qui trans mare currunt.
Quinto Orazio Flacco, Epistulae, I, 11, 27
QUATTRO STORIE DI
VIAGGIO
La sera del 25 luglio 1982, quattro turisti occidentali si trovarono casualmente a passare la notte nel medesimo losmen di Parang Tritis, pochi chilometri ad est di Yogjakarta, nell'isola di Giava. La località era abbastanza lugubre e deserta perché i quattro viaggiatori solitari, che durante la giornata avevano passeggiato da soli lungo la spiaggia, ascoltando il frangersi fragoroso delle onde alte e minacciose, trovassero la voglia e il coraggio di abbandonare libri, lettere e diari per riunirsi allo stesso tavolo. Erano le sei del pomeriggio, ognuno aveva consumato in silenzio il suo pasto deludente, le lampade a petrolio sfrigolavano e fumavano. Per prima, una ragazza molto giovane rivolse la parola in francese al giovanotto seduto al tavolo accanto. Ma questi non diede segni di aver capito e rispose con un vago sorriso. Intervenne, in un francese stentato e con un forte accento anglosassone, un uomo sulla cinquantina, il cui aspetto rispondeva agli stereotipi del viaggiatore occidentale che è vissuto a lungo in oriente; si era già distinto per la disinvoltura con cui si esprimeva nella lingua locale, chiacchierando confidenzialmente con la padrona del losmen. La ragazza rispose in inglese; il giovanotto sorrise e disse di essere americano; e dopo qualche minuto di conversazione a tre, l'ultimo ospite, magro, biondo, sulla trentina, smise di fingere di non capire e si unì agli altri. Disse che era tedesco, esprimendosi anche lui con disinvoltura in inglese.
La sera del 25 luglio 1982, quattro turisti occidentali si trovarono casualmente a passare la notte nel medesimo losmen di Parang Tritis, pochi chilometri ad est di Yogjakarta, nell'isola di Giava. La località era abbastanza lugubre e deserta perché i quattro viaggiatori solitari, che durante la giornata avevano passeggiato da soli lungo la spiaggia, ascoltando il frangersi fragoroso delle onde alte e minacciose, trovassero la voglia e il coraggio di abbandonare libri, lettere e diari per riunirsi allo stesso tavolo. Erano le sei del pomeriggio, ognuno aveva consumato in silenzio il suo pasto deludente, le lampade a petrolio sfrigolavano e fumavano. Per prima, una ragazza molto giovane rivolse la parola in francese al giovanotto seduto al tavolo accanto. Ma questi non diede segni di aver capito e rispose con un vago sorriso. Intervenne, in un francese stentato e con un forte accento anglosassone, un uomo sulla cinquantina, il cui aspetto rispondeva agli stereotipi del viaggiatore occidentale che è vissuto a lungo in oriente; si era già distinto per la disinvoltura con cui si esprimeva nella lingua locale, chiacchierando confidenzialmente con la padrona del losmen. La ragazza rispose in inglese; il giovanotto sorrise e disse di essere americano; e dopo qualche minuto di conversazione a tre, l'ultimo ospite, magro, biondo, sulla trentina, smise di fingere di non capire e si unì agli altri. Disse che era tedesco, esprimendosi anche lui con disinvoltura in inglese.
La conversazione andò avanti per un po',
gradevole e generica; gli argomenti erano i soliti di tutti gli incontri tra
viaggiatori, itinerari, tempi di permanenza, scambi di informazioni su
percorsi, mezzi di locomozione, luoghi dove alloggiare. La ragazza però era
sempre più distratta, assente, imprecisa nelle risposte alle domande che le
venivano poste; finché invece di rispondere al tedesco che le chiedeva
l'indirizzo di un albergo di Bali, incominciò a dire, con voce un po' ansiosa:
"Quello di cui ho veramente bisogno di
parlare in questo momento è un fatto che mi è successo nel tragitto da Yogja a
qui. Di per sé l'episodio è insignificante, ma ha avuto delle conseguenze
gravi, e la mia vita ha subito un cambiamento decisivo, di cui ancora non
riesco ad immaginare la portata; ma sento che è definitivo, e che il mio futuro
ne sarà determinato. Il futuro è per ora la parte più consistente della mia
vita; come vedete, sono molto giovane; mi manca un passato cui fare
riferimento, in cui cercare ragioni e cause, spiegazioni e analogie. La mia
vita è, per usare un'espressione banale, un foglio bianco, una pagina vergine;
e fino a pochi mesi fa anch'io ero vergine. Poi, come succede, quest'inverno ho
incontrato un ragazzo della mia età, con cui ho cominciato a sperimentare tutto
quello che ancora mi era ignoto; il mio corpo, il suo corpo, la sensazione di
potenza e d'importanza che dà l'essere finalmente protagonisti di quanto fino a
quel momento avevo solo visto al cinema o letto nei romanzi d'amore. Insomma,
ognuno di voi avrà vissuto un primo amore, un amore adolescenziale; o almeno ne
ha letto e sentito parlare abbastanza da farsene un'idea. Il mio amico Georges
e io ne siamo stati un'illustrazione vivente. Per di più siamo anche figli di
genitori giovani, democratici, e abbastanza repressi in gioventù da desiderare
di facilitarci le cose; così, dopo un po' di insistenze da parte nostra, ci
hanno dato la loro benedizione e i soldi
per poter realizzare il sogno di ogni ragazzo sensato, il viaggio in oriente,
la mano nella mano, lo zaino sulle spalle, gli occhi spalancati sul mondo
grande e misterioso. Non condannate la banalità dei nostri sogni; prima di
tutto, il fatto di incontrarvi qui mi dice che anche voi ne siete partecipi; e
poi, dobbiamo pure vivere i nostri miti per poterli esorcizzare, se no, che
giovani saremmo?
Siamo partiti due mesi fa, carichi di
vaccinazioni e appuntamenti epistolari al fermo posta. Fino a poche ore fa, il
viaggio è stato bellissimo. Le difficoltà affrontate in comune ci avvicinavano;
le immagini inconsuete e gli incontri insoliti erano ancora più sorprendenti
per il fatto di viverli in due; l'intimità e la tenerezza ritrovate ogni sera
erano potenziate dall'ambiente esotico, meglio poi se disagiato. Oh la
coscienza di essere dei privilegiati in mezzo a un mondo di deprivazioni! la gioia
della povertà e dei disagi vissuti temporaneamente, per scelta e non per un
fato ineluttabile! Insomma, anche queste sono sensazioni che conoscete
benissimo.
Ma per arrivare al fatto che ha modificato
il corso della mia esistenza, stamattina Georges e io abbiamo lasciato la città
molto presto per non viaggiare col caldo e con la speranza di passare la
giornata in un posto tranquillo e isolato. Voi sapete che, dopo aver guadato il
fiume a Kretek, l'ultima parte del viaggio va compiuta a piedi; così ci siamo
avviati lungo il sentiero che porta a Parang Tritis. Cantavamo una canzone che
era di moda quest'inverno a Parigi; parlavamo dei nostri amici rimasti in
Francia; e forse un attimo di nostalgia ha oscurato la dolcezza di quella
passeggiata sotto i cocchi. Io cammino lentamente; dopo un po', Georges mi ha
sopravanzata di qualche metro. "Georges!" ho detto. "Visto da
dietro, il tuo culo mi sembra rotondo come la luna. Le tue spalle sono cadenti!
le tue orecchie appuntite! Georges, girati, non ti riconosco sotto l'ombra
piumosa di questi cocchi, la tua maglietta bianca è diventata verde, il tuo
zaino è una gobba orrenda che porta disgrazia!" Io non so se scherzavo o
se in me parlava una Monique più sincera, che per la prima volta riusciva a
dire quello che la Monique dei film per adolescenti e dei romanzi rosa non
aveva mai detto. Quello che so è che non mi aspettavo che quando Georges si è
girato, non l'ho più riconosciuto: le sue orecchie erano davvero appuntite, il
suo naso si era allungato, le sue guance erano rosse e rotonde, la sua bocca
non aveva più nessuna rassomiglianza con la dolce bocca che tutte le sere
percorreva il mio corpo con timida curiosità e inconsapevole autorità; Georges
non era più Georges. "Monique!" mi ha detto. "E tu chi sei? Perché
le tue braccia sono lunghe, i tuoi seni mi minacciano, i tuoi capelli hanno
cambiato colore, le tue unghie sono scarlatte? Monique, dove sei andata? E tu,
straniera dalle cosce magre, chi sei?
Non posso continuare il viaggio con te; non ti conosco, non mi piaci abbastanza
per aver voglia di affrontare con te la fatica di una conoscenza nuova, voglio
tornare indietro nell'albergo accogliente dove ho dormito stanotte, dove
c'erano dei ragazzi della mia età con cui potevo parlare di posti che abbiamo visitato
in momenti diversi, loro con le loro amiche, io con una certa Monique che stava
con me fino a poco fa e che ora non so dove sia finita." E lì, all'ombra
cangiante e frusciante dei cocchi, vicino a un boschetto di manghi e banani che
sembrava la pubblicità di un'agenzia di viaggi, ci siamo divisi i soldi che
avevamo messo in comune e quella parte di bagaglio che apparteneva a entrambi.
Io adesso ho il mio passaporto, dei
traveller's chèques, uno spazzolino da denti tutto per me e niente dentifricio;
ma so per certo che non vedrò più Georges, che in questo momento sta
raccontando la stessa storia a dei viaggiatori in tutto simili a voi in un
losmen di Yojakarta, e se il prossimo inverno ci incontreremo a Parigi, per
strada, non ci riconosceremo neppure, perché io non sono più sicura se Georges
aveva veramente le orecchie appuntite, né se il suo culo era rotondo o piatto o
a pera. Ma ditemi una cosa: secondo voi, le mie cosce sono magre? e le mie
unghie, vi sembrano scarlatte?"
I tre uomini guardarono la ragazza con una
certa attenzione, ma nessuno di loro sembrava aver qualcosa da dire. Forse, il
cinquantenne le guardò le cosce più a lungo del necessario; forse quello che increspava
le sue guance ispide era un sorriso; ma nessuno dei tre parlò per qualche
minuto. Infine, il tedesco ruppe il silenzio pieno di sibili e ronzii.
"Questa storia" disse "me ne
fa venire in mente un'altra, con cui ha molti punti in comune. O forse non ne
ha nessuno, e l'unica ragione per cui ci vedo una somiglianza è che anch'io ho
voglia di parlarne. Potrei dirvi che è successa a un mio amico; ma nessuno mi
crederebbe, quindi tanto vale che dica subito che è successa a me. Anch'io,
malgrado il fatto che ora mi vedete qui solo, sono partito con una persona
cara, una donna, e pur avendola molto amata, sapevo già partendo che questo era
un viaggio d'addio. Le ragioni non hanno importanza; semplicemente, la nostra
storia non aveva possibilità di continuare. Io ne avevo la consapevolezza
totale, ma la mia amica - penso, suppongo, ma non credo di peccare di
presunzione nel dirlo - sperava che questo viaggio sarebbe stato una prova
d'appello. I primi tempi quindi furono molto penosi. Io cercavo di prendere le
distanze, di staccarmi, lei cercava di riconquistarmi, o meglio, visto che il
mio amore per lei sussisteva malgrado tutto, di legarmi a sé con la passione,
facendomi verificare ogni giorno e ogni notte - soprattutto - la forza del
nostro legame. Dopo un po' io riuscii a dimenticare quello che sarebbe successo
al ritorno; lei, non lo so.
Giungemmo ad Agra, città tra le più
sgradevoli del mondo. Ambedue la conoscevamo già, ma io
sono un appassionato fotografo, e volevo vedere se mi sarebbe stato possibile
carpire delle immagini insolite del Taj Mahal. Arrivammo una sera in treno, e
la mattina dopo cercammo di farci portare al Taj Mahal; dico cercammo perché in
quella detestabile città è impossibile sfuggire alla mafia che lega i
conducenti di ricsciò con i commercianti. Non riuscimmo a sottrarci e così,
dopo penose visite a marmisti, liutai e antiquari, fummo sorpresi da un
acquazzone e ci rifugiammo nella bottega di un gioielliere, che ci raccontò di
essere un bramino, ex ufficiale in pensione alla ricerca di un po' di benessere
nel commercio. Era l'una dopo mezzogiorno, faceva un caldo terribile malgrado
la pioggia, e ben presto il bramino si accorse che i suoi modesti gioielli non
ci interessavano affatto. Ci offrì un tè, si asciugò la fronte e cominciammo
una conversazione tra le più sgradevoli che abbia sostenuto in vita mia.
Il bramino ci rivelò di essere uno studioso
di chiromanzia; non per mestiere né per lucro ma per passione, per la coscienza
di avere un grande dono da amministrare in favore di tutta l'umanità, forse
anche un po' per la gloria. Si dimostrò fin dall'inizio molto attratto da me.
Disse che ero un uomo interessante e manifestò il desiderio di leggermi la mano
per pura simpatia. Io ero lusingato e incuriosito; le mie precedenti esperienze
di lettura della mano in India erano state banali, del genere "Hai la
conoscenza, avrai un'eredità, otto figli e morirai a novantun anni". Mi
sottoposi quindi volentieri a questa prova. La mia amica era nervosa, il
bramino non le rivolgeva mai la parola, sembrava non la considerasse altro che
un accessorio, uno dei tanti elementi del complicato bagaglio dei viaggiatori
occidentali. L'unica volta che le aveva rivolto la parola era stato per
chiederle se eravamo sposati; avuta una risposta negativa, assunse con lei un
comportamento così villano che neanch'io l'avrei tollerato in altre
circostanze; ma una strana tensione e una frenesia di conoscere il mio destino
mi stava facendo perdere la percezione di tutto quello che mi circondava,
compresa la mia amica e il suo crescente disagio.
La lettura della mano cominciò e una
tensione quasi intollerabile si instaurò tra di me e l'uomo che mi teneva la
mano destra. Dopo una mezz'ora trascorsa nel silenzio più assoluto, in cui si
sentiva solo il nostro respiro affannoso e i rumori della via, ora assolata e
addormentata nel calore del primo pomeriggio, il bramino si interruppe, mandò
un ragazzetto che ci aveva presentato come suo figlio a prendere degli altri
bicchieri di tè (solo a me aveva chiesto se preferivo tè, caffè o una bibita
fresca, era sottinteso che la mia amica avrebbe bevuto quello che io avevo
scelto) e incominciò a raccontarci una serie di storie incredibili a riprova
della sua capacità di divinazione. La più terribile che ricordi era questa:
aveva predetto alla moglie, che non voleva crederci, la morte della figlioletta
più giovane. Giunto il giorno segnato dalle stelle, la bambina era vispa e
allegra come sempre; ma verso mezzogiorno aveva cominciato a manifestare i
primi segni della malattia e al tramonto era morta. La moglie ne portava ancora
il lutto; ora stava al capezzale di un altro figlio ammalato. La mia amica poco
dopo fu invitata a visitarla nelle sue stanze, e ritornò col racconto di una
donna giovane e affranta, prostrata
accanto a un bambino febbricitante; ancora in grado, però, di apprezzare il regalo
di un campioncino di profumo francese e di chiederne altri.
Il bramino mi prese la sinistra e disse:
"C'è una donna nel tuo futuro; ora leggerò la mano di questa donna qui,
per vedere se è lei". Alla fine della lettura disse, rivolgendosi sempre
ed esclusivamente a me: "Non ti preoccupare di costei; lei non c'entra; la
donna che conta è un'altra". La mia amica a questo punto uscì; credo che
volesse respirare un po' d'aria, fuori dall'atmosfera soffocante del piccolo
negozio tappezzato di stuoie in cui il bramino continuava a fumare senza
interrompersi che per bere o asciugarsi la fronte. Ma in strada il sole era
bruciante, l'uomo del ricsciò insisteva per portarci in altri negozi, e dopo
pochi minuti lei era di nuovo dentro. Il bramino la guardò severamente.
"Sei mia ospite" disse "e dunque che cosa vai a fare in strada,
non stai bene qui da me?" Io mi rendevo benissimo conto che lei era
sull'orlo del crollo nervoso, ma non riuscivo a sottrarmi all'eccitazione che
mi trasmettevano quelle mani sudate che tenevano le mie, quella fronte sudata
che mi stava davanti, quel respiro che a momenti diventava un rantolo. Le
ripetevo: "Sento un fluido quando mi tiene le mani, è una cosa che non ho
mai provato, quest'uomo ha dei poteri". Lei annuiva. Il caldo, la
tensione, la stanchezza mi annebbiavano la mente a tal punto che mi era ormai
impossibile parlare o comprendere l'inglese e la mia amica faceva da interprete
in questo dialogo virile dal quale era esclusa.
Continuò così tutto il pomeriggio; prima la
destra, poi la sinistra, poi le due palme insieme; le mie mani, quelle della
mia amica. Il sole tramontò, giunse la sera e alle sette e mezza ci rendemmo
conto che ci restavano solo due ore per tornare all'albergo, fare una doccia,
mangiare qualcosa e prendere i bagagli; il nostro treno partiva alle nove e
mezza. "Tornate tra un'ora" disse il bramino "vi darò il
responso della mia lettura; lo scriverò di mio pugno e avrete il tempo di
leggerlo con calma in treno". La cena fu triste e silenziosa; io e la mia
amica ci incontrammo un attimo davanti allo specchio del lavandino del
ristorante, lavandoci le mani prima del pasto; ma i nostri occhi non riuscirono
a incontrarsi nemmeno lì, e abbassammo lo sguardo, scivoloso e sfuggente come
il sapone che rigiravamo tra le mani. Sul ricsciò che ci conduceva dal bramino
rimanemmo in silenzio; e ritirando i fogli scritti con calligrafia ondulata e
approssimativa, ci veniva difficile pronunciare le parole di ringraziamento che
la situazione richiedeva. "E' da questa mattina che non mangio" disse
il bramino che continuava a sudare, "per scrivere questi fogli non ho
potuto cenare".
Alla stazione il rumore e la folla erano
così simili al rumore e alla folla di qualsiasi stazione indiana che ne fui
quasi consolato; eppure, sono sicuro che Agra non è simile a nessun'altra città
indiana. "Vado a riempire il termos di tè" disse la mia amica.
Mancavano tre minuti alla partenza, per cui dissi "No, aspettiamo la
prossima stazione, non c'è fretta, il tè si trova dappertutto". Ma lei
scese, con il termos stretto in mano e la sua borsa a tracolla. Questo mi stupì
un po'. I tre minuti passarono, e il treno cominciò a muoversi. Non ero ancora
preoccupato; i treni indiani sia avviano così lentamente che anche uno
sciancato riuscirebbe a salirvi. Ma la mia amica che non era sciancata era lì
ferma davanti al finestrino, immobile con il suo termos in mano, e sul suo viso
non c'era nessuna espressione, solo delle gocce di sudore come sul viso del
bramino chiromante. Non l'ho più vista né la rivedrò più naturalmente. Ora io
posseggo due pettini, due spazzolini da denti, due zaini, due sacchi a pelo; ma
lei, vorrei sapere, che tipo di viaggio può fare con un termos come tutto
bagaglio?"
Questa volta il silenzio non durò a lungo.
Il giovanotto americano sbottò impetuosamente, senza quasi attendere che
l'altro chiudesse la bocca:
"L'unica cosa che provo sentendo le
vostre storie è invidia. Vi invidio perché tutti e due siete partiti con
qualcuno; con un progetto, un sogno, preparato in comune, con una persona
disposta a dividere con voi le esperienze e il letto. Ma io sono partito da
solo: e orgoglioso, fiero della mia solitudine scelta e voluta. Sono in viaggio
ormai da quasi un anno. Per qualche mese, ogni giorno mi sono congratulato con
me stesso per la mia forza e la mia capacità di bastare a me stesso. La solitudine
amplificava qualunque sensazione provassi; quali emozioni squisite,
intensissime, ho ricavato dalle mie passeggiate solitarie lungo i ghat di
Benares o sui sentieri rocciosi che portano ai monasteri del Ladak! Com'era
importante non dover dividere con nessuno i pensieri altissimi e profondi che
sgorgavano dal mio cervello sovreccitato dopo una giornata di perfetta
solitudine passata a remare sul Dal Lake! E ogni incontro casuale, sia con
altri viaggiatori che gli abitanti dei luoghi che visitavo, lo vivevo con
totale disponibilità e un brivido di eccitazione per le potenzialità che
portava con sé.
Fu solo quando giunsi in Tailandia che
qualcosa cominciò a non funzionare più. Dapprima si trattò di futili segni che
in altri momenti avrei liquidato ridendoci sopra; ma la solitudine, e lo stato
di eccitazione cui la solitudine aveva portato la mia mente, mi costrinsero ad
affrontare il fatto che una crepa di disagio cominciava a incrinare la facciata
della mia serenità. Mi rifugiai su di un'isola. Le spiagge erano splendide, la
vita si snodava impercettibilmente secondo ritmi lentissimi che tuttavia non lasciavano
tempo per pensare a niente, né per desiderare altro che non fosse un tramonto
per completare un'alba, e un'alba per completare un tramonto... finché una
mattina al risveglio trovai un cobra
arrotolato ai piedi del letto. Non fu la paura della morte a farmi abbandonare
l'isola, ma la consapevolezza che qualche forza oscura, dentro o fuori di me,
stava moltiplicando i segni di avvertimento. Stava succedendo qualcosa di cui
non avevo più il controllo, e l'unica soluzione che mi venne in mente fu la
fuga.
La sera dopo ero a Kuala Lumpur; per
qualche giorno mi divertì l'assurda mescolanza di Cina e Islam, di Hilton ed
edifici vittoriani; poi sentii la necessità di abbandonare la città, di
rifugiarmi in un posto tranquillo, di rivedere il mare. Scelsi Port Dickson
perché era vicina alla capitale; ero stanco di spostamenti lunghi e faticosi.
Arrivai nel primo pomeriggio e mi accorsi immediatamente che avevo fatto una
scelta infelice. La cittadina era squallida, i caffè sul lungomare vuoti, la
gente mi guardava insistentemente con curiosità malevola, il mare era una viscida
distesa di fango nero e puzzolente... Alle sei di sera ero seduto sulla veranda
della guest-house, profondamente annoiato e depresso, chiedendomi come avrei
passato la serata. Vi erano solo altri due ospiti, una coppia malese che dopo
tre minuti di conversazione se ne andò in
qualche luogo di divertimento e
perdizione celato nei dintorni. Un
ragazzetto mi portò un piatto di rambutan, aperti e preparati, da parte del
manager, impietosito dalla mia figura solitaria sulla veranda, avvolta da una
nuvola spessa di zanzare e incapace di inventare un modo per passare
piacevolmente il tempo.
Io non so se la colpa sia stata dei
rambutan, frutti che ho sempre detestato per il loro aspetto osceno, tanto più
quando sono spaccati in due come quelli che stavano sul piatto davanti a me; o
se fu la rabbia di vedere che la mia preziosa solitudine era oggetto di
compassione per un infelice abituato a vivere in un posto tanto squallido; so
solo che mi alzai, andai in camera a prendere un pacco di carta da lettera e
per tutta la notte scrissi, scrissi, scrissi, lettere orribili e sincere a
tutti i miei amici in America, lettere di quelle che non si dovrebbero scrivere
mai, lettere che non si potranno mai più cancellare né strappare perché non
chiedevano niente, non portavano niente, dicevano solo cose a cui nessuna
amicizia potrà mai sopravvivere, per quanto io possa dire o fare per tutto il
resto della mia vita. Ed erano lettere sincere: non una parola scritta quella notte mi sembra inutile o
falsa: solo che ci sono parole che non dovrebbero uscire dalla bocca o dalla
penna in nessun caso, per quanto calda, opprimente e piena di zanzare possa
essere la notte. Scrissi fino all'alba; e la mattina dopo, quando l'ufficio
postale aprì, ero il primo della coda che aspettava fuori.
Ora le mie lettere sono arrivate a
destinazione da molto tempo, io ho continuato il mio viaggio e ancora per
qualche mese non ritornerò in America. I segni non si sono più ripetuti, ma il
mio disagio è cresciuto col tempo. Adesso odio la mia solitudine, che mi sembra
una pianta maligna che mi soffoca con la sua ombra velenosa; ma quella sera
sulla veranda della guest-house di Port Dickson, quel piatto di rambutan,
l'hanno resa una condizione stabile, il bastone intorno a cui la mia vita si
avvolge, e quando sarò di ritorno in America potrò verificarne la misura e la
portata, e diventerà definitiva."
Ancora una volta si fece silenzio intorno
al tavolo, sotto al lume sfrigolante. Giunse silenziosamente la padrona; si
affaccendò per qualche istante intorno alla fiamma sottile e fumosa, che alla
fine si erse chiara e brillante. La donna se ne andò, ma i quattro rimasero in
silenzio; la ragazza e il tedesco sembravano addormentati. Il viaggiatore che
non aveva ancora parlato disse:
"Naturalmente ora è il mio turno: e
anche se il pubblico è distratto, non perderò quest'occasione. Anche io, come
voi, sono un viaggiatore, ma la mia non è una condizione temporanea. Il mio
viaggio è cominciato più di vent'anni fa, e non è ancora terminato. I miei
genitori erano olandesi; ma io trascorsi l'infanzia e la giovinezza, fino alla
fine degli studi universitari, in Inghilterra. Durante questo periodo vidi i
miei genitori forse due volte; vivevano a Giava, dove mio padre possedeva delle
piantagioni. Un giorno mi giunse la notizia che erano morti entrambi, a pochi
giorni di distanza l'uno dall'altra, vittime di una malattia tropicale di cui
non ricordo il nome. La notizia di per sé non mi sconvolse, ma mi attirava
l'idea di vedere quei paesi di cui mi parlavano nelle loro lettere e dove io
non ero mai stato. Venni a Giava, liquidai i miei possedimenti (appena in tempo
perché i giorni degli olandesi in Indonesia erano contati) e partii alla
conquista del mondo. Ma mi fermai quasi subito, a Singapore. Avevo incontrato
una ragazza, una cinese, e con lei e altri membri della sua numerosa famiglia
misi su un'impresa commerciale che prosperò e prospera tuttora; almeno così
credo perché ho lasciato Singapore da alcuni mesi, e non ho mantenuto i
contatti con nessuno. Il mio viaggio ora è una fuga. Sono fuggito dal
benessere, da una casa troppo accogliente, da una donna con cui vivevo da
vent'anni, da due figli adolescenti. Sono fuggito perché mi sono ricordato
improvvisamente che vent'anni fa ero partito alla conquista del mondo, e mi
sono fermato alla prima tappa. Sono partito, ma non sono ancora arrivato da
nessuna parte, e nel mio viaggio manca un episodio da raccontare la sera per
ingannare la noia e dimenticare le zanzare. Niente di quello che ho vissuto ha
abbastanza valore da essere tradotto in parole.
La mia storia può essere raccontata al
futuro: un giorno sbarcherò in qualche porto lontano, alle Molucche o in Nuova
Guinea, e in una baracca sul molo un allegro poliziotto mi darà un formulario
da riempire. Motivo della visita: turismo? affari? studio? o altri, meno
confessabili? E io scriverò, in stampatello accurato: conquista del mondo,
ricupero di sogni adolescenziali. Durata della visita? una vita, risponderò,
anche se forse la mia è già finita e neanche me ne sono accorto. Luogo di
provenienza? un lungo sonno. Prossima tappa prevista? non lo so, è molto tempo
che ho smesso di cercare di prevedere il futuro. A questo punto il poliziotto
sarà molto meno allegro; e con ogni probabilità il mio passaporto sarà
trattenuto, e qualcuno scoprirà un'irregolarità nel visto. Intorno a me ci
saranno cinque o sei poliziotti, altrettanti doganieri, un corrispondente del
console olandese e almeno un missionario. "Caro signore" mi dirà
qualcuno nella mia lingua natale "ma lei è sicuro che era proprio diretto
qui?" "No di certo" risponderò "non ne sono sicuro
affatto." "Allora ci pensi bene: la sua nave è ancora nel porto, lei
è ancora in tempo a ripartire." "Occhèi padre" risponderò
"lei ha ragione, questo non era certo il luogo cui ero diretto; d'altra
parte non ho idea di dove ero diretto. Volevo conquistare il mondo; lei sa
dov'è, per caso?" "Bravo ragazzo, vedo che lei ha perfettamente
capito il punto; sia gentile, prenda i suoi bagagli e riparta; vedrà che a bordo
si troverà benissimo, il capitano è un'ottima persona, molto comprensivo".
E la stessa cosa succederà quando sbarcherò a Darwin, a Christchurch, o a
Papeete; finché anch'io incontrerò un bramino chiromante, o troverò un sentiero
all'ombra dei cocchi, o una veranda afosa e un piatto di rambutan. E forse la
prossima volta che mi troverò a scambiare esperienze con dei casuali compagni
di viaggio, racconterò proprio questa serata a Parang Tritis. Oppure domani
ritornerò a Yogjakarta e prenderò un aereo che mi porterà indietro, a
Singapore, e magari scoprirò che nessuno, in questi mesi, ha avuto il tempo di
accorgersi della mia assenza. Ma vedo, cari signori, che la mia storia priva di
fatti e tutta proiettata nel futuro non vi diverte molto. Buona notte."
In
effetti, gli altri tre viaggiatori si erano addormentati e, scivolati
sulle scomode sedie, giacevano ora nelle
pose più scomposte. Al saluto dell'olandese si riscossero a fatica, mormorarono
un "Buona notte" frettoloso, poi ognuno raccattò le proprie cose e si
ritirò nella propria stanza.
La mattina dopo, a colazione, i tavoli
occupati erano di nuovo quattro; e quando l'olandese, poco più tardi,
attraversò la tettoia del ristorante con una sacca da viaggio sulla spalla e si
avviò verso il sentiero che portava in città, nessuno alzò la testa da diari,
lettere e libri per augurargli buon viaggio né per chiedergli quale fosse la
sua meta.
La prima cosa che mi viene da dire è che è difficile credere che questo sia "il primo racconto che hai scritto in assoluto", non perché credo tu sia bugiarda, ma perché forse non ci intendiamo sul termine "primo racconto".
RispondiEliminaCredo che tu abbia scritto decine di racconti prima di questo, magari solo abbozzati?
Forse intendevi "il primo racconto compiuto, terminato, definitivo"?
Non ti sto facendo i complimenti (non in questo momento, intendo), ma questo racconto non ha proprio l'aria di un "primo racconto in assoluto": l'impressione che mi dà è che sia molto pensato, provato, forse riscritto.
Personalmente avessi scritto un primo racconto in assoluto come questo non saluterei più nessuno per quanto me la tirerei! :))
Però cribbio, se è davvero un "primo racconto in assoluto" hai davvero ben poco di cui vergognarti!
Attenzione, non dico che sia un capolavoro, e anzi la scrittura in certe parti mi pare un po' forzata (oh dio, io che critico una delle mie scrittrici preferite!!! Non c'è più religione!!!) e conoscendo i tuoi libri, e amandoli, devo dire che sono contento che la tua scrittura sia cambiata.
Di questo racconto mi è piaciuta molto la storia come cornice, il plot (si dice?) e le quattro storie particolari, mi è piaciuto che non ci sia una conclusione consolatoria, mi sono piaciute molto le trovate (non so come si dica in termini letterari...), la fantasia, insomma me lo sono goduto!
Ma sono contento che oggi scrivi in un modo diverso, i tuoi racconti pubblicati scorrono di una fluidità che questo primo racconto non ha, fanno immergere il lettore dopo pochissime parole, invece in questo racconto prima di sentirmi coinvolto è passato qualche paragrafo.
Accidenti, dev'essere proprio difficile scrivere bei libri e bei racconti e per me voi scrittrici e scrittori siete un po' maghe e maghi, perché davvero: ma come diavolo fate?!?
[Per un attimo mi sono detto: non scrivo un commmento, queste cose gliele dico poi in privato la prossima volta che ci vediamo - spero presto! - ma poi, diaminbe, se non posso essere sincero con te anche pubblicamente, con chi?...]
Ti bacio e ti abbraccio forte.
Il tuo affezionato lettore (e amico)
Caro affezionato amico (e lettore) giuro sul mio onore (ehm) che questa è la prima cosa di narrativa cosciente di sé che ho scritto. Il mio primo tentativo, preceduto solo da diari assolutamente lontani da ogni pretesa narrativa, lettere e roba così. Il primo davvero, la prima volta che mi sono messa lì (davanti a una macchina da scrivere) e ho detto: adesso scrivo un racconto, perché ero piena di storie che dovevano venire fuori. Infatti mi ricordo la data precisa. Dopo sono venuti quasi dieci anni di scrittura solitaria prima di trovare il coraggio di fare leggere qualcosa e soprattutto prima del momento in cui ho sentito che avevo scritto quello che volevo con le parole che volevo, il che a un certo punto finalmente è successo. Questo primo tentativo è sempre rimasto lì, anch'io sentivo che le cose che volevo dire c'erano ma non c'era la scrittura. E perciò ho lavorato tanto, e duro, e in solitudine. Ma l'altro giorno mi è tornato in mente e l'ho trovato in un angolo del pc (sai che quest'estate ho avuto il disastro perfetto, non credevo di averlo più) e mi è venuta voglia di tirarlo fuori. Certo è scritto in modo ingenuo, forzato, soprattutto inesperto, da una superlettrice che però non aveva mai provato a scrivere una parola. Però, mentre una volta mi sarei fatta tagliare una mano piuttosto che farlo leggere, adesso ho detto chi se ne frega? non sapevo scrivere, e allora? poi spero di avere imparato. Le storie comunque erano già le mie. E a te Orlando, grazie stragrazie di avermi letto e avere trovato il tempo di scrivermi le tue osservazioni sulle quali sono d'accordo al cento per cento.
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