Vecchia era vecchia, e neanche bella da vedere. La cosa che colpiva più in lei erano i denti finti, bianchi e tanti e troppo regolari. Si muovevano quando lei parlava, all'inizio catturavano tutta l'attenzione. Io li guardavo affascinata aspettandomi che cadessero tutti insieme dietro le labbra pallide e Danda se li inghiottisse, plop, in un boccone. Ma poi si dimenticavano ascoltando Danda e le sue storie.
Certe erano
storie da ridere.
"C'era una mia amica che aveva un figlio che usciva sempre, le diceva 'Ciau mama, vadu a piè d'aria'. Una sera le ha detto: 'Mama, doman am mario'. 'E chi at marie?' 'Am mario Daria, mama.'"
E rideva, contenta, con tutti i suoi trentadue denti di porcellana. A me questo figlio, questa madre, questa Daria mi facevano sognare per giorni. Però preferivo le storie tristi.
"C'era una mia amica che si chiamava Maria. Diceva sempre: 'Ah, son bel e stufia.' Stufia di che? 'D'esi bela e balè bin.' E com'è finita? Normale, la bela Maria tuti la veulo e niun la pia."
Oh quella povera Maria piena di innamorati, finita sola e stanca di ballare ed essere bella! Avrei voluto consolarla e portarla con me al cinema.
La casa di zia Tera era di quelle chiuse e compatte verso la strada, ma poi dentro c'era un cortile acciottolato e un giardinetto di piante da frutta e rose, dalie, gigli, zinnie, fiori modesti e colorati. In primavera una topia di glicine si copriva di grappoli profumati e nuvole di vespe e calabroni, in autunno la vite americana che correva lungo il poggiolo esibiva grappoli neri e scompigliati.
A Danda non piaceva l'uva americana, e nemmeno a me.
"Dimmi te se quel brav'uomo non poteva piantare della bella uva regina! che mi piace tanto! No, l'uva fragola, che nessuno mangia e resta lì a marcire, al massimo va bene a conservarla per Natale e far figura. Tuti sgnor, e se ci tocca comprare l'uva non importa a nessuno."
Quel brav'uomo era il suocero di zia Tera, morto da almeno vent'anni. Danda era stata la balia dello zio Gigi, marito di zia Tera, poi cameriera o come diceva lei serventa, e da quando era così vecchia che non riusciva più nemmeno a camminare dritta abitava in una stanza nel cortile col cesso sotto la scala che portava al primo piano, l'acqua della pompa e la cucina economica per farsi un brodino e il caffè la mattina. Tutto il resto glielo portava zia Tera dalla sua cucina.
"Mangia come un caporale, quella lì" diceva la zia.
"Giusto un boccone di carne la domenica e un po' di cavolo lesso per andare di corpo" ribatteva Danda.
Stavano sempre a pitoccarsi come due galline. Io tenevo per Danda, naturalmente.
Vittorio e Carletto, i miei cugini, dicevano che quelle due erano come fidanzati, sempre a bisticciare e cercarsi tutto il giorno.
"Mamma Toni me toca, tocame Toni che mamma non vede" diceva Vittorio.
A me Danda piaceva perché mi dava sempre retta. Mai che mi dicesse 'vai a giocare che mi stai tra i piedi', mai che leggesse il giornale o avesse mal di testa. Mi trattava come un grande, mi chiedeva come stavo, che cosa avevo fatto. Mi offriva acqua e zucchero o acqua e vino in cui bagnare certi biscottini al finocchio duri come sassi. Si grattava in testa con un ferro da calza e mi guardava con i suoi occhi scoloriti:
"Allora, cosa succede a Torino?"
"E' arrivata la primavera, in tutti i viali ci sono gli ippocastani fioriti."
"Ti sembra una gran novità? Qui la primavera è arrivata da due mesi."
Guardavo il bicchiere pieno di violette davanti alla foto di suo marito Bastiano e mi sentivo mortificata.
"Sono andata al cinema a vedere 'Via col vento'. Ho pianto tanto."
"C'è bisogno di andare al cinema a vedere tutti quei balenghi che si baciano e poi si prendono a schiaffi e si strozzano? Se ti piace piangere ti racconto di quando a sedici anni andavo a fare la mondina a Vercelli, tutta sola e fresca come una pasta di meliga uscita dal forno."
"Contami."
Probabilmente ai miei genitori non sarebbe piaciuto quello che mi contava Danda. Io non capivo proprio tutto, ma non ne avevo mai abbastanza.
"Dimmi ancora di tua figlia Celestina."
"Riposi in pace, povera anima. Era così bella nella sua bara piena di gigli bianchi."
Quella era una storia che non mi stancava mai. Celestina era morta a sette anni per avere mangiato troppi darmassin con i noccioli. Le era venuta la diarrea, poi aveva vomitato sangue e noccioli, poi era morta, così, senza fiatare.
Ma la specialità di Danda era leggere il futuro nei tarocchi e nei fondi di caffè. Che disponesse le carte molto vissute sul tavolo coperto da una tovaglia rossa o versasse la tazza sul piattino di terraglia bianca, la sua faccia assumeva un'espressione concentrata, le rughe si disponevano secondo una planimetria arcana, gli occhi perdevano l'acquosità, la bocca si stringeva in un filo bianco di concentrazione.
"Ben, ben, che cosa vedo qua? Sei ben fortunata te. Le anime ti proteggono."
"Che anime, Danda?"
"Le anime buonanima. Non fare domande finché non te lo dico io. Ciai una donna bionda che ti vuole bene. Tre lettere il mese prossimo. Ti piace cantare? Perché c'è qualcosa che va bene sulla voce, sulla gola, non vedo bene. Magari diventi una grande cantante."
Una cantante! Proprio quello che desideravo di più al mondo. Però Danda mi smontava subito.
"Oppure vuol dire che quest'inverno non ti viene mal di gola. E di intestino, come vai?"
"Ma, mi pare bene."
"Infatti c'è una carta positiva sulla pancia. Fai attenzione ai cavalli, non passare mai dietro a un cavallo o a un asino. Vedo dei calci."
Io invece non avevo mai visto un cavallo da vicino.
"Vedi questa macchia qui? Son soldi. Ti arriveranno un sacco di soldi."
Chi se ne fregava dei soldi! Io volevo diventare una cantante rock.
E poi, sapeva storie belle di masche e diavoli scatenati.
"Mia zia che era suora, una notte si è svegliata che nel letto c'era qualcuno, gelato, ma gelato che neanche un morto di tre giorni. Lei ha sporto la mano, l'ha toccato un po' e ha capito che era il diavolo. Tre giaculatorie, tre segni di croce e psss! Quello è sparito lasciandosi dietro una puzza di zolfo da far venire la tosse."
"Ma davvero davvero, Danda?"
"Eh se ti dico che mia zia era suora! Le suore mica dicono le bugie."
Quando raccontai del diavolo nel letto ai miei genitori, prima risero talmente che gli andò la saliva per traverso, poi mi sgridarono come se avessi detto qualcosa di sconveniente e mi proibirono di passare tanto tempo con Danda. Per fortuna se ne dimenticarono subito.
"Se di notte un cane ti abbaia o una capra ti corre dietro, soprattutto su un ponte che sono pericolosissimi, devi tirargli delle pietre mirando alle gambe. Il giorno dopo, se vedi una donna che zoppica, saprai che è una masca."
Non avevo mai sentito di nessuno che fosse stato inseguito da una capra, né di giorno né di notte, ma dei cani sconosciuti avevo una gran paura. Non ero sicura che avrei avuto il coraggio di fermarmi per tirare pietre, pensavo piuttosto che sarei scappata più presto che potevo.
"Non devi mai scappare! Se scappi ti acchiappano, c'è niente da fare. Le masche corrono più del vento, son furbe loro, sanno la fisica. Se ti vedono impaurita aam! Ti mangiano in un boccone."
Deliziosi brividi di paura mi correvano per la schiena, guardavo con sospetto negli angoli bui dietro la stufa.
"Qui sei sicura, stai tranquilla. Ha ancora da nascere il satanasso che la possa fare a Danda! Dai, bevi un po' di acqua e vino che ti fa venire grande."
Poi la zia Tera venne a vivere in città e Danda rimase a fare la guardia alla casa. Io le mandavo i saluti dai cugini, qualche cartolina dal mare. Un paio di volte, d'estate, tornai al paese e rimasi nell'odore di chiuso della cucina ad ascoltare storie. Danda era sempre più vecchia, anche se pareva impossibile. Le gonfiavano le gambe, certe volte si addormentava proprio in mezzo a una frase, ma era lucida, mica rimbambita.
Infine morì. Vittorio mi portò una scatola di latta, di quelle per la cotognata, con un'etichetta scritta a mano che portava il mio nome, nome e cognome, senza possibilità d'equivoco.
"Ha detto che ti voleva lasciare questo perché sei sempre stata ad ascoltarla."
Dentro c'era un anello del tipo che portano gli uomini in campagna, in una lega povera con una pietra finta, rosso vivo, e gli orecchini d'oro che avevo sempre visti annegati nei lobi grassi di Danda.
"Come avete fatto a toglierglieli?"
Vittorio si strinse nelle spalle.
"Io non c'ero mica."
Chiusi la scatola e gliela porsi.
"Non la voglio. Dalla a qualche parente."
"Non ci sono parenti. Poi è per te, non puoi rifiutarla. Perché vuoi essere così cafona con una morta?"
Mi venne una rabbia furiosa. Non volevo regali da Danda, non volevo esserle riconoscente, non volevo essere costretta a custodire le sue memorie. Non volevo dover pensare ai suoi denti finti con tenerezza.
Buttai la scatola in fondo a un cassetto, nascosta sotto una pila di vecchi fazzoletti che non usavo, e cercai di dimenticarla.
Ci riuscii benissimo. In un trasloco la persi, o forse no, chi si ricorda? Non ha nessuna importanza.
Per questo, ora, qui, scrivo di Danda. Per dimostrarle che mi ricordo le storie e le puzze anche se non ho mai portato i suoi orecchini.
Per farle sapere che sono diventata una cantante rock e nessun cavallo mi ha mai presa a calci.
Che delizia di racconto Consolata! Non so dire altro: che delizia. Leggerti non mi stanca mai, sul serio.
RispondiEliminaGrazie!
@Fumetti di Carta (Orlando Furioso)
RispondiEliminaGrazie e stragrazie che trovi il tempo di leggermi e mi dici cose gentili, carissimo Orlando, soprattutto di questi tempi che scrivere sembra un’attIvità così superflua... davvero di cuore!
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaGrazie a te Consolata, che ci regali questi racconti meravigliosi, tutt'altro che superflui e che non mi stanco mai di leggere :)
RispondiEliminaTi abbraccio forte!
Orly 😍😍😍
RispondiEliminaOrly 😍😍😍
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