---------------------------------------------------------------Il lungo resoconto di un viaggio di trentadue anni fa, che non ricordavo neppure di avere scritto, così come non ricordavo di avere fatto molte foto. La medesima strada (chiamata Friendship Road, costruita e regalata ai nepalesi dai cinesi) fino al confine con la Cina e ritorno, una gita in giornata, l'avevo fatta in pullman la prima volta che ero stata a Kathmandu, nel 1977, quando era nuova e perfettamente agibile.
DA KATHMANDU A LHASA VIA TERRA
Dopo una decina di giorni passati a
Kathmandu in relativa inattività, in attesa che si formasse
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Davanti al Potala (dal People's Park) |
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un gruppo
sufficiente di persone per poter avere il visto cumulativo per la Cina e per
organizzare il viaggio, ero veramente impaziente di mettermi in strada per
percorrere i 953 chilometri che separano la capitale del Nepal da Lhasa. Si
sapeva che vi erano frane lungo la strada, ma era impossibile capire, dalle
informazione discordanti che davano le agenzie, quanti chilometri si dovevano
percorrere a piedi. All'agenzia dove, unica del gruppo con cui sarei partita,
mi ero rivolta, qualcuno sosteneva che si sarebbe dovuto camminare per un paio
d'ore, altri si tenevano più sul vago.
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Kathmandu |
Nemmeno alla riunione con gli altri
partecipanti che si svolse qualche giorno prima di partire, riuscii ad avere
informazioni più precise, e più tardi capii anche perché: prima di tutto le
frane erano in continuo movimento ed era impossibile dire da un giorno
all'altro quali parti della strada fossero ancora percorribili; secondo,
probabilmente se avessimo saputo la verità, ben pochi dei componenti del gruppo
sarebbero partiti. Così, dopo aver bevuto un'aranciata tiepida gentilmente
offerta dall'agenzia, lasciai la riunione ancora all'oscuro di quello che mi
aspettava. Comprai diligentemente il cibo che mi era stato consigliato ai Cold
Stores, che sono ben forniti: zucchero, nescafè in bustine, formaggio,
scatolette di paté, crackers e biscotti; mi comprai un paio di scarpe da
ginnastica dell'esercito cinese, di tela verde, alte alla caviglia e con la
suola di gomma, un bicchierino di plastica, cucchiaio e forchetta, e preparai
il bagaglio sperando in bene. Un pomeriggio lo trascorsi battendo tutto il
bazar alla ricerca di foto a colori del Dalai Lama, che sapevo preziose per i
tibetani. Dai viaggiatori più cinici e profittatori avevo sentito storie di
anziani monaci indotti a concedere
accesso alle parti proibite dei monasteri, permessi di fotografare eccetera in
cambio di una sola, ambitissima fotografia. La partenza era fissata per il 10
agosto 1988.
L'appuntamento era alle sette di mattina
alla Kathmandu Guest House, da cui la mia più
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Mobile Public Toilet, Khatmandu |
modesta guest house distava forse
trecento metri. Ci avevano raccomandato di essere puntuali, perché si contava
di arrivare in giornata al confine per pernottare a Zangmu, il primo villaggio
raggiungibile in territorio tibetano. L'agenzia aveva promesso di mandarmi una
macchina per accompagnarmi fino alla Kathmandu Guest House, e anche se la cosa
mi sembrava un po' esagerata, avevo accettato volentieri. Alle sette meno
cinque la macchina non si vedeva ancora, per cui mi incamminai col mio zaino
pieno di provviste, sguazzando con le scarpe da ginnastica cinesi nel fango
della strada - come tutte le notti, aveva piovuto tantissimo e la strada era un
pantano. Quando girai nella stradina privata che portava alla guest house
sentii dietro di me un rumore - era la macchina che mi avrebbe dovuto
accompagnare. Ringraziai l'autista e mi risparmiai una mancia. Nel cortile
della KGH c'era un pulmino parcheggiato, ma non si vedeva anima viva. Erano le
sette e un quarto. Entrai nella sala del ristorante e trovai tutti i miei
compagni di viaggio che facevano colazione, distribuiti in vari tavoli a
seconda delle nazionalità e delle formazioni di gruppo. Mi sedetti anch'io a
prendere un caffè; verso le sette e mezzo fummo convogliati sul pulmino, e dopo
un quarto d'ora destinato a caricare i bagagli finalmente partimmo. Faceva
ancora fresco, ma la giornata si annunciava soleggiata.
Mi accorsi subito con un certo
rincrescimento di essere l'unica a parlare una ligua neolatina. C'era un
gruppo di inglesi, composto da una capogruppo con fidanzato (che doveva
accompagnarci solo fino al confine), una coppia riservata di mezz'età, due
ragazze di cui una simpatica obesa e una biondina altezzosa in shorts inguinali
lucidi, e infine due amici, uno stempiato e silenzioso e uno scozzese
giovialone che da quando mise piede sul pullman si sentì in dovere di divertire
la compagnia con un fuoco di fila di battute. Siccome il mio inglese non è
all'altezza delle battute di uno scozzese, questo mi prese subito in antipatia
perché non ridevo mai, anche se poi mi rivelai in grado di sostenere una
conversazione nella sua lingua. Eppure giuro che avrei voluto essere capace di
ridere anch'io! Semplicemente, non capivo una parola di quello che diceva (e mi
era anche antipatico, come tutti gli esibizionisti di qualunque lingua). Questo
gruppo doveva proseguire da Lhasa per la Cina, per poi passare in Pakistan e
ripartire di lì per l'Inghilterra. Poi c'erano due ragazze tedesche sulla
trentina, con scarponi di cuoio e l'aria simpatica; un signore tedesco sulla
sessantina che non parlava una parola in nessuna lingua oltre la sua; un
australiano belloccio e arrogante; un giapponese giovanissimo che parlava solo
giapponese; una olandese con lunghi denti e l'aria molto cordiale; e io. La
compagnia non mi parve delle più appetitose. Le guide nepalesi erano due
ragazzetti sui vent'anni, che dovevano accompagnarci fino al confine, dove ci
avrebbero preso in consegna delle guide cinesi.
Fin dai primi chilometri la conversazione
si fece generale, con l'esclusione del giapponese, dell'anziano tedesco, e di
me. L'olandese tenne banco raccontando che prima di arrivare in Nepal aveva
fatto quindici giorni su una barca alle Maldive; lo spunto per raccontare la
sua impresa fu dato dalla maglietta che portava, su cui campeggiava l'inequivocabile
scritta "Maldives". Capii fin da quel primo momento che poteva anche
aver l'aria cordiale, ma era una gran rompiscatole. Parlava un inglese perfetto
e scioltissimo, come anche una delle due ragazze tedesche; l'altra invece non
lo parlava quasi. Tutti facevano grandi sorrisi al giapponese, ma a me nessuno
rivolgeva la parola, cosa che mi era di grande sollievo.
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Kathmandu |
Attraversammo Kathmandu ancora
addormentata, almeno per quel che riguardava i turisti: gli abitanti
cominciavano ad affollare le strade, con carichi per lo più misteriosi, diretti
verso le zone di mercato, a piedi, in bicicletta o su carretti trainati da
buoi. Appena fummo fuori dal centro, in una zona semirurale, il pulmino si
fermò. "Very sorry" dissero le guide. Il nostro mezzo di locomozione
era rotto.
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Prima sosta |
Scendemmo tutti, mentre si radunava una
piccola folla di bambini di ottimo umore e di adulti pieni di buone intenzioni.
Cinque o sei persone si stesero sotto il pullman, alcuni dei passeggeri si
disseminarono nella vegetazione già folta che ci circondava per compiere i
primi doveri mattutini, io trovai un tea-stall in cui rifugiarmi. La situazione
sembrava seria, ma era sicuramente interessante visto il gran numero di persone
che partecipavano alle nostre vicissitudini. I maschi del gruppo si unirono a
quelli che alternativamente si introducevano strisciando sotto al pulmino per
poi emergerne scuotendo la testa. Io ebbi tutto il tempo di ritirarmi a mia
volta tra i cespugli, non ripartimmo prima di un'ora. Non so quale fosse il problema,
non provai nemmeno a informarmi. Chiaramente era una questione per soli uomini,
non volevo essere indiscreta.
Finalmente ci muovemmo. Avevo già percorso
quella strada nel 1977, e allora, in giornata ero arrivata e tornata dal
Friendship Bridge, il ponte costruito dai cinesi a Kodari, una estremità del
quale è nepalese e l'altra cinese. Il paesaggio era lo stesso: vallate
stupende, di vegetazione splendida, nelle quali ananas e banani crescevano a
un'altitudine in cui dalle nostre parti cominciano i pascoli. Anche i villaggi
erano gli stessi, baracche di legno lungo i bordi della strada, con pavimenti
di terra battuta, in cui si beve tè in bicchieri di vetro spesso; bambini
scalzi esultanti al passaggio di qualunque mezzo di locomozione, scorci bellissimi
di risaie a terrazze e case intonacate di rosso con i tetti scuri di paglia in
mezzo al verde brillante. Ma non tutto era come undici anni prima. A
mezzogiorno il pulmino si fermò. "Very sorry" dissero di nuovo le
guide nepalesi, e finalmente sapemmo come stavano le cose. Sessanta chilometri
di strada erano stati spazzati via dal fiume. C'era tempo per uno spuntino, e
poi bisognava camminare.
La prima frana era vicinissima, ma non si
vedeva, perché era dietro una curva. Non si poteva
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Traffico in strada |
attraversarla, bisognava
aggirarla dall'alto. Cominciammo la salita attraverso un bucolico paesaggio di
risaie a terrazze, in cui non c'era sentiero, ma si camminava lungo l'orlo
esterno cercando di non cadere nell'acqua, anche perché i contadini che
incontravamo per strada non avevano affatto l'aria di fidarsi di noi, e
sorvegliavano ogni nostro passo in silenzio. La salita era molto ripida e il
caldo tremendo, visto che avevamo cominciato a salire proprio verso le due del
pomeriggio. Le due ore trascorse
dall'arrivo erano state impiegate in un'attività molto rumorosa e interessante:
la scelta dei portatori. Decine di uomini e ragazzi vestiti con una giacca
stretta alla vita e a gambe e piedi nudi si erano contesi a lungo l'onore di
trasportare i nostri zaini. Le due guide nepalesi, che conducevano le
trattative, si erano divertite a gridare e contrattare con tutte le loro forze,
mentre i componenti del gruppo avevano consumato un pasto sotto una tettoia che
fungeva da ristorante (e le conseguenze si fecero notare dopo poche ore) o più
prudentemente, come me, avevano bevuto un tè. Per cui la salita era faticosa,
ma per fortuna non dovevamo portare bagagli. Ogni tanto avevamo la visuale dei
nostri zaini fortunosamente agganciati alle cinghie che i portatori tenevano attorno
alla fronte, due o tre ciascuno, oscillanti su precipizi e fiumi fangosi, ma
quel tanto di fede nella magia che l'educazione occidentale ci aveva lasciata
faceva sì che fossimo tutti fiduciosi di ritrovare i nostri spazzolini da denti
e le nostre lenzuola alla prossima tappa.
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Frana sulla strada di Kodari |
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La salita fu massacrante, dritta come una
funivia. L'inglese in short, Paula, camminava spedita davanti a tutti, ma la
sua amica obesa si sentì male e rimase indietro, affidata alle cure di un
gentile ragazzo nepalese che non era stato scelto tra i portatori ma ci seguiva
comunque con alcuni altri, che si rivelarono ben presto molto utili. La
poveretta, vicina a scoppiare per il caldo e la fatica, divenne un puntino
paonazzo sempre più piccolo e infine sparì dietro a una svolta del sentiero.
Non mi parve vero quando arrivammo in cima alla salita e vedemmo sotto di noi
un bel pendio scosceso che finiva per costeggiare un torrente fangoso. Subito
dopo, il sentiero raggiungeva la carrozzabile e ci trovammo a camminare in
piano, su di una strada sassosa e fangosa, ma pur sempre in piano.
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Frana |
Dopo qualche chilometro sulla
carrozzabile, trovammo un camion che era rimasto bloccato tra due frane e
raccoglieva viandanti per trasportarli a pagamento. Essendo sola, feci fatica a
salire sul cassone già strapieno di nepalesi, cassette di bibite, e membri del
mio gruppo, e così mi trovai a fare il viaggio in piedi in bilico sull'orlo
esterno, precariamente attaccata a una catena che pendeva a un lato del camion.
La strada era quasi del tutto franata, e si procedeva sull'orlo di un burrone
che dava direttamente sul fiume. Non mi vergogno di dire che feci tutto il
tragitto a occhi chiusi. Avrei preferito mille volte camminare piuttosto che
vedere continuamente la terra e la ghiaia che franavano sotto le ruote esterne.
Non ricordo niente del paesaggio di quel tratto di strada; ricordo solo che mi
chiedevo quale stupida incoscienza mi avesse fatto abbandonare il confortevole
fango di Kathmandu per imbarcarmi in quella impresa insensata.
Più tardi, camminammo ancora, sotto la
pioggia, per qualche chilometro. La valle era bellissima; la vegetazione era
rigogliosa, tropicale, malgrado fossimo ormai vicini ai duemila metri. Il fiume
gonfio e marrone scorreva profondamente incassato, formando di tanto in tanto
spiaggette di sabbia gialla intorno a qualche masso levigato, mentre sui pendii
scoscesi ai due lati alti bambù si alternavano a risaie verdissime. Lungo la
strada si incontravano numerosi nepalesi e tibetani che camminavano carichi, e
incrociammo anche un gruppo di turisti tedeschi dall'aria distrutta,
provenienti dal Tibet, che ci dissero che la strada era impraticabile fino a
Zangmu, il primo villaggio tibetano, a qualche ora dalla frontiera, togliendoci
le ultime illusioni. Trovammo ancora un taxi bloccato tra due frane che ci
trasportò per qualche chilometro; anche questo tratto fu molto spiacevole, sia
per la guida che per la strada, e il pezzo più sgradevole fu l'attraversata di
un ponte in cemento di cui rimaneva solo il lato destro, mentre tutta la parte
sinistra era crollata, e in qualche punto lo spazio era molto più ristretto di
quello richiesto dalle quattro ruote di un'automobile. Ma arrivammo sani e
salvi fino alla prossima frana.
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Ponte dimezzato |
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Tatopani |
Ormai era quasi buio e pioveva forte. Per
raggiungere il villaggio di Tatopani, in cui dovevamo trascorrere la notte,
bisognava passare un'ultima imponente frana, ancora in movimento. Non era
rassicurante camminare nel buio sentendo sotto di sé i massi che rotolavano nel
fiume. La terra era scivolosa sotto i piedi e la pioggia peggiorava le cose.
Quando giungemmo, in ordine sparso, a Tatopani, la sensazione generale era di
sollievo, ma l'aspetto del villaggio non era invitante. La cosa più notevole
del luogo era sicuramente il fatto che fosse letteralmente costruito su di uno
spesso strato di immondizie. Le strade erano pavimentate di immondizie, l'acqua
vi scorreva allegramente sopra, nei rigagnoli ai lati stagnavano entrambi,
tutto il paese era solo questo: acqua e immondizia. Le nostre guide sembravano
molto preoccupate, le locande erano tutte piene di gente che percorreva la
strada a piedi con noi, pareva impossibile trovare un posto per dormire. Infine
fummo convogliati in una locanda che si chiamava, incongruamente, Milan. Fuori
della porta, nel fango, sotto la pioggia battente, stavano ammucchiati i nostri
bagagli: e questa fu, tutto sommato, una consolazione.
La locanda (Hotel Milan, era scritto
sull'insegna) fu un tuffo nel medioevo. Al piano terreno
|
L'Hotel Milan di Tatopani |
c'era una cucina, con
tavoli di legno, in cui chi voleva poté consumare un pasto di riso e curry; io
mangiai un po' di pane e formaggio che mi ero portata, con parecchi bicchieri
di tè, dei quali mi pentii più tardi. Naturalmente non c'era luce elettrica in
tutto il villaggio; in cucina però c'erano delle lucerne a petrolio. Al piano
superiore vi era uno stanzone con due file di tavolacci di legno, alcuni
forniti di materasso e trapunta, altri no. Qui non c'erano né lanterne né
candele; si vedevano pile e accendini aggirarsi nel buio, nel tentativo di non
finire in un letto già occupato. Io mi infilai proprio in fondo, dove un locale
più piccolo ospitava solo un paio di tavolacci, ma presto giunsero Sophie e il suo fidanzato, che con un'occhiata
significativa mi fecero capire che la mia presenza non era gradita. Tornai
nello stanzone; non avevo sacco a pelo, ma solo lenzuola, per cui mi appropriai
di un materasso e di una trapunta e mi feci un letto confortevole accanto
all'inglese stempiato, che guardò con invidia la mia pila per leggere. Il momento
più difficile giunse quando il tè cominciò a fare il suo effetto naturale. A
parte il fatto che al primo piano si accedeva da un ripidissima scala a pioli,
alla richiesta di un gabinetto fummo convogliati nel cortile, che dava
direttamente sul fiume, con uno strapiombo, buio e scivoloso; in basso si
sentiva il rombo poco rassicurante delle acque infuriate. Il gabinetto era una
specie di gabbiotto di legno, la cui entrata era schermata da quel che restava
di una tenda di sacco, a metà strada tra lo spiazzo fuori della cucina e il
fiume stesso; vi si accedeva per un sentiero diritto, disseminato di rocce su
cui bisognava sedersi per calarsi in basso a forza di braccia. Dopo che mi fui
resa conto di come si presentavano le cose, non ebbi scrupoli a servirmi dello
spiazzo della cucina per le mie necessità, non volendo rischiare la vita per
pudore, tanto più che la pioggia continuava a cadere violenta. Ma una delle due
simpatiche tedesche, che aveva mangiato a mezzogiorno, durante la sosta,
qualche specialità locale, fu colpita da un malessere ben noto ai viaggiatori;
e la poverina passò la notte tra frequenti gite al gabbiotto, senza pila per
paura di disturbare i compagni di camerata, rischiando più volte di morire
sulle scale e ancora più di finire nel fiume senza che nessuno se ne
accorgesse. Tra la minaccia delle frane dalla montagna incombente da una parte,
e il fatto che la baracca di legno in cui stavamo sembrava pronta a crollare
nel fiume da un momento all'altro, la notte si annunciava difficile; ma io ero
così stanca che dormii benissimo, e mi svegliai di ottimo umore. Scoprii più
tardi che vicino al paese c'erano delle sorgenti calde, dove Paula, Sophie e
altri erano andati a bagnarsi la mattina presto; ma siccome nessuno mi parlava,
non ero stata informata. Mi dispiacque, perché un bagno mi avrebbe fatto
piacere e ne avevo bisogno.
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La scelta dei portatori |
La giornata era bellissima, e dopo aver
fatto colazione ricominciò la cerimonia della scelta dei portatori. Mi sarebbe
piaciuto sapere che ne era stato di quelli che ci avevano accompagnato il
giorno precedente, visto che era impensabile che fossero tornati al buio e
sotto la pioggia al loro villaggio; d'altra parte, a Tatopani non c'era più un
buco in cui avrebbero potuto dormire. Chiesi loro notizie alle nostre guide nepalesi,
ma non riuscii ad avere nessuna risposta (parlavano un inglese molto sommario)
se non che probabilmente avevano degli amici lungo la strada che li avevano
ospitati per la notte. Cercai di non pensarci e mi dedicai ad ammirare lo
splendore mattutino dell'immondizia che formava le fondamenta del villaggio. La
tedesca con la diarrea aveva una faccia terribile e si trascinava a stento.
Partimmo con un sole splendido, anche se l'aria era fresca e frizzante; la
strada all'inizio era in piano e si snodava tra foreste suggestive, lungo il
fiume rabbioso.
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Big danger |
Ben presto però le difficoltà
ricominciarono. La strada era di nuovo stata spazzata via da una frana, solo
che questa volta era impossibile risalire il pendio, troppo scosceso e coperto
di vegetazione impraticabile. Non c'era altra soluzione che scendere fino al
fiume e guadare il tratto in cui la strada mancava. Fu un'impresa veramente
ardua. Non c'era sentiero e bisognava scendere in mezzo agli alberi, su un
tratto di terreno praticamente verticale, scivoloso e privo di appigli. Un
ragazzino molto volonteroso e gentile si impossessò di me e del piccolo zaino
che utilizzavo al posto della borsa; era utile e mi teneva per mano indicandomi
dove mettere i piedi volta per volta, ma ripeteva continuamente "Big
danger" con voce preoccupata, il che mi agitava un po'. Infine
raggiungemmo il greto del fiume, costituito da grossi massi lisci che dovevamo
scalare a pancia in giù, strisciando come rospi, per poi scendere dalla parte
opposta scivolando sul sedere. Incontrammo un torrente che affluiva nel fiume,
e naturalmente non c'era nessun ponte: dovemmo attraversarlo a guado, entrando
nell'acqua fino alla vita. Io non volli togliermi le scarpe perché il fondo era
coperto di ciottoli e la corrente era forte, e avevo paura di scivolare e
ferirmi ai piedi. Il mio piccolo accompagnatore mi fu di grande aiuto anche in
questa situazione.
La risalita fu più agevole, e la strada
fino a Kodari, il villaggio di confine, tutta in piano, quindi il nostro morale
si risollevò, anche se non era divertente camminare con delle scarpe da
ginnastica piene d'acqua e bagnati fino alla vita. Prima di Kodari dovemmo
attraversare ancora una grossa frana in movimento, ma potemmo farlo senza dover
scendere al fiume o risalire la montagna. Sulla strada d'ingresso al villaggio
un gruppo di giovani nepalesi stava bruciando il pelo di una mucca morta prima
di scuoiarla, e si divertirono molto a vederci passare, infangati e bagnati
come eravamo.
Al villaggio ci fermammo una mezz'ora, per
asciugarci, prendere un tè e riempire le schede da consegnare alla frontiera.
L'anziano tedesco non si accorse della nostra sosta, proseguì e attraversò il
primo posto di frontiera da solo, senza farsi timbrare il passaporto, e iniziò
l'ultimo e peggiore tratto di salita da solo. Il resto del gruppo attraversò
insieme il Friendship Bridge, costruito dai cinesi dopo l'invasione del Tibet,
che ha un capo in Nepal e uno in Cina; i soldati cinesi si limitarono a
metterci un timbro sul passaporto, tanto il vero posto di frontiera era molto
più in alto, nel villaggio tibetano di Zangmu.
Il mio angelo custode della mattina era
scomparso dopo che gli avevo dato una mancia di
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Una carovana di yak |
venti rupie, ma me ne trovai
ben presto al fianco un altro altrettanto solerte e prodigo di "Big
danger". Aveva quindici anni e sapeva qualche parola d'inglese; veramente
io gli avrei dato al massimo dieci anni, ma devo fidarmi di quello che mi
disse. Mi raccontò anche che aveva frequentato per alcuni anni la scuola a
Zangmu e tutti i giorni faceva il tratto tra Zangmu e Kodari, il che, anche
quando la strada era ancora in funzione, voleva dire alcune ore di marcia. Non
capii perché un ragazzo nepalese frequentava una scuola tibetana, il gap
linguistico era troppo forte per sviscerare questo tipo di questioni. Durante
la sosta a Kodari avevo anche fatto un po' di conversazione con l'amico dello
scozzese burlone, mentre me ne stavo a piedi nudi per fare asciugare scarpe e
calze vicino a un ruscello gelido in cui alcuni coraggiosi nepalesi si insaponavano
vigorosamente. Questo inglese mi aveva parlato normalmente, senza aver l'aria
stupita che un'italiana se ne andasse in giro per il mondo da sola, senza lo
scialle nero sulla testa né un vasetto di basilico sotto il braccio, e senza
neppure cantare "O sole mio" durante la marcia. Perciò durante
l'ultima e più dura salita (tra Kodari e Zangmu c'erano almeno cinquecento
metri di dislivello) ebbi qualcuno con cui scambiare due parole, e se la cosa
mi tolse un po' di fiato, d'altra parte mi migliorò il morale.
La salita era abbastanza tremenda. Neanche
qui c'era un sentiero e bisognava arrampicarsi tra radici giganti, massi
scivolosi e letti di torrenti non tanto in secca. Passammo anche un paio di
frane in movimento che erano quello che mi faceva più paura. Il ragazzino
nepalese mi precedeva dandomi la mano e indicandomi passo per passo dove dovevo
mettere i piedi. A metà salita incontrammo il tedesco che arrivato a Zangmu era
stato rispedito a Kodari a farsi timbrare il passaporto, e dal colore paonazzo
della sua faccia ebbi paura che non l'avrei più visto. Invece, la sera ci
raggiunse in albergo.
La ragazza tedesca malata aveva assoldato
un portatore perché la trasportasse sulla schiena per tutta la salita, ma
questi rinunciò all'impresa dopo pochi metri, per cui la poverina fu costretta
a fare tutta la strada sulle sue gambe, con frequenti soste, ma senza aiuto.
Anche lei ci raggiunse piuttosto tardi in albergo. L'inglese obesa si era
ripresa benissimo, e da quel momento in poi non ebbe più problemi.
La salita mi sembrò eterna, e feci fatica
ad apprezzare il panorama incredibile che ci si stendeva davanti man mano che
salivamo, abbandonando in basso la valle e il fiume marrone. Sul pendio opposto
c'erano ancora risaie e case di contadini nepalesi, con le loro pareti rosse e
i tetti scuri di paglia, boschi di bambù e alberi altissimi. Non so che cosa ci
fosse sul pendio che stavamo scalando. Io vedevo solo tronchi e radici e massi.
Quando infine raggiungemmo quello che restava della carrozzabile e arrivammo in
vista di Zangmu, non ero più in grado di apprezzare il paesaggio. Sulla strada,
il nostro gruppo camminava in ordine sparsissimo, con Sophie, la guida inglese,
e Paula alla testa; la coppia inglese (la cui metà femminile cominciava ad
accusare i sintomi dello stesso malessere che aveva colpito la tedesca) era
alla retromarcia, insieme alla ragazza grassa, che si chiamava Christine. Io mi
ero attenuta su di una posizione onorevolissima, a metà; le due tedesche e il
tedesco anziano non si vedevano da nessuna parte. In questa occasione mi
meritai un gradevole complimento dallo scozzese, che mi rivolse per la prima
volta la parola per dirmi che, anche se avevo le gambe corte, mi arrampicavo
bene; al che risposi modestamente che al mio paese d'origine abitavo molto
vicina alle Alpi e al Monte Bianco.
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Orrido di Zangmu |
Prima di arrivare al grosso villaggio di
Zangmu, che si stendeva in file parallele di case a mezza costa, passammo su di
un orrido molto suggestivo, verso l'alto
scavato tanto profondamente nella roccia che non se ne vedeva il fondo, mentre
verso il basso dava origine a una ruggente cascata. Il posto di frontiera era
una baracca vicino a un arco accanto al quale stazionavano alcuni soldati
cinesi. Le formalità non furono né lunghe né noiose, ma siccome avevamo un
visto cumulativo dovemmo aspettare che arrivassero tutti prima di poterci
riposare nell'albergo che si vedeva sorgere a pochi metri dall'arco di ingresso
in Tibet. Era un edificio moderno, brutto e grandissimo, costruito sul pendio
in modo che si entrava dall'ultimo piano e tutte le stanze erano più in basso.
La vista sulla valle era spettacolosa. Le camere erano abbastanza confortevoli,
anche se le lenzuola erano sporche e non c'era acqua calda, cosa
particolarmente sgradevole perché avevamo raggiunto i duemilacinquecento metri
e una doccia fredda non era l'ideale per rilassarsi dopo le fatiche della
giornata. L'antipatica Sophie, separata ormai dal suo fidanzato cui i severi
soldati cinesi non avevano permesso di accompagnarci all'albergo nemmeno per
una birra (e che se ne era quindi ripartito per Kodari con aria depressa) aveva
distribuito le chiavi delle stanze e aveva sistemato me, l'olandese e le due
tedesche nella stessa stanza, che risultava piuttosto affollata. C'erano solo
tre letti e una branda, e a me toccò la branda. La tedesca ammalata, Gunda, si
infilò nel letto dove rimase fino alla mattina dopo, tranne che per le
frequenti passeggiate in bagno. I letti avevano trapunte infilate in fodere di
raso colorato con un buco in centro e l'aria piuttosto sospetta, ma eravamo
tutte provviste di lenzuola. C'era una specie di veranda affacciata sulla valle
a strapiombo in cui trovammo un thermos pieno di acqua calda, con cui potemmo
farci un tè. Ma la giornata non era ancora finita; dovemmo rimetterci subito in
movimento per raggiungere la banca e cambiare un po' di denaro. Fu un'altra
salita, ma una passeggiatina in confronto alle precedenti esperienze; passando
per le strade che erano piuttosto dei torrenti fangosi, sbirciammo nelle case
tibetane, piccole e misere, che le costeggiavano. Comunque, il paese, essendo
di frontiera, aveva caratteri molto misti e la popolazione sembrava per metà
nepalese. I cinesi si vedevano solo alla banca e in albergo. Le costruzioni,
misere e precarie com'erano, sembravano però tutte recenti; probabilmente il
villaggio non esisteva o non aveva alcuna importanza prima della costruzione
del ponte. Consumammo la cena in albergo, una cena cinese abbondante e variata.
Fu l'unico pasto completo e di cucina locale (diciamo così) che riuscii a
consumare in Tibet. Dopo cena, sarebbe stato ampiamente il momento di andare a
dormire; ma siccome in tutto il territorio cinese vige l'ora di Pechino, che si
trova molto più a est, avevamo perduto ben due ore e mezzo nel passare la frontiera,
e anche se gli orologi ci dicevano che erano le nove, fuori il cielo era ancora
chiaro e il sole illuminava il pendio opposto, per cui ci attardammo ancora una
mezz'oretta nella cavernosa hall dell'albergo, in cui giovani arroganti cinesi,
con grossi stereo all'orecchio e vistosi orologi al quarzo con decine di
pulsanti al braccio, ciondolavano sui divani sfondati ridendo e guardandoci
senza simpatia. C'era anche una saletta buia con separés in cui forse si
vendevano alcolici, ma non mi ci avventurai. Andai a dormire col sole.
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Xedar Dzong |
Non ricordo in quale momento le nostre
guide nepalesi ci avevano abbandonato, ma la mattina dopo la scelta dei
portatori fu fatta da Sophie e Paula, con un'arroganza e un piglio coloniale
che erano veramente insopportabili, soprattutto da parte di Paula con i suoi
shorts assolutamente ingiustificati dal freschetto e dalla nebbia che si
vedevano fuori dalle porte dell'albergo. I portatori tibetani erano assai più
scalcinati e insistenti di quelli nepalesi, e intervenne anche qualche soldato
per tenerli fuori dalla hall. Alcuni avevano facce che facevano veramente un
po' paura, ma poi si allargavano in sorrisi allegri e dolcissimi.
Quando cominciammo l'ultimo pezzo di
salita per raggiungere le jeep che ci avrebbero trasportati per il resto del
viaggio, bloccate molto sopra Zangmu dalle ultime frane, pioveva e il pendio
opposto era coperto di nebbia che si stracciava lentamente in nastri e scialli
attaccati alla foresta di bambù. La prima parte del cammino ci portò ad attraversare
un paio di frane abbastanza difficoltose perché coperte di massi instabili, poi
il sentiero puntò direttamente verso l'alto attraverso un fitto bosco. La
salita fu penosissima sia per la difficoltà oggettiva del sentiero, sia perché
incrociavamo continuamente file di portatori che scendevano, tra cui molte
donne, carichi di enormi fagotti trasportavati col solito sistema della
striscia di corda sulla fronte, il che li rendeva ciechi, inoltre per non
perdere l'equilibrio mantenevano un passo veloce e costante, per cui bisognava
scostarsi rapidamente per non essere travolti, e aspettare che la fila passasse
prima di riprendere il cammino. Siccome il sentiero era stretto, questo
talvolta voleva dire salire sulle radici di un albero o attaccarsi al tronco o mantenersi
in equilibrio precario su di un masso. Non mi piacque affatto questa
passeggiata, anche perché avevo paura delle sanguisughe che in quel periodo
sono abbondantissime e non possono essere evitate se si sta troppo sotto gli
alberi, ma per fortuna nessuna mi si attaccò.
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Xedar Dzong |
Superammo infine anche questo ultimo
tratto, e arrivammo sulla carrozzabile dove le nostre jeep erano in attesa,
insieme a molti camion e qualche pullman. Ci dovevano distribuire quattro per
macchina, come ci disse la nostra guida cinese, una robusta ragazzetta con i
capelli tagliati in una foggia piuttosto avveniristica, accompagnata da alcuni
accoliti di cui non capimmo mai la funzione. Io salii su una jeep qualsiasi (ma
più tardi riformammo gli equipaggi, e io mi trovai permanentemente seduta sul
sedile posteriore tra Bruce, l'australiano, e il giapponese, mentre Marianne,
l'olandese, sedeva sempre accanto all'autista, non si sa in grazia di quale
motivo - se non che era una rompiscatole prepotente) in cui mi trovai dietro a Christine,
e mi accorsi immediatamente che era coperta di sanguisughe sul collo e sulle
braccia. Questo causò una notevole agitazione, con la partecipazione di tutti
gli astanti che avevano l'aria di divertirsi moltissimo e furono prodighi di
consigli di ogni tipo; alla fine le sanguisughe furono estirpate dalle succose
carni di Christine e potemmo partire.
Ormai la parte principale della salita era
compiuta, e ben presto abbandonammo i boschi rigogliosi che ci avevano
accompagnato fino ad allora per inoltrarci nell'arido altipiano tibetano.
Salivamo di continuo, ma la salita era lenta e la strada, non più costruita
sull'orlo di uno strapiombo, attraversava declivi ingannevolmente dolci e ampie
vallate. Il primo villaggio che incontrammo fu Nielamu, poco attraente e freddo
sotto un cielo grigio, ma attraversato da una carovana di yak infiocchettati e
carichi che ci affrettammo a fotografare. L'altitudine cominciava a farsi
sentire.
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Xedar Dzong |
Il paesaggio era totalmente cambiato. Ora
avevamo intorno spazi sconfinati di erba rada, completamente vuoti di
costruzioni e presenze umane o animali; l'orizzonte era chiuso da nuvole grigie
e fitte che di tanto in tanto si aprivano abbastanza da farci indovinare,
dietro, la presenza di vette innevate tutt'intorno a noi. In quei rari momenti,
clic clic, tutte le macchine fotografiche tiravano fuori i loro teleobiettivi e
si sforzavano di squarciare la cortina impassibile di nuvole che ci circondava
a destra, a sinistra, dietro, davanti, e sopra, e che non si aprì mai abbastanza
da farci vedere qualcosa di più dei piedi bianchi e gelati delle montagne che
pure, lo sapevamo, erano lì intorno. Valicammo due passi; il primo, il Nielamu
Pass, a 3800 metri, e il secondo, parecchie ore più tardi, il Lalung Leh a 5050
metri. In teoria, da questo passo si sarebbero dovute vedere cinque cime di
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Tra il Nielamu Pass e Xegar Dzong (e dietro, da qualche parte, l'Everest) |
8000 metri, e tre di 7000. In realtà tutto quello che vedemmo furono molte
nuvole, ma era sempre eccitante pensare che dietro di esse c'era, tra il resto,
l'Everest. A quell'altitudine, trovavo difficoltoso persino fare i pochi passi
necessari per appartarmi a fare pipì, e avevo nausea e mal di testa. Ogni
tanto, nelle pianure, si vedevano cavalli che pascolavano accanto ai letti dei
fiumi; sui pendii c'erano gruppi di yak.
A metà pomeriggio arrivammo a Xedar Dzong,
dove dovevamo passare la notte, a un'altitudine di 4350 metri. Il villaggio si
trovava ai piedi di un'altura piuttosto scoscesa in cima alla quale sorgeva un
monastero, piccolo ma pittoresco, almeno visto dal basso. Non me la sentivo di
salire a visitarlo, perché continuavo a non sentirmi tanto bene. In effetti,
gli unici che affrontarono l'impresa furono Paula (sempre in shorts), Sophie e
la coppia inglese. Ci eravamo fermati per la notte a una specie di scuola o
caserma trasformata in ostello. Ebbi una stanza con l'olandese, che cominciava
già a raccontarmi il suo viaggio in Mongolia, per cui decisi di fare una
passeggiata fino al villaggio, che distava un chilometro o poco più. Mi misi in
cammino lentamente, cercando di non stancarmi con un passo troppo rapido od un
eccesso di movimenti. La strada era dritta e desolata, tra campi e basse
baracche a un piano che ospitavano negozi quasi vuoti con le insegne scritte in
cinese. Quando fui vicino al villaggio, incontrai un gruppo di ragazzine con
delle gerle sulla schiena che mi si affollarono intorno ridendo e toccandomi.
Erano particolarmente interessate ai miei orecchini e ai braccialetti di vetro
nepalesi che portavo al polso. Me li sfilai e glieli regalai rimpiangendo di non averne portati di
più; se avessi saputo che erano così apprezzati, ne avrei portati alcune
dozzine per regalarli. Le ragazze erano giovanissime, quindici o sedici anni;
avevano facce allegre e bellissimi sorrisi, con denti bianchi e forti. Erano
molto sporche, sia nei vestiti che nella faccia e portavano poveri braccialetti
e anelli di nessun valore, però alcune avevano orecchini di corallo e turchesi,
e le loro trecce avvolte sul capo erano ornate con nastri e fili di lana rossa
e nera. Le gerle vuote erano trattenute sulla schiena da una corda trasversale
che gli attraversava il petto. Ci facemmo moltissimi sorrisi e anche qualche
franca risata, e anche se all'inizio si erano rifiutate, poi furono felici di
farsi fotografare; ma fu impossibile farmi dare il loro indirizzo per poter
mandare loro le foto. Proseguii per la mia passeggiata, e fui raggiunta
dall'australiano e da Ute, la tedesca che stava bene. Anche loro erano provati
dall'altitudine e si muovevano con precauzione.
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Xedar Dzong |
Arrivati nel villaggio, però, fu
impossibile mantenere la calma. Fummo immediatamente circondati da un codazzo
di bambini vivacissimi, di una sporcizia incredibile, con lunghi mocci
incrostati sul labbro superiore, vestiti con più strati di stracci e i
pantaloni aperti sul sedere in modo che le loro chiappette pallide e striate di
sporco occhieggiavano a ogni movimento. Raramente ho visto bambini più allegri
e scherzosi. Ci saltavano intorno in parossismi di divertimento, toccandoci e
tirandoci da dietro quando pensavano di non essere visti. In particolare, il
più vivace era un ragazzino di quattro o cinque anni con un enorme berretto da
soldato cinese con la stella rossa che non smetteva un secondo di ridere e
farci scherzi. Ben presto giunsero anche le madri dei bambini, che però ci guardavano
appena, continuando a filare la lana sui loro fusi mentre camminavano,
anch'esse sporchissime, ma vestite di tutto punto e con un incredibile
armamentario appeso alla cintura, chiusa da enormi fibbie di metallo, tra cui
spiccava un grande mestolo di ottone. Le donne chiacchieravano tra di loro
facendo finta di niente, poi alcune si sedettero a spidocchiarsi, voltando
all'inizio il capo quando cercavamo di fotografarle, ma poi ben contente e
prodighe di sorrisi appena vedevano una macchina fotografica voltata verso di
loro. Erano belle e attraenti malgrado le ditate di sporco annoso che copriva
le loro guance rotonde, e come tutti i tibetani, avevano sorrisi allegrissimi e
contagiosi.
Gli scherzi e i salti dei bambini però ci
costringevano a muoverci con troppa violenza, e ben
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Xedar Dzong |
presto fummo tutti esausti.
Non avevamo né caramelle né altri dolci da distribuire e Ute se ne andò dicendo
che avrebbe portato qualcosa per loro, ma quando vedemmo che non tornava, anche
Bruce e io ci ritirammo in buon ordine, camminando lentamente e senza più
cedere alla voglia di divertimento dei piccoli vivacissimi monelli. Le donne
parvero non accorgersi nemmeno della nostra partenza. Sulla via del ritorno
incontrai le mie amiche con le gerle piene di erba, e ci scambiammo saluti
affettuosissimi. Il villaggio era interamente costruito in stile tradizionale,
con case a un solo piano precedute da un cortiletto, tetti
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Xedar Dzong |
piatti coperti da
alti strati di fascine o sterco di animali, pareti bianche e gli stipiti delle
porte e delle finestre dipinti di blu. Sui tetti delle case, sventolavano
festoni di bandierine o si ergevano pali e frasche coperti di preghiere. Le
strade non erano pavimentate e sembravano piuttosto il letto di ruscelli in
secca. La vegetazione era praticamente inesistente, anche se sbirciando in
qualche cortiletto vedemmo delle piantine spuntare tra le pietre. Quando
rientrammo, avevo un tale mal di testa e una tale nausea che andai direttamente
a dormire senza cena, dopo essermi sommariamente lavata in un catino riempito a
un lavandino comune situato nel corridoio. Non esistevano bagni, solo
gabinetti; ma fuori dalla porta di ogni stanza c'era un recipiente di metallo
smaltato che non capii se era un vaso da notte o una sputacchiera.
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Xedar Dzong |
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Tra Xedar Dzong e Xigatse |
La mattina ripartimmo con le nostre jeep e
la giornata trascorse nell'attraversamento di grandi vallate aride, tra cavalli
al pascolo e villaggi dall'apparenza talvolta fortificata e talvolta
pacificissima, con le solite case a un piano dal tetto piatto ricoperto di
sterpi e letame, circondate da bassi muretti e nessuna vegetazione. Nei fondo
valle c'erano campi di orzo e senape e prati, qualche salice lungo i fiumi, e
un traffico praticamente inesistente. Un paio di volte dovemmo attraversare dei
punti in cui il fiume aveva coperto la strada, ma l'acqua era sempre bassa e
non c'era alcuna difficoltà a guadare con la jeep. A mezzogiorno facemmo un
pic-nic con uova sode, carne in scatola e pesce secco in bustine di plastica.
Da bere, c'erano lattine di coca-cola, e il pane era rappresentato da orrendi
panini cotti al vapore. Io riuscivo solo a mangiare le uova sode, perché la
nausea continuava e qualunque cibo con un'aria appena esotica mi faceva venire
voglia di vomitare. La sera, giungemmo a Xigatse, dove fummo alloggiati in un albergo
dall'apparenza lussuosa alla periferia della città. Credo di non aver mai visto
delle stanze così sporche, almeno in un albergo di lusso. I tappeti erano
incrostati di sudiciume, le lenzuola tanto nere che persino ricoprirle con le
nostre lenzuola non sembrava sufficiente e qualsiasi movimento minacciava di
far entrare in contatto con zone pericolose, e in bagno niente funzionava, né
la doccia né la luce né il gabinetto. Di nuovo saltai la cena, e senza
rimpianti.
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Xigatse |
Il giorno dopo andammo a visitare il
monastero di Tashi Lumpu, sede del Panchen Lama, seconda autorità religiosa in
Tibet, l'ultimo dei quali si è distinto come collaboratore dei cinesi. Il
monastero era grandioso, una serie di vasti edifici bianchi e rossi circondati
da un alto muro, dal quale sporgevano i tetti dorati e decorati delle sale da
preghiera, e fui particolarmente colpita dal grande muro per l'ostensione dei
drappi in occasioni delle feste principali che lo sovrastava. Ma la visita fu,
per molti versi, una delusione. C'erano altri turisti, giunti in pullman da
Lhasa, e quando entrammo in una sala da preghiera in cui era in corso una
cerimonia, ci furono chieste circa ottomila lire per scattare delle foto. A me
non interessava, ma pagai lo stesso e delle foto che scattai una sola venne,
neanche tanto bella; giusta punizione per aver disturbato con il mio flash
inadeguato il rituale mattutino dei monaci. Gli altri turisti scattavano come
dannati, e uno mi apostrofò con un villanissimo "Hey, you!" perché mi
permisi di muovermi mentre scattava. La sala era buia e affollata di sedili e
monaci, che recitavano le loro preghiere incuranti della raffica di flash che
li illuminava; ma ogni tanto qualcuno dei più giovani si distraeva e guardava i
turisti, pur continuando a salmodiare. Un ragazzo cinese ci faceva da guida nel
monastero, ma era chiaro che ne sapeva meno di noi sul lamaismo e sul buddismo
in generale; inoltre parlava un inglese piuttosto generico. Nel grande
edificio, in cui dovevano essere ospitati in origine circa ottomila monaci, ora
ne vivevano seicento. Il cortile e gli edifici erano malamente degradati.
Questo monastero era famoso per la sua stamperia, e sulla mia guida, pubblicata
in Nepal da un professore nepalese, lessi che alcuni di essi si occupavano di
ristampare gli antichi testi con gli stampi in legno della tradizione, ma io
non posso dire di aver visto niente a questo proposito.
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Xigatse - Tashi Lumpu |
Vedemmo invece, in un
grande cortile, alcuni monaci che, in piedi su cavalletti di legno,
ridipingevano gli affreschi dei porticati che circondavano tutto il cortile.
Era bello vederli ridipingere semplicemente i colori come erano, ricalcando i
contorni delle figure, con un procedimento che avrebbe fatto urlare dal
raccapriccio qualunque restauratore occidentale. Io trovai molto rasserenante
questa continuità che non aveva niente in comune con la mania di conservazione
che caratterizza le cure dedicate a qualsiasi monumento in occidente.
Entrando nella sala di preghiera
principale, a cui si accedeva da una scaletta a pioli ripidissima, rigorosamente
a sinistra, per poi uscire da una scaletta analoga a destra, incontrai un
gruppo di pellegrini che mi fecero molte feste, soprattutto le donne, una delle
quali si infilò una mano in una tasca interna e ne tirò fuori delle albicocche
secche, una mela vizza e dei semi che mi regalò con uno dei più bei sorrisi che
avessi mai visto. Ciononostante, non ebbi il coraggio di mangiarli. L'interno
della sala da preghiera era affollato di statue alte fino al soffitto intorno
alle quali bisognava girare in senso orario, e statue più piccole in ogni
angolo; davanti a esse vi erano decine di coppe d'ottone piene d'acqua e di
burro fuso, e l'odore rancido del burro riempiva tutto l'ambiente e anche i
vestiti dei pellegrini ne erano impregnati; dopo un poco diventava nauseante.
La sala era buia, le pareti affumicate e coperte di drappi di seta e di
broccato che pendevano anche dal soffitto. I pellegrini portavano grandi
thermos di plastica da cui versavano le loro offerte nelle ciotole e pregavano
con grandissima devozione. Erano tutti, uomini donne e bambini, vestiti molto
miseramente, e avevano l'aria di venire da lontano, ma tranne il continuo
scambio di sorrisi, la comunicazione con loro era impossibile. Vidi pochissimi
monaci, a parte i dieci o dodici che avevamo sorpreso nella loro preghiera
mattutina appena arrivati. Ve ne erano di anziani, ma anche di giovanissimi.
Usciti dal Tashi Lumpu, ci recammo al
mercato che si trova a poche centinaia di metri, anche se in macchina ci volle
un po' ad arrivarci, a causa delle strade fangose e impraticabili persino in
jeep. Xigatse, con quarantamila abitanti circa, si trova a 3900 metri di
altitudine ed è la seconda città del Tibet. E' un vivace centro commerciale e
il suo mercato è molto interessante.
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Xigatse |
Vi si vende dalla carne al burro, dalle
valige alle antichità presunte, e i mercanti, per lo più donne, sono
simpaticissimi. Non parlano inglese ma sono tutti muniti di calcolatrici su cui
calcolano velocissimi cambi tra dollari, FEC (la moneta in uso tra gli stranieri)
e Remnimbi (la moneta locale). Se appena si dà inizio a una contrattazione, poi
è praticamente impossibile tirarsi indietro; e in effetti mi trovai in possesso
di alcuni oggetti che non avevo mai pensato di acquistare. In tutte le guide
c'è scritto che è meglio fare acquisti al mercato di Zigatse piuttosto che in
quello del Bargkhor a Lhasa; ma la mia impressione è stata diversa, e anche se
si dice che tutti gli oggetti in vendita a Lhasa sono prodotti dai Newar
nepalesi, abilissimi artigiani in grado di imitare i manufatti tibetani, nel
complesso io trovai molto più interessante quel mercato, più ricco e variato;
inoltre, non mi parve molto difficile distinguere gli oggetti autentici da
quelli contraffatti. Ma anche in questo, può darsi che mi sbagli. In ogni caso,
ci buttammo tutti negli acquisti, e tutti, io per prima, fummo certamente
imbrogliati dagli abilissimi e ridanciani mercanti locali. Ma lo spettacolo e
l'atmosfera del mercato valevano i pochi dollari che ci furono estorti. La
folla che lo frequentava era composta da donne tibetane vestite con i soliti
grembiuli rigati e vezzi di corallo e turchese, qualche cinese in blu, e
superbi giovani dai lunghi capelli intrecciati con fili di lana rossa che
terminavano in ciuffi sulla fronte, giacche portate sulla spalla come ussari,
alti e belli, con collane d'osso e turchese. Le case che circondavano il
mercato erano belle, a due o più piani, bianche, con il tetto piatto e le porte
e le finestre circondate da cornici dipinte a fiori, in blu o in grigio, e
sormontate da festoni bianchi; sui tetti sventolavano bandierine bianche o
colorate.
Partimmo verso le due del pomeriggio e in
un paio d'ore fummo a Gyantse, a 3950 metri di altitudine, la più graziosa e
interessante delle cittadine che vidi nel tragitto per Lhasa. L'albergo,
grande, molto bello, era completamente fuori dall'abitato, in piena campagna;
le pareti dell'atrio, grandissimo e luminoso, erano coperte di piante
rampicanti di plastica che gli davano un'aria fiabesca; in centro si trovava un
altarino coperto di piccoli mucchi di cereali in cui erano infilati bastoncini
di incenso.
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Albergo a Gyatse |
La stanza che dividevo con la noiosissima
olandese era chiara e lussuosa, arredata in stile tibetano: cioè con letti
fatti solo di tappeti (ne dovetti eliminare un paio per riuscire a dormire),
mobili di legno dorato e dipinto a fiori di colori vivaci, un altarino simile a
quello della hall e la televisione. Era pulitissima e c'era persino della carta
da lettere intestata di cui feci subito uso, anche se non mi fidai a imbucare
la mia lettera in albergo. Subito dopo aver preso possesso delle stanze, ci
recammo nel villaggio per vedere il monastero.
Il paese era piccolo, ma con una
fisionomia del tutto particolare. Forse c'era anche una parte cinese, con le solite
strade alberate ed edifici moderni, ma in questo caso si trovava lontano dal
centro antico e dalla vasta strada rettilinea che portava al monastero, il cui
portone d'ingresso la sbarrava al fondo. Ai due lati sorgevano belle case del
tipo tradizionale, bianche con le finestre colorate e i tetti piatti, a due
piani, che ospitavano alberghi molto modesti (e con l'aria di essere
disabitati) con grandi cortili su cui si affacciavano le camere, e negozi
semivuoti, sui cui banchi e scaffali polverosi si vedeva qualche pezza di
stoffa e utensili per la cucina, per lo più di plastica, tutti di produzione
cinese. Di un albergo, che come gli altri aveva un'insegna trilingue, in
cinese, tibetano e inglese, ricordo il nome: Warm Heart Hotel. Qualche casa al
primo piano aveva balconi o verande sorretti da colonnine dipinte e intagliate.
Nella strada sedeva per terra un gruppo di pellegrini o viaggiatori dall'aria
molto allegra, riuniti in circolo attorno a una radio che trasmetteva musica.
Vi erano le solite biciclette, ma molti si muovevano a cavallo, su cavallini
piccolissimi, e avevano cappelli di feltro che davano loro un'aria da cow-boys.
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Gyantse |
A un vecchino dal viso intenso, con la gerla piena di erba e una zappa in
spalla, diedi una delle fotografie a colori del Dalai Lama; mi fece un sorriso
sdentato quasi incredulo e attese contento che lo fotografassi. Aveva una
giacca e una camicia tutte strappate e orecchini di turchese, e anche lui
portava un cappello di feltro marrone. Nelle strade laterali erano legati cavallini
che aspettavano ubbidienti i loro padroni, grufolando come maiali tra
l'immondizia.
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Gyantse |
Il monastero, costruito sul pendio arido
di una collina, era molto meno grandioso di quello di Xigatse: si vedeva
l'edificio della sala da preghiera principale, quello in cui abitavano l'abate
e i monaci, e un bellissimo tempio a otto piani, con cornici esterne dipinte e
un tamburo sovrastato da una specie di cupola a ombrello. Il monastero era
chiuso ma potemmo entrare nel cortile e girare liberamente. Dava un'impressione
desolata, così vuoto e deserto, con il grande cortile selciato in cui si
aggiravano solo qualche cane e dei bambini che ci seguivano passo passo. In
mezzo al cortile sorgeva un altissimo palo coperto da ciuffi di pelo di yak e
bandierine. In alto, sulla collina, c'erano i resti di un forte e una grande
muraglia accompagnava tutta la cresta per chilometri. Anche qui, dietro gli
edifici costruiti sul pendio sorgeva un maestoso muro per l'esibizione dei
tanka cerimoniali. L'insieme era molto suggestivo e solitario.
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Monastero di Gyantse |
La sera, in albergo, cenai con una
scatoletta di paté e del pane in cassetta. Stavo meglio, ma continuavo a avere
la nausea. Durante il giro del paese, avevo incontrato una turista sola,
avvolta in uno scialle a righe, che chiedeva notizie sugli alberghi; le avevamo
consigliato quelli della città vecchia perché il nostro sembrava molto caro, e
avevo sentito una fitta d'invidia nei suoi confronti. Mi ripromisi di tornare
in Tibet dalla Cina, per poter girare per conto mio, con i mezzi pubblici.
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Tra Gyantse e Lhasa |
Il giorno dopo partimmo per Lhasa, che
distava da Gyantse otto ore di macchina; si annunciava un tragitto molto
interessante. All'inizio, la strada si snodava attraverso le solite valli ampie
e aride, ma ben presto si cominciò a salire e ci trovammo sull'impressionante
Karola Pass, a 5010 metri di altitudine, in cui la strada passa proprio sotto
un ghiacciaio che incombe come un muraglione di ghiaccio sulla destra. La
nebbia nascondeva la parte alta del ghiacciaio, ma vedere sopra di sé quella massa
di ghiaccio che pareva ancora in movimento, anche se in realtà era il ritratto
di tutto quello che c'è di più immobile, faceva veramente impressione. Ho visto
molti altri ghiacciai, ma nessuno con l'aria furibonda come questo. Dall'altra
parte ci doveva essere un alto muro di roccia, ma la nebbia impediva di vedere
alcunché.
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Ghiacciaio del Nazin Khang La |
Qualche yak pascolava sugli stenti prati sotto il ghiacciaio. Ci
fermammo pochi minuti e anche solo fare due passi mi stese, in preda alla
nausea e al mal di testa. Il giapponese sembrava molto provato e continuò a
chiedere "One aspirin, please" per molto tempo dopo. Dopo il passo,
che sta tra due cime, l'una di più di 7000 metri e l'altra di più di 6000,
scendemmo verso il lago Yamdrok, di cui avevo letto molto e che ero ansiosa di
vedere. Il suo nome significa lago di turchese e in effetti le sue acque sono
azzurre e le sue rive molto ridenti. E' tortuoso, si divide in moltissimi
bracci e golfi e la strada che lo costeggia è davvero scenografica. Molti yak
pascolavano sulle sue rive e sulle pendici delle montagne che lo circondano, ma
in basso c'erano anche mucche e bufali. C'erano grandi campi di segale e di
senape fiorita, che facevano macchie gialle di bellissimo effetto, soprattutto
quando le nuvole si squarciavano e il sole li illuminava improvvisamente.
C'erano anche dei bei villaggi di pescatori, con le reti stese, e in uno
vedemmo un pullman di turisti parcheggiato. La strada poi abbandonò il lago per
salire nuovamente verso il passo di Kamba La, ma finché le nuvole non lo nascosero
alla vista, potemmo vedere ancora a lungo il lago sotto di noi, con le sue
acque azzurre e i campi di senape in fiore.
Sulla strada per il passo gli yak stavano
arrampicati in posizioni assurde, e c'era una vegetazione un po' più fitta. In
alto c'erano i soliti mucchietti di pietre incise con preghiere e festoni di
bandierine: poi la strada prese a scendere verso la valle di Lhasa, in fondo
alla quale scorreva gonfio e scuro il Brahmaputra.
Ben presto fummo nell'ampia valle
coltivata, con grandi villaggi e campi di cereali e patate. Nei dintorni di un
villaggio vedemmo un gruppo di ragazzi e ragazze, divisi in due file che si
fronteggiavano, che battevano il grano con dei bastoni piatti in una specie di
balletto sincronizzato, con una perfetta alternanza che faceva sì che nessun
bastone incontrasse mai quello del dirimpettaio, mentre cantavano una loro
canzone. Ci fermammo e scendemmo per fare delle fotografie, e naturalmente i
ragazzi smisero immediatamente il loro lavoro per guardarci tra molte risate.
Un gruppo di bambini ci circondò, e uno di loro si tirava dietro con un cordino
una macchina fatta con una lattina di coca-cola e quattro ruote di legno;
questo è forse l'unico giocattolo che ho visto in mano a un bambino tibetano.
Lui ne era molto fiero e aveva l'aria di divertirsi a tirarselo dietro. I
bambini erano come sempre molto graziosi, con tonde guance sporche e rosse e
sorrisi allegrissimi.
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Tra Gyantse e Lhasa |
La valle si faceva sempre più larga, e
presso le colline lungo il fiume c'erano grandi dune di sabbia gialla. Vedemmo
le barche rotonde di pelle di yak, ma non ci fu il tempo di provarle, e io non
me ne dispiacqui.
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Bhramaputra (Tsang-po) |
Vicino a Lhasa il fiume era straripato, ma
la strada era agibile; passammo accanto a un grande Budda scolpito in
bassorilievo lungo una specie di stagno formato dal fiume e ci fermammo dopo il
ponte sul Brahmaputra a mangiare qualcosa (sempre pane e formaggio per me).
Infine, nel pomeriggio, arrivammo a Lhasa, dove alloggiavamo un po' fuori dalla
città, vicino al Norbu Linka, all'Holiday Inn.
A Lhasa rimasi quattro o cinque giorni.
Stare all'Holiday Inn era un grave handicap, prima di tutto perché era lontano
dal centro, e poi perché era un albergo internazionale completamente anonimo
che faceva da schermo tra noi e il paese che stavamo visitando. Era un
bell'albergo, pulito, lussuoso e comodo, e fui molto lieta di poter mangiare
sempre piatti più o meno occidentali, perché continuavo ad avere problemi di
stomaco e avrei sofferto se avessi dovuto mangiare nei ristorantini cinesi che
erano l'unica alternativa; ma comunque, avrei preferito vivere di gallette e
frutta, piuttosto che essere nel ghetto anonimo in cui eravamo confinati.
C'erano almeno tre ristoranti nell'albergo, alcune donne tibetane che se ne
stavano permanentemente a tessere tappeti nella hall, una boutique sempre
chiusa, servizio di lavanderia, cambio e posta; e la sera, in una specie di
piano bar, alcuni giovani cinesi suonavano Mozart e Schubert per quei turisti
che avevano voglia di far tardi su una birra o un bicchiere di vino cinese,
dolce e appiccicoso. Ebbi una stanza con la solita olandese e per la prima
volta dalla partenza dal Nepal avemmo acqua calda per fare la doccia.
Ciononostante, avrei preferito stare in uno degli alberghi tibetani che si
trovavano in centro, intorno al Barkhor. Fummo presi in carica da una nuova
guida cinese, una ragazza adenoidea notevolmente stupida e antipatica, che non
sapeva assolutamente nulla di Lhasa né del Tibet in generale e che soprattutto
non aveva nessuna voglia di portarci a vedere niente, così ci fece perdere un
sacco di tempo. Inoltre non parlava quasi inglese ed era molto difficile
spiegarle quello che volevamo fare; l'unica cosa che le interessava era
cambiare remnimbi con FEC e farsi regalare sigarette occidentali per il suo
fidanzato. Rimpiangemmo la ragazza robusta con il taglio di capelli moderno,
che almeno, se non era simpatica, era intelligente e parlava inglese.
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Potala |
Ci furono subito problemi con l'agenzia
statale di viaggio, perché la guida che ci aveva accompagnato fino a Lhasa ci
aveva fornito, non richiesta, dei pasti (che io, per esempio, non avevo mai
consumato) per cui ci fu chiesto di pagare un conto spropositato. Gli inglesi,
che dovevano continuare il viaggio servendosi dell'agenzia, pagarono, ma gli
altri semplicemente si rifiutarono e la cosa finì lì. Inoltre, i tedeschi, io e
l'olandese, che volevamo tornare in Nepal in aereo, dovemmo contrattare il
prezzo del biglietto perché ci fu chiesto più di quello che ci avevano detto di
pagare a Kathmandu. Anche in questo caso, discutemmo con il funzionario che
doveva riscuotere i soldi, e semplicemente ci rifiutammo di pagare di più di
quello che ci era stato detto. Ci costò una mattina di trattative, ma la
spuntammo, e il tutto ci diede un'opinione piuttosto negativa dell'agenzia di
viaggio di stato cinese.
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Potala |
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Potala |
Le cose da vedere a Lhasa, naturalmente,
erano moltissime, a cominciare, senza dubbio, dal Potala, il palazzo d'inverno
del Dalai Lama. Questa fu la prima visita che effettuammo, e ci avvicinammo tutti
a un luogo così illustre con qualche tremore e molte aspettative. Il Potala a
Lhasa è come l'Acropoli ad Atene o... non ho altri paragoni: qualcosa di
incombente, visibile da qualsiasi posto, un punto di riferimento al quale non
si può sfuggire dal momento in cui si arriva in vista della città. La sua
posizione su di una collina al centro della città lo rende cospicuo, e la
maestà delle sue forme e degli edifici che lo compongono, oltre che del carico
di storia che si porta dietro, lo rende veramente impressionante. L'attuale
palazzo è stato edificato nel seicento, con aggiunte e modificazioni
posteriori, ma il suo fascino è dovuto anche al suo aspetto senza tempo, e al
fatto che per secoli è stato un luogo misterioso, proibito agli stranieri. Io
avevo letto così tanto a proposito di questo palazzo-monastero, luogo santo per
eccellenza per la permanenza nelle sue stanze dei Dalai Lama, che devo
ammettere che ci entrai con una sensazione quasi di sacrilegio. E questo
sensazione fu ulteriormente confermata dalla visita che compimmo all'interno,
attraversando camere private e santuari famosi trasformati in musei, anche se
ancora attraversati e santificati dalla devozione dei pellegrini che li
visitavano con fede intatta.
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Potala |
Giungemmo al palazzo per una via
secondaria, e incongruamente la visita finì nel cortile d'entrata, forse per la
stupidità della nostra guida. Però c'erano dei pellegrini, gente modesta con i
suoi thermos pieni di acqua e di burro per le offerte, che percorrevano la
nostra stessa strada. La visita fu lunga, anche se naturalmente solo una minima
parte del Potala è aperto al pubblico; visto dall'esterno, con la sua massa
bianca e rossa che domina la città ed è visibile da qualunque punto, sembra più
che altro una fortezza, grandiosa e compatta, ma l'interno è un intrico di
salette e camere piccole e buie, inframmezzate da cortili, scale e grandi sale
di preghiera su più piani. E' il sogno di qualunque fotografo e viene benissimo
da qualunque angolo lo si riprenda, ma all'interno non si possono fare
fotografie, neanche usando la potente arma di corruzione delle foto del Dalai
Lama; ciononostante, tutti i componenti del mio gruppo riuscirono a scattare
qualche immagine proibita, e se no si sfogarono nei cortili e sul tetto, da cui
si aveva una visione completa della città, con la sua piccola parte antica
raccolta intorno al Potala e al Jokhang, e i vasti viali, estesi tutt'intorno,
della nuova città cinese, che arriva fino al Norbu Linka e ha cancellato il
circuito di preghiera esterno. Oltre alle sale di preghiera, coperte come
sempre di drappi preziosi che scendevano dal soffitto e dalle pareti affrescate
(ma la mancanza di illuminazione rendeva difficile apprezzare gli affreschi) e
piene di statue enormi, mi piacque la sala, assai più piccola e bassa di
soffitto, in cui si trovano numerosi chorten dei precedenti Dalai Lama, dorati
e decorati di pietre preziose, soprattutto turchesi, coralli e perle, donati
dai fedeli in occasione della loro costruzione, e le sale private dei Dalai
Lama, soprattutto quella dell'attuale, modesta e scura, con piccole finestre e
sedili per pregare e meditare, altari e numerosissime statue. Sul tetto piatto,
dalle balaustrate decorate di aste coperte di peli di yak, oltre alla bella
vista, era notevole lo spettacolo dei turisti occidentali (pochi) e cinesi,
soprattutto militari, che fotografavano in continuazione, il panorama e gli
altri turisti, facendosi a loro volta fotografare in una sarabanda di clic che
finiva per sembrare una cerimonia o una recita rituale. I pellegrini, invece,
non solo non fotografavano, ma neanche salivano sul tetto, intenti com'erano
solo a pregare e lasciare offerte davanti agli altari. L'odore di burro era
nauseante e insopportabile come negli altri luoghi di culto, e con la nausea
che continuava ad accompagnarmi, finì per diventare una costante del mio
soggiorno in Tibet.
Infine uscimmo nel cortile principale,
dove si tenevano le danze e le rappresentazioni sacre, cui il Dalai Lama
assisteva da un balcone verandato al primo piano. Ebbi anche l'occasione di
visitare i gabinetti per il pubblico, che erano veramente primitivi e
soprattutto notevolmente sporchi. Purtroppo non si poteva visitare alcun locale
di servizio, né le cucine né le celle dei monaci né altro.
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Jokhang |
Ma devo dire che se il Potala mi fece una
triste impressione, di un luogo del passato, la cui carica emotiva era
esclusivamente legata alle memorie che rinchiudeva, e tristemente decaduto
rispetto al ruolo che aveva rivestito prima dell'arrivo dei cinesi, la vera emozione
fu rappresentata dalla visita al Jokhang, che continuava a essere il centro
della devozione del Tibet e della vita di Lhasa e l'unico luogo della città in
cui la presenza dei cinesi non era incombente. L'ampia piazza antistante al
tempio era essa stessa uno spettacolo dei più vivaci che io abbia mai visto. La
piazza è molto grande, rettangolare, e delimitata da begli edifici in stile
tradizionale, alte case bianche con le solite finestre decorate e i tetti
coperti di bandierine, tutti ben tenuti; ospitavano alberghi, case di
abitazione, negozi e l'ospedale tibetano che visitammo in seguito. Proprio in
fondo alla piazza si trova il tempio.
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Entrata del Jokhang |
Tutt'intorno, una folla vivacissima e
occupata nelle più diverse attività. C'erano molti venditori, anche se il mercato
vero e proprio si sviluppa nelle strade che circondano il Jokhang. Un uomo
faceva ballare una scimmia tenuta al guinzaglio, e questo spettacolo richiamava
una folla come deve essere successo per secoli nel medesimo luogo. Una vecchia
faceva degli stampini di terracotta con la figura di Budda, che poi colorava
con porporina. Ne acquistai uno per poche lire. Altri incidevano su pezzi di
lavagna le sacre sillabe "Om mani padme um" e le vendevano ai
pellegrini che poi le ammassavano accanto a un altare a forma di uovo posto
davanti al cortile antistante l'entrata al tempio. C'erano anche venditori di
ginepro, seduti per terra davanti ai loro fasci odorosi, che venivano poi
bruciati sull'altare a uovo. Alcune donne ornate di file di turchesi e coralli
nei capelli, sul petto e alle orecchie cercavano di vendere i loro gioielli
agli scarsi turisti. Sulle lunghe trecce annodate, uomini e donne portavano
cappelli di paglia o di feltro o scialli avvolti a mo' di turbante. I vestiti
di tutti erano miseri ma colorati e fantasiosi; anche qui i giovani uomini
erano bellissimi, alti e slanciati, con le trecce nere intrecciate a fili di
lana rossi che cadevano in ciuffi sulla fronte, e le giacche portate
spavaldamente sulla spalla sopra le camicie bianche e i pantaloni scuri. Qua e
là, qualche cinese o qualche tibetano si aggirava vestito alla cinese,
pantaloni e giacca abbottonata blu, e spiccava in modo un po' sinistro in mezzo
alla folla stracciona.
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Jokhang |
Lo spiazzo davanti all'entrata dal Jokhang
era coperto di stuoie e drappi spessi su cui molti fedeli, soprattutto vecchi
ma anche giovani, pregavano alternativamente in piedi e completamente sdraiati
sulla faccia, lunghi distesi al suolo in un atteggiamento di completa
devozione. Poi si rialzavano e si rigettavano al suolo, per ore di seguito,
almeno per quello che potei vedere io. Erano
completamente assorti in quello che facevano, e non li disturbavano né
gli sguardi né le macchine fotografiche dei turisti. Mentre pregavano in piedi,
portavano le mani giunte davanti alla fronte. In mezzo ai devoti, decine di
cani magri e gialli scorrazzavano indisturbati o si sdraiavano anche loro al
suolo.
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Jokhang |
L'interno del Jokhang era composto da
cortili in cui giovani monaci svolgevano varie incombenze, come quella di
innaffiare i fiori coltivati in vasi di terracotta, e una grande e armoniosa
sala di preghiera, più luminosa delle altre che avevo visitato, con bellissime
colonne di broccato e sete multicolori che pendevano dal soffitto e tremende
statue colossali di divinità zannute. Nella sala da preghiera persi di vista il
ragazzetto cinese, ignorante come tutti gli altri, che ci conduceva in giro e
fui presa a carico, insieme ad altri due o tre del mio gruppo, da un
giovanissimo monaco che parlava un po' di inglese. Poteva avere diciotto o
vent'anni ed era così nervoso che ridacchiava continuamente. Fu un incontro
provvidenziale, perché era molto più interessante e informato di chiunque altro
abbia incontrato in Tibet. Ci raccontò che aveva studiato con un maestro
inglese, che poi era stato allontanato da Lhasa dai cinesi nei disordini
dell'anno precedente. Aveva la testa rasata e la tonaca gialla e rossa, con un
braccio nudo malgrado non facesse affatto caldo, che portavano tutti gli altri
monaci. Ci guidò in giro a vedere i vari altari e le statue che ornavano
l'interno del tempio, compresa la famosa immagine del Budda ornato di turchesi
dietro la sua griglia di ottone e quella del re Songetseh Gampo con le sue due
mogli, la cinese e la nepalese. Ma la sua voce sussurrante e ingannevolmente
allegra continuava a ripetere: "This is plastic, all plastic" e ci
spiegò che la maggior parte delle sacre immagini, in questo come negli altri
templi, erano delle copie ricostruite con l'aiuto dei fedeli per sostituire
quelle distrutte durante la rivoluzione culturale dalle Guardie Rosse.
"The revolution, you know" ripeteva a bassa voce, ridacchiando
nervosamente. Era simpatico e amichevole, ma non abbandonava mai una specie di
dignitoso riserbo che lo faceva parlare sempre a tutti insieme, senza mai
stabilire un contatto personale né con gli occhi né con le parole. Sembrava
preoccupato di non attirare l'attenzione della nostra guida cinese, e parlava
sempre a bassa voce. Si dileguò senza salutare alla fine della visita, e ho
pensato a lui molte volte, quando leggevo sul giornale di disordini a Lhasa,
nei quali i giovani monaci erano in prima fila, e sovente le prime vittime.
Salimmo poi ai piani superiori, dove
trovammo nell'angolo di una veranda un vecchietto che modellava figure di Budda
nella terracotta, e ci aprì la porta di un fantastico deposito pieno di statue
di terracotta ancora da dipingere, accatastate a centinaia. Sul tetto del
Jokhang la vista della città era notevole, anche se non paragonabile a quella
dal tetto del Potala. Nel tempio non incontrammo pellegrini, perché al
pomeriggio era aperto solo per i turisti.
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Jokhang |
Tutt'intorno al Jokhang si stende un
mercato, detto Barkhor, che è anche un percorso di preghiera, e quindi va fatto
in senso orario, partendo e ritornando alla piazza principale. Vi tornai più di
una volta perché era un luogo affascinante. Vi si incontravano tipi e persone
di ogni genere e provenienza, nomadi stracciati e coperti anche sul viso di
sudiciume che, si vedeva benissimo, non aveva mai conosciuto acqua né sapone,
mercanti e contadini venuti a fare acquisti in città; alcuni portavano pesanti
cappotti di pelle di pecora rovesciata o la triste divisa cinese. Vidi anche
tre bellissimi giovani, due ragazzi e una ragazza, vestiti in una foggia che mi
parve più mongola che tibetana, alti, slanciati e puliti. Uscivano dal Jokhang
chiacchierando tra di loro, eleganti e disinvolti. Forse erano dei nobili
tibetani. Mi rimase la curiosità di saperne di più, ma apparvero e scomparvero
come una visione, unici in mezzo alla folla colorata e stracciona.
Molte delle donne erano belle, alte, con
visi allungati dagli zigomi alti e bellissimi sorrisi. Altre avevano facce
rubiconde da montanare. Il mercato era dei più interessanti, molto più fornito
di quello di Xigatse, ed era facile distinguere tra gli oggetti di produzione
moderna o importati e le antichità vere; inoltre, si trovavano merci di uso
comune, oggetti di merceria e cartoleria e verdure, carne, riso, stoffe,
tappeti e abiti. Avrei potuto passare un mese in quel mercato senza annoiarmi,
guardando le merci ma ancora più i mercanti e i clienti. Tra le antichità si
trovavano oggetti di ogni genere, contenitori per il cibo di rame, ottone e
argento usate dai nomadi, tazze da tè, teiere e pesi, e naturalmente gioielli,
per la maggior parte turchesi e coralli (molti dei quali finti), perle di fiume
vendute a fili per poche lire da ragazzine cinesi e tibetane, ambra e argenti.
Più tardi visitai anche un paio di negozi in città, di quelli cinesi detti
"Friendship stores" in cui si paga solo in FEC, e la loro povertà era
tanto più impressionante rispetto alla ricca vivacità di questo mercato.
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Barkhor |
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Lhasa, Barkhor |
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Panettiere musulmano, Lhasa |
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Moschea di Lhasa |
A metà circa del percorso, proprio dietro
al Jokhang, il mercato finisce e si incontrano solo i pellegrini che pregano
camminando. Ne vidi uno che portava un grembiule di cuoio, aveva gli avambracci
e le ginocchia protetti da pezze di cuoio e le mani da tavolette di legno, e
che misurava tutto il percorso con il corpo: si buttava per terra lungo
disteso, pregando, poi si rialzava per ributtarsi a terra esattamente dove
prima era arrivato a toccare col capo. La gente lo guardava appena sorridendo,
e alcuni gli davano dei soldi. Una volta che passeggiavo in questi luoghi con
Ute, ci infilammo in via viuzza trasversale che si inoltrava nella città
vecchia, bordata da botteghe modestissime, molte delle quali tenute da
musulmani, riconoscibili dai tratti somatici (sono originari del Kashmir) e dal
berrettino di cotone bianco lavorato all'uncinetto che portano in testa, oltre
che dalla barba corta e folta. Avevamo fame, e in un forno comprammo del pane;
per la monetina che demmo al fornaio, avemmo cinque o sei grosse pagnotte
piatte di pane simile a focaccia, che poi regalammo a un gruppo di monaci che
suonavano seduti per terra, con tamburi e flauti, chiedendo l'elemosina. La
strada finiva in una piazzetta in cui sorgeva una piccola moschea. Questa aveva
un'entrata in stile cinese, dipinta e decorata, e un piccolo minareto a forma
di torre a tre piani con un tetto conico verde. Entrammo nel cortile esterno e
poi in quello interno, piccoli e tenuti come cortili di una casa privata, con
vasi di fiori e bambini che giocavano. Un vecchio ci accolse molto gentilmente;
aveva l'aria contenta di vedere dei turisti e ci portò a vedere la sala di preghiera
dall'esterno. Tutto era molto piccolo e modesto. Ritornando al Barkhor, dato
che era l'ultimo giorno che avrei passato in Tibet e mi restava una foto del
Dalai Lama, la regalai a un vecchietto che camminava pregando con il suo
mulinello d'ottone in mano. Non se l'aspettava, visto che non mi aveva chiesto
niente, e ne fu così stupito e felice che rimase con la bocca sdentata
spalancata in un sorriso di felicità, e poi si nascose la foto nell'interno
della giacca, in fretta, come se avesse avuto paura che cambiassi idea. In
Tibet nessuno chiede l'elemosina direttamente, ma tutti, adulti e bambini,
appena vedono un turista cominciano a implorare "Dalai Lama" perché
sanno che i turisti sono in genere forniti delle preziose fotografie, che sul posto
sono introvabili; però su tutti gli altari se ne vedono molte; l'occhialuta e
sorridente quattordicesima reincarnazione è una presenza costante, e sempre
davanti a lui ardono lumini a burro e brillano coppe piene d'acqua.
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Barkhor |
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Barkhor |
Dovemmo esplicitamente chiedere alla
nostra antipatica guida cinese di portarci a visitare l'ospedale tibetano,
perché lei non ci aveva pensato, e fece anche qualche difficoltà. L'ospedale,
come ho già detto, sorge proprio sulla piazza davanti al Jokhang e occupa una
delle belle case bianche a tetto piatto che lo circondano. Fummo prima portati
all'ultimo piano, dove ci furono fornite delle ciabatte per entrare nella sala
di preghiera e biblioteca, che aveva una vista bellissima sulla piazza e sul
Potala. Le pareti erano coperte da grandi tavole che illustravano il decorso di
varie malattie e la fisiologia del corpo umano secondo la medicina
tradizionale. Vendevano anche un volume in cui erano riprodotte le tavole in
mostra e molte altre, a quarantamila lire, che era pochissimo per la ricchezza
e l'interesse del libro, ma era molto ingombrante e troppo pesante da
trasportare. Poi visitammo le corsie, in cui i malati erano curati con
l'agopuntura secondo il metodo cinese, come ci spiegò un medico, perché quello
tibetano, che prevede un solo punto di applicazione degli aghi, era considerato
insufficiente. Era tutto molto modesto, ma i locali erano puliti e non troppo
affollati. La più interessante era la farmacia, in cui grandi scaffali a
cassetti erano pieni di pillole tutte uguali all'apparenza, ma ognuna con un
impiego diverso. I pazienti stavano fuori, da uno sportellino presentavano la
ricetta, e in cambio ricevevano un cartoccino di pillole accuratamente scelte e
dosate tra quelle distribuite tra i vari cassetti. Medici, infermieri e impiegati,
tutti vestiti con camici bianchi, non persero tempo a guardarci e continuarono
il loro lavoro, e anche il medico che ci accompagnava, pur essendo molto
gentile, aveva l'aria di volersi sbarazzare di noi in fretta per tornare al suo
lavoro, come era naturale.
|
Lhasa |
Una mattina ci recammo a visitare il
grande monastero di Drepung, passando lungo la strada presso il tempio di
Nechung, già sede dell'oracolo di stato e ora in rovina. Drepung, che si trova
a cinque chilometri a ovest di Lhasa, è grandioso e un tempo ospitava circa
diecimila monaci. Ora ha un aspetto quasi deserto e anche l'interno è piuttosto
desolato, con sale sguarnite e poche statue nuove per sostituire quelle che
sono state distrutte dalle guardie rosse. C'è un grande muro per i tanka e sia
per la sua posizione in mezzo a colline dirupate, sia perché pioveva quando lo
visitai, mi ha lasciato l'impressione di un posto piuttosto lugubre. In una
vasta cucina buia e fumosa, tra bagliori di fuochi e pentoloni ribollenti, si
svolgeva una attività che non riuscii a decifrare: pellegrini muniti dei soliti
grossi mestoli di ottone entravano e ne uscivano forniti di quello che sembrava
semplice acqua calda, ma forse invece ricevevano anche del cibo. L'interno era
suggestivo come un quadro del seicento, ma altrettanto lontano: è frustrante
vedere davanti a sé delle persone vive e non riuscire a capire che cosa stanno
facendo. In una stanzetta scura in cui si conservava una santa reliquia, era
appeso un drappo ricoperto di spilli, aghi e mollette da capelli, lasciati da
pellegrini troppo poveri per poter fare offerte d'altro tipo.
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Monastero di Sera |
Mi piacque molto di più la visita di Sera,
l'altro grande monastero nei pressi di Lhasa, circa tre chilometri a nord.
Sera, che aveva settemila monaci e ora ne ha un centinaio, era un'università e
i suoi monaci erano guerrieri e sovente utilizzati come guardie del corpo dai
nobili. E' meno grandioso di Drepung, ed è piacevolmente costruito nel verde,
con cortili pieni di alberi in cui circolavano contadini con capre. Ancora oggi
Sera funziona da scuola per i monaci; sulle balconate coperte che circondavano
i cortili interni c'erano ragazzini e bambini di sette od otto anni seduti su
dei panchettini con la faccia al muro che studiavano ad alta voce, con l'aria
annoiata di tutti i bambini che studiano, e pronti a distrarsi al nostro
passaggio. Gli regalammo dei pennarelli e loro ci fecero dei timidi sorrisi,
senza osare di smettere di ripetere al alta voce le loro lezioni.
|
Sera |
In un cortile
alberato c'era un padiglione di legno su cui sedevano dei monaci anziani, e
sotto gli alberi due gruppi di monaci giovani seduti per terra intenti in
discussioni teologiche. In mezzo ai due gruppi c'erano dei monaci in piedi che
ponevano delle domande a quelli seduti, accompagnandosi con dei gran gesti
delle mani che battevano abbassando le braccia mentre curvavano il corpo in
avanti e alzavano una gamba indietro. I monaci che facevano le domande erano
serissimi e concentrati, ma quelli seduti si distraevano facilmente; alcuni non
portavano gli stivali di pelle ricamata, ma erano a piedi nudi, e si toccavano
le dita dei piedi, altri si lanciavano sassolini come monelli, altri ancora si
perdevano a guardarci mentre noi a nostra volta li fissavamo come animali in
uno zoo. Nell'insieme, era una scena animata e allegra, ma poco mistica.
In una
stanzetta un vecchio monaco tutto solo suonava con faccia impassibile uno
strano strumento, contemporaneamente a fiato e a percussione. Non batté ciglio
quando entrammo nella stanza, intascò senza smettere di suonare la foto del
Dalai Lama che gli allungò lo scozzese e si lasciò fotografare (benché fosse
proibito) sempre con l'aria di non essersi accorto della nostra presenza.
|
Il Potala dal People's Park |
Nel nostro albergo c'erano molti gruppi di
turisti, tutti del genere che è stato in qualunque parte del mondo, ma sempre
con dei viaggi organizzati. Moltissimi erano gli italiani, ricchi, eleganti e
rumorosi. C'era anche un gruppo di americani che si preparava a scalare l'Everest
proveniente da Houston, che si chiamava "Cow-boys on the Everest". Mi
dava sempre più fastidio soggiornare all'Holiday Inn, e pensai di trasferirmi
in un albergo tibetano e fermarmi a Lhasa ancora qualche giorno per conto mio;
non c'erano problemi per quel che riguardava il visto, ma poi cambiai idea
perché continuavo a risentire l'altitudine (Lhasa si trova a 3600 metri) e non
ero attrezzata per il freddo. Tutte le notti pioveva e la mattina l'umido era
fastidiosissimo. Inoltre, devo dire che mi stava diventando insopportabile
l'idea di fare la turista in un paese occupato, in cui visitavo solo resti e
rovine, anche se apparentemente templi e monasteri continuavano la loro vita.
Ma l'impressione di assistere all'assassinio di una cultura era troppo forte, e
mi rendeva la permanenza a Lhasa quasi dolorosa, per quanto interessante
fossero la città e i suoi abitanti. La presenza cinese era troppo fastidiosa,
per cui decisi di non prolungare la mia visita.
Visitammo ancora un tempio che trovai
molto suggestivo, nei pressi del Potala, il Bhari Lhuboog, scavato nella roccia
della collina e frequentato da molti pellegrini, lungo la cui strada d'accesso
degli scalpellini incidevano le pietre piatte con le sillabe sacre "Om
mani padme um" per i devoti che volevano lasciarle poi sui mucchietti e i
muri fuori dal tempio. A un giovane pellegrino nomade, che mi chiese
|
Il Potala dal Bhari Lhuboog |
la solita
foto del Dalai Lama di cui ero sprovvista, regalai delle sigarette. Era molto
probabile che non avesse mai fumato in vita sua, ma mi fece un sorriso
carezzevole, quasi affettuoso, sgranando dei denti bianchissimi in una faccia
grigia per la sporcizia. Visitammo anche il Norbu Linka, residenza estiva del
Dalai Lama, in mezzo a bei giardini molto ben
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Bhari Lhuboog |
tenuti, dove si può vedere
l'alloggio privato del quattordicesimo Dalai Lama, arredato con brutti mobili kashmiri,
che è rimasto così come l'ha lasciato lui la notte che fuggì in India. C'era
anche un bagno di tipo occidentale, con vasca e lavandino, ma molto spartano,
che il Dalai Lama si era fatto installare quando si fece costruire la sua
residenza nel parco del Norbu Linka, nell'insieme piuttosto modesta. Si vedeva
anche la stanza (senza bagno) della madre del Dalai Lama.
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Norbu Linka |
Infine venne il giorno della partenza, che
doveva avvenire in aereo; nel frattempo la strada tra Lhasa e Kathmandu era
divenuta impraticabile, e nella bacheca degli avvisi ai turisti dell'Holiday
Inn c'era un biglietto che comunicava ai gruppi che intendevano percorrerla,
che era meglio scegliere l'aereo. Partimmo la mattina col buio, tutti ammassati
su pullman e pulmini, dopo essere stati costretti a malincuore ad abbandonare i
nostri bagagli che furono caricati tutti insieme su di un camion che partì per
conto suo, cosa che non ci piacque affatto. La nostra guida non si era nemmeno
alzata e dovetti parlamentare, a nome dei miei compagni di viaggio, con un
gruppo di turisti italiani che non ci volevano far salire sul pullman su cui si
trovavano con il pretesto che quel pullman l'avevano sempre usato loro e quindi
non ci volevano altre persone sopra. Cercai di spiegargli che il trasporto fino
all'aeroporto non era un'escursione, ma non volevano sentire ragione e la loro
guida cinese mi si rivolse in modo villano, per cui andai infuriata a svegliare
la nostra cretinetta che dormiva pacificamente in una stanza dell'albergo con
la testa coperta di bigodini. Protestò debolmente ma riuscii a trascinarla
fuori senza darle il tempo di togliersi i bigodini, e infine partimmo con gli
antipatici italiani, che nel frattempo avevano fatto ammassare nel fondo del
pullman i miei compagni. Io mi sedetti vicino a una tipa che aveva l'aria di
vergognarsi un po' della generale stupidità e villania del suo gruppo, e venni
a sapere che erano dei lombardi, in maggioranza insegnanti, che provenivano
dalla Cina e avrebbero ancora "fatto" Kathmandu prima di rientrare in
Italia.
La strada per l'aeroporto era parzialmente
allagata dal Brahmaputra in piena, e così ci mettemmo un bel po', almeno un'ora
e mezza, ma infine giungemmo a una baracca che fungeva da terminal, dove fummo
ammassati in uno stanzone per passare la dogana e il controllo dei passaporti.
I bagagli erano arrivati indenni. Di lì ci convogliarono in un cortiletto, dove
fummo caricati sui pullman che ci fecero attraversare la strada camionabile, al
di là della quale si trovava il nostro aereo della CAC, la compagnia di
bandiera cinese.
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Tra Lhasa e Kathmandu | |
Eravamo tutti affamati perché non c'era
stato modo di fare colazione prima della partenza, per cui ci si allargò il
cuore quando ci venne distribuita, non appena fummo seduti, una scatola di
cartone a disegnini che supponevamo contenesse qualcosa da mangiare; ma invece
si trattava di un gentile omaggio della compagnia aerea, una bella scatola di
lacca su cui erano dipinti diversi tipi di fiori. Finalmente, dopo la partenza,
ci vennero forniti da hostess cinesi con grembiulini ricamati, nell'ordine: una
mela verde; un pacchetto di gallette; una tavoletta di cioccolato; un altro
pacchetto di biscotti; tè, caffè e spumante. Fu una colazione davvero
interessante.
Volammo su di uno spesso strato di nuvole
bianche e grigie, da cui ogni tanto spuntava qualche cima aguzza; ma
sull'Everest non spuntava solo una cima, era un'intera cattedrale che forava il
materasso grigio di nubi. Fu l'ultima orgia di clic a cui assistetti in quel
viaggio. Poco più di un'ora dopo la partenza, atterravamo all'aeroporto di
Kathamdu.
Bellissimo resoconto, l'ho letto tutto d'un fiato! Nonostante le puzze, la sporcizia e antipatie varie, ti invidio perché vedere Lhasa è uno dei miei sogni (destinati a restare tali). Tra l'altro, non ci siamo "beccati" a Kathmandu per poche settimane: io ero lì nell'Ottobre del 1988 :)
RispondiEliminaMannaggia per l'incontro mancato! E' stato un bel viaggio, ma la cosa che più mi ha sorpreso (non avevo mai riletto questo resoconto, scritto per me e non per essere pubblicato, e anche adesso confesso che gli ho dato uno sguardo veloce, io detesto ricordi e memorie se sono miei) è che avevo fatto molte fotografie, anche quelle del tutto dimenticate. Adesso ne sto scansendo qualcuna, quando avrò finito ripubblico il link se per caso ti interessa vederle. Nell'insieme sono abbastanza interessanti perché ho fotografato molto la gente, i monaci ecc - non come adesso che faccio solo tramonti e monviso ;-). Baci
RispondiEliminaEccome se mi interessano le immagini!
RispondiEliminaAttendo con trepidazione :)
Bellissimo resoconto. Io salii da Kathmandu a Lhasa la prima volta nell'estate 1986 e il viaggio fu in parte simile a quello raccontato. La seconda volta feci ancora quel percorso nel 1994 e le strade erano molto migliorate. Entrambe le volte scendemmo dell'altopiano andando a nord verso Golmud..la prima volta andammo in Pakista e la seconda verso Xian e Pechino. Mi è rimasto nel cuore quel Tibet che a detta di.altri andati negli ultimi anni...non esiste più
RispondiEliminaSiamo stati fortunati a avere fatto questo percorso molti anni fa… e mi fa piacere che le nostre impressioni coincidano. In ogni caso, penso che aver potuto fare questa esperienza sia stato un grande privilegio. Grazie pe avermi letto.
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