tempo.
Ho continuato a scrivere le mie storie in segreto, poi l’ho detto a qualcuno ma
prima di farle leggere è passato ancora del tempo, almeno dieci anni da quell’8
dicembre.
La mia
adolescenza è stata abitata soprattutto dai grandi romanzi dell’Ottocento. Di
Balzac, Stendhal e Flaubert ho già detto; ma ci furono anche Thomas Mann con i
Buddenbrok, Eça de Queiroz, Daudet, Jane Austen, Charlotte Brontë, Federico De
Roberto, Selma Lagerlof, e molti altri. Romanzi per signorine solo quando non
potevo chiedere a mio padre di pescare nella sua biblioteca, al mare o in
campagna, dove i libri disponibili non erano molti e sceglievo tra quello che
c’era. Così lessi un Delly, Tra due anime, che mi guarì da qualsiasi
curiosità in quella direzione, e anche un bel numero di romanzetti francesi
pruriginosi che stavano nello scaffale della nostra casa al mare, di autori
come Gyp (Autour du mariage, Le vieux marcheur) di cui capivo
poco ma mi stuzzicavano perché ne intuivo il sottofondo proibito.
L’alternativa, ma neanche su quella ho sputato, erano una vita di Sant’Ignazio
di Loyola e i Cento modi di cuocere le verdure. La cosa importante era
avere sempre un libro tra le mani: di giorno e di sera, lavandomi i denti e
facendo pipì, prima di cena e anche durante, mentre mia madre mi ripeteva
accorata: non si legge a tavola. In effetti, ero ben maleducata a pensarci. Poi
venne l’epoca in cui mio padre mi avvicinò a letture più attuali, Italo Svevo,
Kafka, Sologub, Solokov, Hans Fallada, Wiechert. La meravigliosa Medusa degli
Italiani, con le sue sobrie copertine e le storie succulente nascoste tra le
pagine. Qualche italiano minore, Michele Prisco, Carlo Alianello, Neri
Tanfucio, Corrado Alvaro, Ignazio Silone, Francesco Iovine. In un noiosissimo
inverno passato a Torino a casa di mia nonna, facevo la prima media per cui
avevo solo dieci anni perché ero un anno avanti, Woodhouse e Jerome K.
Jerome.
Rileggendo
alcuni di questi da grande, ho avuto sorprese a volte davvero sconcertanti. Per
esempio con La Certosa di Parma, che avevo molto amato, non sono
riuscita più a entrare in sintonia. Ho capito benissimo perché mi aveva colpito
tanto, Fabrizio del Dongo mi è parso un eroe adattissimo alle inquietudini
dell’adolescenza, ma ho trovato il suo amore per Clelia pieno di un’esaltazione
infantile, grottesco l’escamotage di frequentarsi a luci spente, insomma, al di
là dell’ammirazione per l’opera, non ci sono più cascata dentro come da
ragazzina. Per fare altri nomi, di J. K. Jerome ho trovato insopportabile il
nazionalismo, di Alianello (Il mago
deluso) la fissazione sessuale da repressione, tutti aspetti che alla prima
lettura mi erano completamente sfuggiti. Altri invece non solo hanno superato
la seconda lettura ma si sono arricchiti seducendomi ancora di più, come Orgoglio
e pregiudizio, Davide Copperfield, Jane Eyre, I Viceré.
Se questa vita tanto breve me lo permettesse, mi piacerebbe rileggere tutti i
libri che come aurei mattoni hanno contribuito a costruire la mia visione del
mondo, non per distruggere miti ma per trarne quello che non ero in grado di
capire quando li ho incontrati.
Mi rendo conto
che manca la poesia in questo mio repertorio. In realtà c’è sempre stata,
eccome, ma in misura limitata probabilmente per colpa della mia passione per le
storie, i particolari concreti della vita,
i perché e i percome. La scuola che ho frequentato ancora obbligava a studiare
a memoria le poesie, e di questo, devo dire, sono sempre stata molto
riconoscente. Mi piace ricordare un verso dopo l’altro, magari ricostruendo
faticosamente Davanti a San Guido o il 5 maggio in una notte
d’insonnia, anche se non mi danno brividi estetici. Da insegnante ho cercato di
convincere i miei allievi che era un esercizio fruttuoso ma non ci sono mai
riuscita. Ho adorato, al liceo, i lirici greci, Catullo, sublime nell’amore
come nell’erotismo spinto e negli insulti, che ancora rileggo di tanto in
tanto, e Orazio, arguto e raisonneur, che ha detto tutto, la maggior fonte di
citazioni immaginabile. Non rimpiango i tanti pomeriggi dedicati, durante le
medie, alla versione in prosa di Iliade e Odissea, perché mi
hanno aiutata a riflettere sul significato delle parole, a sforzarmi di capire
invece di alzare bandiera bianca davanti alle difficoltà. Ho detestato Virgilio
e le sue copiose lacrime, ho trascorso noiose ore di lezione disegnando le
morose del lamentoso Tibullo, non me ne è mai importato niente degli atomi
cozzanti di Lucrezio, di Ovidio ricordo poco perché frequentavamo solo i noiosi
Tristia o qualche innocuo brano delle Metamorfosi, gli Amores
erano troppo sulfurei per la nostra, immaginaria, innocenza. Di Dante,
come tutti gli studenti, ho apprezzato molto l’Inferno ma ho fatto amari
naufragi su Purgatorio e Paradiso. Sorvolo sui tanti trecentisti, che pure non
mi hanno mai fatto venire voglia di scappare ma neanche mi hanno conquistata,
sui noiosissimi quattrocenteschi, sul barboso Tasso (ma certe parti in cui gli
scappava la mano e rappresentava la morte di Clorinda come un atto sessuale le
ho rivalutate in anni più esperti), ma mi sono incantata sull’Ariosto. Mi ha
divertito Parini, ho ammirato Foscolo. La prima passione vera per un poeta
italiano l’ho provata per Leopardi, e ancora non è finita. Ancora lo rileggo,
ancora ci trovo emozioni vivissime, che hanno reso la visita alla sua casa di
Recanati, pochi anni fa, un’esperienza davvero speciale. Vedere nella
biblioteca i testi che il giovane Giacomo ha letto e studiato, i suoi
manoscritti, le lettere infantili scatologiche e giocose, guardare dal verone
del paterno ostello la piazzola in cui i fanciulli facevano lieto romore al
sabato, non mi vergogno di ammetterlo, mi ha toccato profondamente. Un po’
banale? Un po’ da letture liceali mal digerite? Può darsi, ma chi sono io per
dimostrami superiore a questo tipo di emozione? I luoghi carichi di storia, con
la esse maiuscola o individuale di personaggi speciali, mi commuovono.
Un poeta che
ho imparato a amare da mio padre è Guido Gozzano. Ingiustamente inchiodato alle
piccole cose di pessimo gusto, per chi non lo conosce frequentatore del salotto
di nonna Speranza, è raffinatissimo maestro di metrica e disincantato cantore
della rinuncia alla vita, intellettuale che si guarda agire con occhio ironico,
antiromantico per eccellenza nei temi e romantico per condizione esistenziale,
condannato dalla tisi a una morte precocissima. Molti dei suoi versi mi tornano
alla mente spesso perché riassumono esperienze quotidiane. Ricordo che
all’esame di maturità mi fu chiesto quale poeta amassi in modo particolare, e
lo nominai. Perché, volle sapere l’esaminatore, e io, che non ho mai brillato
per presenza di spirito né per capacità di improvvisazione, non seppi
rispondere. Ancora me ne dispiaccio. Ora conosco benissimo le ragioni per cui
anche oggi mi viene voglia di rileggerlo. La sua casa di campagna nel Canavese, il
Meleto, non è suggestiva come altre dimore di letterati, è stata del tutto
risistemata con l’immancabile ricostruzione del salotto di nonna Speranza, che
non gli era affatto contemporaneo: rinasco, rinasco nel
milleottocentoquaranta, dice la poesia, messa in scena antiquaria di uno
svagato sogno risorgimentale.
Di un altro
poeta ho ricordi infantili, Palazzeschi, perché mio padre ogni volta che ero
troppo lenta a salire una scala mi diceva: salisci, mia Diana, salisci
codesto scalino, lo vedi, è bassino, o cloppete cloppete clop
davanti a qualche spruzzo di fontana un po’ sputacchiante. Sotto forma di
volume ben rilegato in pelle se ne stette a lungo sul tavolo del salotto
dove ebbi tempo e modo di sfogliarlo, finché sparì di colpo quando, avendo
letto il verso puttane, ma strane, care puttane! chiesi spiegazioni su
quella parola nuova. Ho cercato a lungo e finalmente trovato tutte le poesie di
Palazzeschi, e mi rallegro di non aver incontrato, nei miei anni più freschi, i
fiori parlanti del suo giardino e soprattutto di non aver chiesto a mio padre
quali lavoretti con la bocca sapesse fare così bene la
violacciocca.
Del povero
Pascoli, che tanto mi ha annoiato a suo tempo con le sue rondini che facevano videvitt,
i lampi, le lavandare, i tristi Zvanì, so a memoria 10 Agosto e
ho fatto mio un verso, che mi ripeto sovente quando mi sento orgogliosa di
qualche meta raggiunta senza aiuto: da me, da me solo, con la piccozza
d’acciar ceruleo. Poi ho visitato la casa di Castelvecchio, agghiacciante e
affascinante tempio dell’amore fraterno, e mi sono appassionata per un po’ alla
contorta personalità dell’ubriacone ossessionato dal nido, gonfio di sensualità
repressa che in poesie come Gelsomino notturno o Digitale purpurea
gli scappa da tutte le parti. Davvero, con le sue lacrime alcoliche, i
bamboleggiamenti, le morbosità, il senso di morte, Pascoli è interessantissimo
sia come uomo (o caso umano) che come poeta.
In tempi più
recenti, ma non tanto, ho molto amato Saba, soprattutto A mia moglie che
mi pare una delle più belle poesie d’amore che ho mai letto, Caproni, Penna. Ma
confesso che non cerco sovente poesia nuova, preferisco rileggere quella che conosco
inseguendo, nei momenti in cui ne ho bisogno, le emozioni che ho già provato. A
molti poeti, vedendo quanto sono amati e citati, mi sono sforzata di accostarmi
senza riuscirci. Per esempio Rilke, cui sono dedicati centinaia di esergo, e
malgrado una visita al castello di Duino, non mi è entrato nel cuore.
Probabilmente non sono capace di pensiero troppo profondo né troppo astratto.
Anche nella poesia ho bisogno di immagini concrete, parole semplici che mi
riportino all’infinita varietà delle vicende umane, le uniche che sono capace
di riconoscere e mi incantano senza mai stancarmi.
Uscita
dall’adolescenza e dalla tutela di mio padre mi si è spalancato davanti un
mondo tutto da esplorare. I libri allora costavano poco e anche una
squattrinata come me poteva pescare in quel mare infinito. Ho una riconoscenza
totale per i volumetti della BUR grigia, e conservo religiosamente tutti quelli
che possiedo. Non c’era limite alle scoperte che si potevano fare con sessanta,
centoventi, duecentoquaranta lire. Classici latini e romanzi ottocenteschi,
tutto era a portata di mano e di borsa. Plinio il Giovane, Longo Sofista,
Apuleio, Petronio ma anche Colette e Benjamin Constant, Selma Lagerlöf, Eça de
Queiróz, permettevano una disordinata ma felicissima ricerca a chi, come me,
aveva più buchi che certezze nella sua formazione. Anche adesso, quando su una
bancarella dell’usato vedo una delle copertine grigie cui bastava la forza del
titolo per attirare l’occhio, mi faccio commuovere da quella sobrietà da tavoletta
mesopotamica e me ne approprio senza considerare che non ho più la vista dei
vent’anni, le pagine fitte e i caratteri ridotti mi mettono a dura prova.
Ovviamente la
mia storia di lettrice non si conclude qui, ma non so se la proseguirò mai. Ci
vuole molta concentrazione per ricostruire le letture del passato, e io sono
pigra e pronta a distrarmi. Quindi mi fermo prima di imbarcarmi nel mare magno e
tempestoso delle letture adulte.
E' una storia che mi ha fatto sentire ancora più amica tua! Che bello perdersi nelle tue parole, nei tuoi libri, e sapere che ami Gozzano ( ma l'ho sempre sospettato!). Grazie Cons, ho sentito la tua voce e la tua passione per le storie in questo bellissimo articolo. E ho pensato ai tuoi racconti, alla Masca, alla Trilogia delle donne virtuose, a quello che ci tiene ancora unite, dopo tanti anni. Bacio
RispondiEliminaChe meravigliosa storia! mi ci sono anche ritrovata, poi ognuno ha i suoi tesori nascosti, ma Piccole Donne! neanche io ho mai perdonato (da bambine ci giocavamo, io daniela ero Jo, la nostra amica Tiziana era Meg, Beth nessuno voleva frla perché moriva, così alla mia sorellina Gabri toccava quella smorfiosa di Amy...) E Andersen! un po' sadico,sì, ma le fiabe per bambini di Wilde? l'Usignolo e la rosa? Ho studiato la "cucina" di Andersen per un libricino, la cucina della fantasia e nemmeno io ho mai smesso di cercare quella "magia povera ma potente, ancora adesso, in fondo, spero sempre di trovare qualcosa di rosso e di caldo nel gelo, di imbattermi nel meraviglioso"... ma non direi "a poco prezzo", direi nelle piccole cose. Un abbraccio da daniela, carissima Consolata e grazie per il tuo bellissimo racconto.
RispondiElimina@Emilia, ti abbraccio e ti ringrazio ancora come ho già fatto tante volte. Tu sai a che cosa mi riferisco. Sono felice che ancora siamo amiche e soprattutto, che ancora ci leggiamo. Vuol dire qualcosa, no? Smack
RispondiElimina@Daniela, che piacere incontrarti qui! e scoprire altri punti in comune, e che punti! Andersen e Louisa May Alcott in persona... Una coincidenza baltariana anche questa, no? Di Wilde a me piaceva molto Il gigante egoista, ma forse l'ho letto dopo. In ogni caso le letture infantili secondo me sono una meraviglia che si rinnova sempre, qualcosa che sta lì in fondo e si può tirare fuori per riscaldarsi nei giorni di pioggia, come dici tu il tesoro nascosto. E io non esprimerò mai abbastanza la mia riconoscenza agli autori, scusandomi con quelli che non ho nominato ma ricordo uno per uno. Un abbraccio a te.