Confesso che prima di leggere Dispersi di Inaam Kachachi non ho mai avuto particolari curiosità verso l'Iraq moderno, teatro di tragedie terribili ma meno note, meno internazionali di quelle dei paesi confinanti, Iran in primis. Per me l'Iraq era la Mesopotamia, i Sumeri, Ninive, Ur dei Caldei, Babilonia e i giardini pensili, Hammurabi e il suo codice, ziggurat e bassorilievi colorati... al massimo con qualche archeologo di Agatha Christie che spolverava tavolette cuneiformi qua e là. Poi, certo, Saddam Hussein, le guerre del Golfo, impiccagioni e bombe, ma in un certo senso era come se fosse sparito dal palcoscenico internazionale, schiacciato dalle sue tragiche vicende. Per questo mi sono accostata a Dispersi con molte aspettative, solo parzialmente soddisfatte: ma non perché il romanzo non sia valido, anzi, è che si tratta di qualcosa di differente da quello che pensavo fosse. Avendo appena letto Nadim Aslam, Il libro dell'acqua e di altri specchi, e 'Ala al-Aswani, Sono corso verso il Nilo, mi aspettavo una narrazione fortemente politica, legata alla storia recente, ma invece mi sono trovata di fronte a vicende tormentate sì, ma su un registro del tutto individuale. Anzi, mi correggo, familiare. E narrate con grande delicatezza.
La famiglia ha una capostipite, Wardiya, giovane cristiana che viene indirizzata a studiare medicina perché riesce bene a scuola. Non è la sua scelta ma è seria, intelligente, empatica e capace, per cui diventa un punto di riferimento per le donne di Diwaniya, la cittadina nel sud dell’Iraq nel cui ospedale svolge il compito di ostetrica e ginecologa. Non importa di che religione siano, le donne si fidano di lei e lei sa come aiutarle a mettere al mondo i loro figli e curarle se si ammalano. In ospedale conosce il bel medico Girgis, se ne innamora e lo sposa. Avrà quattro figli, tre viventi, e una vita lunga e per quanto possibile ricca e piena. I figli sono costretti a lasciare l'Iraq dove la situazione è peggiorata di anno in anno, di guerra in guerra, tanto che non possono svolgervi il loro lavoro. Una figlia, Hinda, medico come lei, emigra in Canada dove con enorme fatica riesce a farsi riconoscere la laurea e accetta un incarico impegnativo ma soddisfacente nel Manitoba, a curare donne native che l'accolgono con affetto e grande fiducia. Un'altra figlia sposa senza amore un ricco iracheno emigrato a Dubai, e le sue uniche soddisfazioni sono spendere nei megastore della città in cui vive. Intanto la madre è tornata a vivere a Baghdad e continua a lavorare, in un ambulatorio molto noto e molto amato. Hinda insiste che la raggiunga in Canada, ma la madre resiste finché la situazione del paese è talmente degradata che si decide a emigrare in Francia dove c'è una nipote, con il figlio Iskandar, ragazzo di oggi abile informatico che crea un cimitero digitale in cui tutti riunisce tutti i dispersi, permettendo a ognuno di avere una tomba virtuale vicina a quella delle persone amate. E forse, sembra dire Inaam Kachachi, questa è l'unica possibilità per gli iracheni di superare la dispersione e illudersi di poter ricostituire una comunità.
Nel corso del romanzo si incontrano molti altri personaggi, tutti descritti con pochi tratti ma con grande efficacia. Gli episodi sono gustosi, non esiste una vera trama narrativa se non lo svolgersi a tratti faticoso e doloroso, a tratti sereno di molte vite strapazzate senza colpa. E' fortissimo il senso della famiglia, e anche se i protagonisti sono cristiani, l'autrice insiste molto sulla fratellanza delle confessioni e delle sette, sulla capacità di convivenza, ci parla di un Islam non
integralista. La protagonista da piccola ha partecipato a una
processione islamica insieme ai vicini, e lo ricorda con fierezza e piacere. Le donne sono il centro della vita familiare ma anche lavoratrici e studiose come Wardiya e Hinda, ma con grande naturalezza, non stanno tanto a contarsela e contarcela che sono donne forti eccetera. Sono donne, e tanto basta, e questo è uno degli aspetti che mi sono piaciuti di più del romanzo. Non c'è nessuna lamentela né vittimismo femminile né trionfalismo ideologico. La vicenda si dipana tra Baghdad, Diwaniya, il Canada, Parigi (dove Wardiya, ormai ultraottantenne e su una sedia a rotelle, viene invitata all'Eliseo e incontra Sarkozy), Dubai, ma ovviamente è l'Iraq il cuore e il motivo del romanzo. L'ultima parte, davvero trascinante, è un lungo e struggente repertorio di ricordi di ciò che costituiva la vita in Iraq e che hanno dovuto abbandonare, pieno di rimpianto, affetto e dolcezza. Un gran bel romanzo insomma, lieve malgrado l'argomento, molto ben scritto, e ben tradotto dall'arabo da Elisabetta Bartuli. Alla fine c'è un glossario e un elenco dei personaggi (curiosamente incompleto).
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