Bene, mi rivolgo a tutti i turisti che affollano le isole greche e i croceristi delle coste turche: vorrei che d’ora in poi, invece del passaporto o della carta d’identità, diventasse obbligatorio un attestato di avere letto questo libro. Mi piacerebbe sapere quanti dei gaudenti di Mikonos hanno le idee chiare sulla meghali katastrofì o sullo scambio di popolazione tra Grecia e Turchia. E niente suvlaki o döner kebab, niente uzo o raki (anzi niente mojito o margarita, niente acquagym o gioco aperitivo visto che in genere è questo che i vacanzieri cercano indifferentemente da dove sono) per chi non è preparato.
Faccio la furba ma anch’io, che frequento questi luoghi da tanto di quel tempo che non sto a specificare per non sembrare Babbo Natale, l’ho scoperto non tantissimi anni fa, leggendo e viaggiando. Sono fatti che conosciamo poco, in genere ne sappiamo molto di più sulla guerra di Troia, eppure non sono così remoti: risalgono agli anni 10-30, all’incirca, del secolo scorso. Ora, è ovvio che la storia si studia e si approfondisce, ma per cominciare il romanzo Addio Anatolia di Didò Sotiriu basta e avanza. E va benissimo, perché è anche un bel romanzo.
Allora, in due parole: nell’attuale Turchia vivevano milioni di greci fin dai tempi della Grecia classica, in colonie fondate dalle città stato per sistemare la popolazione in esubero in luoghi ricchi di pianure e buona terra dove coltivare olivi, vite e grano. E dove commerciare ovviamente. Come nell’Italia del sud, o a Marsiglia. Furono conquistati dai romani, poi fecero parte dell’Impero Bizantino, infine furono invasi prima dai Selgiuchidi poi dagli Ottomani con cui vissero in pace e collaborazione per secoli. Erano cristiani ortodossi ma in gran parte parlavano turco, erano contadini produttori di olio, fichi, uva passa, o grandi mercanti a Smirne e Istanbul dove c’erano anche comunità ebree e armene. In pace e armonia, dicevamo, con campi d’attività diversi, senza mescolarsi ma capaci di essere amici e aiutarsi al bisogno.
Questa situazione cominciò a deteriorarsi all’inizio del ‘900, con lo sgretolamento dell’Impero ottomano. I primi a subirne le conseguenze furono gli armeni, poi con la Prima Guerra Mondiale, i passi falsi del governo e della monarchia greca, e soprattutto con la disastrosa invasione greca dell’Asia Minore che portò appunto alla cosiddetta meghali katastrofì (non traduco apposta, si capisce benissimo) si arrivò alla tragedia eufemisticamente detta scambio di popolazione, in seguito alla quale circa un milione e mezzo di greci d’Asia lasciarono le loro terre e i loro averi per andare in territorio greco, e lo stesso fecero circa quattrocentomila turchi che vivevano in territorio greco e si spostarono in Turchia. Con conseguenze che si fecero sentire per decenni.
Ora, è ovvio che queste due parole sono imprecise, insufficienti, non affrontano aspetti fondamentali ma erano necessarie per introdurre il libro. Quello che spero è che spingano chi le legge a informarsi meglio e di più. Intanto, un buon punto di partenza può esserlo proprio Addio Anatolia.
Dice Didò Sotiriu nella prefazione alla prima edizione (1962) del romanzo: “La figura di Manolis Axiotis, il narratore del libro, simboleggia il contadino dell’Asia Minore arruolato nei battaglioni di lavoro durante la guerra del 1914-18, che in seguito ha vestito la divisa dell’esercito greco, e che ha assistito alla catastrofe del suo popolo, che ha vissuto la prigionia e la vita difficile del profugo, che per quarant’anni ha lavorato come portuale e sindacalista, e che infine ha combattuto nella Resistenza. Un giorno è venuto a trovarmi e mi ha consegnato un quaderno con le sue memorie. Da quando era andato in pensione, si era messo a riportare, con la sua scrittura incerta, gli eventi di cui era stato protagonista negli ultimi sessant’anni.”
Non so se si tratti di un espediente narrativo o se sia vero, ma le vicende di Manolis Axiotis, a cominciare dall’infanzia nel villaggio di Kirkintzès (attuale Şirince, iperturistico luogo di ristorantini e produzione vinicola) presso Ayasuluk, oggi Selçuk, ovverosia la colonia greca più famosa, Efeso, sede del tempio di Artemide, una delle sette meraviglie del mondo - e anche la sua storia vale la pena di essere riscoperta, poi nell’immane tragedia della guerra, la prigionia, la fuga, senza dimenticare gli affetti familiari e gli amori, sono davvero appassionanti. L’autrice, nata in quegli stessi luoghi nel 1907, ci tiene moltissimo a sottolineare l’armonia dei tempi di pace e l’assurdità degli avvenimenti che portarono alla catastrofe, in primo luogo la follia dei potenti e dei governi (tra cui la Germania, decisamente, non gode delle sue simpatie). È molto interessante sia la descrizione delle tradizioni contadine, i metodi di coltivazione e i rapporti con Smirne e i suoi mercanti, che il racconto preciso e tremendo delle condizioni di vita dei soldati nei cosiddetti “battaglioni di lavoro” e dei fuggiaschi sulle impervie montagne dell’Anatolia. Traduzione di Maurizio De Rosa
Perciò quando dico che ogni turista che frequenta quei luoghi dovrebbe leggere Addio Anatolia, non voglio fare né la maestrina saccente né la professoressa severa, ma consigliare un romanzo leggibilissimo, scorrevole, forse non problematico ma capace di aprire orizzonti davvero stimolanti per chi non si ferma alle vetrine di souvenir.
(Il solito avviso degli ultimi post è ancora valido, i link al mio ritorno). Una mia recensione dello stesso romanzo, più completa e approfondita dal punto di vista storico, potere trovarla qui https://consolata-anacondaanoressica.blogspot.com/2008/09/anatolia-addio-di-did-sotiriu.html?m=1
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