LA VOCAZIONE
Nell'isola
il monastero non godeva di buona fama. C'era chi diceva ci fossero i fantasmi -
il solito fantasma della monaca monacata contro voglia, senza tenere conto del
fatto che era stato un monastero maschile - e chi sosteneva che era frequentato
dalle coppie adultere per consumarvi i loro misfatti; ma questo era sicuramente
falso perché c'erano decine di posti più vicini e più adatti allo scopo.
Secondo una voce mai provata, vi si era svolto un fatto di sangue quando era
ancora abitato, così terribile e immondo che solo i vecchi avevano il coraggio
di parlarne, dopo essersi fatti il segno della croce: un delitto di gelosia tra
monaci. Sta di fatto che il monastero era lì, in cima all'unica montagna
dell'isola, raggiungibile solo per un sentiero che anche i muli temevano di
affrontare: deserto, cadente, pieno di topi e pipistrelli, ma anche di tesori
abbandonati, codici miniati, icone, affreschi mangiati dalla muffa e arredi
sacri tempestati di pietre preziose e smalti. Nessuno ne ricordava l'esistenza
fuori dell'isola e nessuno degli isolani era così malvagio, o coraggioso, da
andarvi per rubare o anche solo verificare se le dicerie erano vere.
Così,
quando Eleni, una grossa vedova senza figli che viveva della carità pubblica e
di una piccola pensione del marito morto in mare, cominciò a dire che voleva
andare a stabilirsi nel monastero per vivere in preghiera, tutti pensarono che
gli stenti e la vedovanza le avessero tolto definitivamente la ragione. Era
sempre stata una donna strana, solitaria, che non si era mai integrata nella
vita del villaggio, né si sapeva da dove venisse; Stavros l'aveva portata
nell'isola trent'anni prima, quando era una bella ragazza alta e robusta, con
occhi neri troppo grandi e mani come palette per la cenere. Finché Stavros era
stato vivo, Eleni gli si era dedicata completamente, senza dare confidenza a
nessuno nei lunghi periodi in cui lui, marinaio, se ne stava lontano; e
nessuno, sull'isola, le aveva dato completa fiducia, soprattutto dopo che fu
evidente che il suo matrimonio era destinato a rimanere sterile. Una donna
sposata (e tutto sommato, anche non sposata) senza figli era quasi indecente,
non si doveva fidarsene; Eleni, poi, non sembrava neanche dispiaciuta. Ormai
Stavros era morto da quattro anni, ma lei era rimasta sull'isola, perché
probabilmente non aveva nessun posto a cui ritornare; gli isolani l'avevano
aiutata quando era stato necessario, senza perdere la diffidenza nei suoi
confronti.
Ecco
perché, quando una domenica mattina all'uscita dalla chiesa Eleni annunciò la
sua intenzione di trasferirsi nel monastero, nessuno le diede retta, gli uomini
andarono alla taverna, le donne a casa a preparare il pranzo senza nemmeno
risponderle. Ma Eleni non si dette per vinta, e la sera, all'ora di cena, si recò
a casa del pope per comunicargli la sua decisione. Il pope, seduto a tavola con
la moglie e i numerosi figli, quando la vide arrivare sbuffò senza ritegno.
"Che
vuoi?" le disse bruscamente.
"La
tua benedizione, perché voglio rifugiarmi nel monastero a pregare per i vostri
peccati. Sono stata chiamata e intendo rispondere."
Il pope la
guardò a bocca aperta.
"Chiamata?
Chi ti ha chiamata, che cosa vuol dire?"
Era
indignato per essere stato interrotto nella cena domenicale, un pasto di tutto
rispetto che amava consumare nel sereno raccoglimento della famiglia. Eleni,
inconsapevole del fastidio che aveva arrecato, se ne stava in piedi nella
piccola stanza, davanti alla tavola apparecchiata, senza curarsi degli sguardi
curiosi dei bambini. Dalle pareti la guardavano severamente le fotografie
incorniciate di nero degli antenati.
"Faccio
dei sogni," disse Eleni "tutte le notti faccio dei sogni e ho delle
rivelazioni da fare a tutti. I sogni mi guidano, mi dicono che cosa devo fare".
Il pope era
sconcertato.
"Dei
sogni? Delle rivelazioni? Il monastero? Ma tu sei matta, figlia mia! Vattene a
casa e sogna quell'anima santa di tuo marito che almeno era una persona sensata
e non diceva sciocchezze come te".
Faceva
segni a sua moglie perché intervenisse e prendesse in mano la situazione, ma la
donna, timida per carattere, se ne stava seduta in mezzo ai figli senza dire
una parola.
"Vai a
casa, Eleni, te ne prego, e facci una dormita sopra".
Eleni andò
a casa, ma non rinsavì. La mattina dopo, all'ora in cui le due taverne aprivano
le porte e i proprietari uscivano a gettare acqua sul selciato polveroso, lei
era già lì vestita come per un matrimonio, con l'abito nero ornato di pizzo e
una collana di oro e granati. Sedette tranquillamente sotto il grande leccio al
centro della piazza e rimase a guardare il traffico delle sedie che venivano
portate fuori, dei tavolini di legno verniciato di azzurro lavati con gli
stracci sporchi, delle prime tazze di caffè servite da ragazzini assonnati.
Guardava tutto con i suoi occhi neri troppo grandi, e non apriva bocca malgrado
tutti la osservassero curiosamente. Ma a nessuno veniva in mente di rivolgerle
la parola.
Quando
sulla piazza cominciarono a comparire le donne che si recavano alla bottega per
comperare due pomodori o mezzo chilo di fagioli, Eleni si alzò in piedi e si
mise a parlare a voce alta ma calma, con la sicurezza di chi ha qualcosa da
dire e sa che tutti la ascolteranno, perché le sue parole sono importanti.
"Statemi
a sentire" disse "tutti quanti, ma soprattutto voi, donne, che ho un
annuncio da farvi. Tempo fa ho fatto un sogno: ero sulla montagna, vicino al
monastero, raccoglievo ginepro e origano. C'era un gran vento e una gran luce,
e a un certo punto mi è apparsa la Santa Trinità, che portava nere vesti, lunghe
fino ai piedi, e mi guardava terribilmente. Ascolta, Eleni, mi ha detto, ti
devo fare una rivelazione: io sono femmina. Ha alzato le nere vesti fin sopra
il capo, e ho visto che era vero, era proprio femmina, ve lo posso
testimoniare. Ora che sai, mi ha detto, dillo agli abitanti del villaggio, e
poi vieni nel monastero, prega e digiuna e medita per il resto della tua vita.
Da allora, la Santa Trinità mi appare tutte le notti. Ecco l'annuncio che vi
dovevo fare: adesso che anche voi sapete, potete capire perché voglio andare al
monastero".
Finito il
suo discorsetto, si guardò intorno soddisfatta e vide che gli ascoltatori erano
numerosi e attenti. Dalla chiesa stava arrivando di corsa il pope, avvertito da
un fedele che sulla piazza succedeva qualcosa di interessante, dai vicoli
sbucavano altri attirati dall'assembramento. Eleni era salita in piedi sul
muretto di pietra che circondava il tronco del leccio e guardava tutti con
calma.
"Com'era
la Santa Trinità, Eleni?" le chiese una donna.
"Bella,
coperta da nere vesti e neri scialli. Ma adesso sono stanca, torno a casa. Mi
sono alzata presto per pregare. Padre" si rivolse al pope "voglio
andare al monastero. Mi dia la sua benedizione".
Ma il pope
si era voltato e se ne stava tornando alla chiesa, e la nera sottana
svolazzante, la crocchia grigia e la schiena dritta esprimevano tutta la sua
indignazione.
Eleni tornò
a casa, in un vicolo cieco dietro alla piazza, seguita da un gruppetto di donne
che avrebbero voluto ulteriori particolari del sogno. Entrarono con lei nel
cortile, Eleni offrì acqua e caffè, e parlarono ancora insieme fino a che lei
disse che era troppo stanca e si ritirò nella sua stanza. Nella piazza, anche
gli uomini bevevano caffè e discutevano il sogno di Eleni.
Da quel
giorno, tutte le mattine Eleni saliva sul muretto del leccio e raccontava a chi
voleva ascoltarla i suoi sogni della notte, che non cambiavano mai molto: in
tutti compariva la Santa Trinità, e tutti si concludevano con l'espressione
della volontà di ritirarsi a vivere nel monastero. Variavano però le
circostanze del sogno; una volta la Santa Trinità si presentava allattando una
bambina, un'altra volta, "col capo coperto da un nero fazzoletto", si
dava da fare a spolverare e rassettare, ma più sovente si limitava a dare la
prova della sua femminilità esibendo quello che le nere vesti normalmente
avrebbero dovuto celare.
Gli
isolani, all'inizio solamente sconcertati, finirono per appassionarsi a questi
racconti e accorrere sempre più numerosi la mattina nella piazza; la loro
diffidenza si era trasformata in curiosità, poi in interesse e persino
simpatia. Venivano contadini e pescatori che abitavano lontano dal villaggio,
alzandosi all'alba e facendo ore a dorso di mulo o su sputacchianti barchette a
motore per ascoltare le parole di Eleni, poi si fermavano a discutere alle
taverne e nei cortili delle case. Era opinione generale che le novità predicate
dalla donna meritavano di essere esaminate con attenzione. Presto si formarono
due partiti, uno fortemente avverso a quella rivoluzione teologica, l'altro,
prevalentemente femminile, propenso a dare credito ai sogni e a farsene
sedurre. Tutti quanti, dopo un po', cominciarono a pensare che se Eleni ci
teneva tanto ad andare a vivere nel monastero, aveva tutti i diritti di farlo.
Il pope,
turbato, non sapeva quale decisione prendere. Non dava importanza ai
vaneggiamenti della donna, quello che lo preoccupava era il monastero. Gli
isolani lo consideravano loro proprietà ed erano convinti di poter scegliere
che cosa farne, ma lui sapeva che in realtà apparteneva alla Chiesa, solo il
vescovo avrebbe potuto decidere. D'altra parte, il vescovo era lontano, su
un'isola che distava almeno un giorno di viaggio, e a memoria d'uomo non aveva
mai dimostrato nessun interesse per quel rudere.
Tutti i
giorni, dopo il resoconto mattutino, a casa di Eleni c'era una processione di donne che recavano dolci,
zucchero e caffè, rimanendo a parlare con lei fino a quando non si ritirava
nella sua stanza per sognare quello che avrebbe raccontato il mattino dopo.
Qualcuno aveva portato nel suo cortiletto una panca e delle seggiole, e le
chiacchiere fiorivano tra il profumo del caffè e quello del basilico e del
gelsomino che crescevano nelle latte. Eleni, contenta di parlare con le donne,
era prodiga di particolari. Qualche volta anche un uomo faceva la comparsa nel
gruppo di donne vestite di nero, ma era raro. Gli uomini preferivano bere alla
taverna e confabulare tra di loro.
Infine una
delegazione di isolani si recò dal pope per cercare di convincerlo a concedere
a Eleni il permesso di vivere nel monastero; anche sua moglie, che era timida
con gli estranei ma non con lui, perorò la causa. Così, alla fine, il pope
cedette. Una domenica mattina di luglio, quando la chiesa era piena di gente
per la messa, risonante di cori e profumata dal fumo delle candele, il pope
disse:
"Ho
deciso che è giusto che Eleni possa finalmente realizzare quello che sembra
essere diventato lo scopo della sua vita. Potrà andare a vivere nel monastero
quando vuole".
Le candele
tremolavano e anche la voce dei fedeli tremolava per l'emozione. Qualcuno tossì
per nascondere un singhiozzo, le donne si fecero tre segni di croce per
dimostrare la loro contentezza e la riconoscenza per la magnanimità del pope.
"L'accompagneremo
tutti" disse una vecchia, e gli altri annuirono, esprimendo la loro
approvazione con sternuti e applausi. Nel buio della chiesa le camicie bianche
delle donne splendevano alla luce dei ceri sgocciolanti, le loro collane
luccicavano allegramente. Le facce severe dei santi nelle icone sembravano
sorridere e il pope si sentì improvvisamente sicuro di avere fatto la cosa
giusta. Alla fine della messa tutti uscirono nella luce accecante del mattino
estivo e si radunarono sotto il leccio per decidere come si sarebbe dovuto
procedere per accompagnare Eleni al monastero. La causa di tutto quel trambusto
non era presente, perché ormai da settimane disertava le funzioni per restare a
pregare nella sua stanza.
Alcune
donne andarono alla casa di Eleni a comunicarle la buona notizia, mentre gli
altri organizzavano per il pomeriggio una grandiosa processione che l'avrebbe
condotta nella sua nuova residenza. Alle cinque, quando il caldo cominciò a
diminuire, tutto era pronto e la cerimonia ebbe inizio. Il pope aveva accettato
di partecipare, ma a titolo privato e senza paramenti. In testa a tutti veniva
Eleni, vestita col suo abito della festa, i pizzi bianchi ben stirati sul nero
del raso, e subito dopo un gruppo di donne che cantavano salmi in onore della
Santa Trinità; seguivano alcuni giovani che si erano caricati sulla schiena le
cose che Eleni aveva voluto portarsi dietro, il letto, il materasso, rotoli di
coperte, un tavolo e una sedia, fagotti di abiti e biancheria, una grande
fotografia di Stavros in divisa da marinaio, con il bordino a lutto; poi la
maggior parte degli abitanti dell'isola, quelli in grado di affrontare la
salita, con i notabili in testa, il pope, il maestro, e tutti gli altri dietro.
Per una volta donne e uomini finirono per trovarsi insieme, perché anche se
alla partenza erano stati rigorosamente separati, ben presto fu solo la
resistenza alla fatica a stabilire l'ordine di marcia. Molti portavano dei
doni, soprattutto cibo, formaggio, olive, carne cotta, e il sole ancora caldo
del tardo pomeriggio ne traeva profumi violenti e poco mistici. A poco a poco,
le persone più anziane rimasero indietro, i bambini sopravanzarono anche Eleni
e le donne, e la processione finì per assomigliare più a una nera biscia che
scivolava lentamente su per il pendio della montagna che a un corteo trionfale.
Infine
tutti raggiunsero il monastero ed Eleni si installò maestosamente nel
refettorio, che era pressoché intatto. I mobili e i suoi averi furono deposti
ordinatamente dove lei indicava, i regali ammassati sul tavolo, e il pope le
impartì una benedizione piuttosto sbrigativa, perché era ormai quasi buio e la
discesa poteva diventare difficoltosa; nessuno, nell'entusiasmo dei
preparativi, aveva pensato a portare delle lanterne. Gli isolani ripartirono in
gruppo compatto, gli anziani cercando l'appoggio dei figli, i giovani contenti
dell'occasione di poter restare un po' insieme al buio, e la processione si
trasformò per molti in una scampagnata. Gli uomini rimasero fino a tardi nelle
taverne e bevvero più del solito, le donne si scambiarono visite nei cortili e
sulle porte di casa, i giovani riuscirono a darsi più baci quella sera che in
un intero mese, così tutti pensarono con gratitudine a Eleni che sognava i suoi
sogni là in cima alla montagna. Solo il pope era inquieto, si rivoltava nel
letto chiedendosi se aveva preso una decisione saggia.
Il
monastero sembrava una spelonca, ma gli edifici che lo componevano erano ancora
abbastanza solidi. Attorno al cortile interno si aprivano i locali comuni, il
refettorio che prendeva tutto un lato, la farmacia (i monaci erano stati
esperti erboristi), le dispense, la cucina. Separata dal resto degli edifici,
in un angolo del cortile, stava la cappella con il grande coro in cui i monaci
cantavano all'alba e al tramonto, ornata da mosaici dai colori ancora brillanti
e da affreschi affumicati. Al primo piano, lungo ballatoi di legno pericolanti,
si aprivano le celle; proprio sopra il refettorio c'erano la biblioteca e la
sala di lettura. Salendo per una scaletta di pietra si arrivava sul tetto
piatto, protetto verso l'esterno da un muro che dava al monastero il suo
aspetto di fortezza. Di lì si vedevano tutto il pendio della montagna e la
strada che saliva, il villaggio con i frutteti e gli uliveti, in basso i campi
coltivati e il mare, le poche case del porto e il piccolo molo che si stendeva
verso il mare aperto come un indice puntato; sulla destra, in cima al
promontorio, un faro bianco e azzurro. Anche le mura del monastero erano state
bianche un tempo, ma ora erano ingiallite, scrostate, segnate da crepe come
fantastiche carte geografiche.
Eleni si
sentì subito a suo agio e si mise alacremente al lavoro per rimettere ordine.
Spazzò e ripulì, ammonticchiò detriti, sfregò pavimenti polverosi e scacciò i
pipistrelli che stavano attaccati ai soffitti; cercò persino di cancellare la
fuliggine dagli affreschi della chiesa, lavò i pochi vetri ancora interi e
strappò le erbacce che invadevano il cortile. Tempo per fermarsi a meditare
gliene restava poco, ma lavorando in solitudine pensava e la sera era tanto
stanca che andava a dormire con il sole, così i suoi sogni erano lunghissimi.
Passarono
un paio di mesi prima che qualcuno si decidesse a salire al monastero per
vedere come stava; l'estate era troppo calda per affrontare la salita della
montagna arida e rocciosa. Ma verso la fine di settembre un gruppo di donne
cariche di doni partì dal villaggio la mattina presto e raggiunse il monastero
nel momento in cui Eleni, che lavorava dall'alba, si era seduta sotto un fico
in un angolo del cortile per riposarsi e mangiare alcuni frutti che erano
caduti, caldi per il sole, rossi e aperti come una ferita. Il portone del
cortile era spalancato e le donne la sorpresero così, né lei si alzò per
accoglierle, ma rimase immobile a guardarle mentre si avvicinavano, con un fico
in mano a mezz'aria, bloccata nell'atto di portarselo alla bocca. Era tanto
tempo che non parlava che non le venne niente da dire.
Le donne
avevano molte domande da farle e curiosità da soddisfare, ma Eleni doveva
riprendersi dalla sorpresa per ritrovare la disinvoltura necessaria a
raccontare i suoi ultimi sogni. Nel frattempo le altre girarono per i locali
vuoti e ripuliti con grandi esclamazioni di meraviglia, indicandosi i vecchi
armadi pieni di libri, i mosaici, le icone, di cui avevano sempre sentito
raccontare senza averli mai visti. Non erano i tesori di cui si favoleggiava,
ma solo quel che restava degli arredi del monastero, rimasti abbandonati dopo
la morte dell'ultimo monaco che vi aveva abitato, chissà quanto tempo prima. Le
donne ammiravano il lavoro di Eleni, immaginando la fatica che le era costato,
e dopo aver visitato tutto quanto, si riunirono nel refettorio, fresco e
ombroso contro il troppo sole del cortile.
"Come
sei magra, Eleni!" disse una delle donne. "Che cosa mangi? C'è
abbastanza acqua nel pozzo?"
Ma alle
altre non interessavano le condizioni fisiche di Eleni, e la interrogarono sui
suoi sogni, perché questo era lo scopo della visita: volevano sapere se la
Santa Trinità aveva fatto nuove rivelazioni. Eleni, che aveva ritrovato la
parola, raccontò a lungo e la visita si concluse al tramonto con la massima
soddisfazione di tutte. Le donne ripartirono con una lista di oggetti che Eleni
desiderava, tra cui pennelli e colori, e con molte cose da raccontare. La Santa
Trinità aveva dato ulteriori prove della sua femminilità comparendo senza le
nere vesti, in tutta la sua terribile bellezza; Eleni era sempre più ferma
nella volontà di vivere in eremitaggio e preghiera.
Ogni tanto,
durante tutto l'autunno, gruppi di donne, e più raramente uomini, salirono sul
monte portando a Eleni quello che le occorreva. L'opera di pulizia del
monastero era quasi terminata e tra le altre cose che lei aveva chiesto c'erano
sementi e piantine per l'orto, e anche del cemento, che, trasportato a dorso di
mulo, servì a chiudere le crepe più grosse con l'aiuto di pietre e detriti, e a
consolidare i muri crollanti. Così l'eremita si fece anche muratore,
giardiniere, manovale, contadino.
Con
l'arrivo dell'inverno le visite cessarono. Eleni si dedicò ad attività
sedentarie all'interno del monastero, che pur essendo gelido, le offriva riparo
dal vento furioso che squassava notte e giorno la montagna, e dalla pioggia che
quell'anno fu abbondantissima. Non sapeva scrivere che la propria firma, e
leggeva compitando solo i caratteri maiuscoli: ma si mise con impegno a
esaminare i libri pieni di tarli ammucchiati negli armadi scuri della
biblioteca, decifrandone faticosamente i titoli e restando ore a fantasticare
su quello che poteva essere scritto nelle pagine fitte e sotto le figure dorate
e colorate. Tutti i giorni si costrinse a leggere almeno una pagina, e anche se
non capiva quello che leggeva, tuttavia faceva progressi.
Ma
l'attività che più la tenne occupata durante quell'inverno fu un'altra. Nella
cappella, ripulita come si poteva dalla fuliggine, gli affreschi scrostati
delle pareti erano una sfida: teorie di santi barbuti la guardavano con aria di
disapprovazione, pieni di severità e increduli quando lei parlava delle
rivelazioni della Santa Trinità, per cui si mise a ridipingere le figure
trasformandole in sante. L'impresa non era impossibile, perché larghi pezzi di
intonaco erano caduti e bastava completare le figure mezze cancellate con
caratteristiche femminili; era più difficile trasformare le facce barbute, ma
Eleni si scoprì un'insospettata abilità di pittrice e trasse molta
soddisfazione sia dal lavoro che dal risultato. Per dipingere le facce delle
sante si ispirò alle donne che conosceva, così alla fine le pareti della
cappella sembravano una processione al villaggio, in cui tutte le donne
camminavano pregando col capo coperto e le vesti scure, mentre gli uomini non
erano ancora arrivati o erano rimasti a bere alla taverna.
Modificare
i mosaici fu più difficile. Eleni dovette staccare tutte le tessere con cura
per non perderne nessuna, dividerle per colore, ridisegnare le figure sul
cemento fresco e inserire le tessere al loro posto prima che questo indurisse;
ma il risultato fu superbo, e per concludere in bellezza, il grande Pantocrator
dell'abside divenne una Santa Trinità dal capo velato di nero, con gli occhi
bistrati e un sorriso terribile; la mano levata nel gesto benedicente poggiava
su un petto florido e rotondo. Tessere nere nei mosaici originali non ce
n'erano, ed Eleni si scervellò su questo problema a lungo, prima di trovare la
soluzione: le tessere dorate e quelle azzurre e rosse dell'abito di Cristo
vennero annerite a una a una con l'inchiostro rinsecchito che ancora riempiva i
calamai della sala di lettura, sciolto nell'acqua fino a formare una vernice
densa e lucente.
In questi
lavori passò l'inverno, e quando il vento cominciò a tacere e i pendii della
montagna a rinverdire, Eleni capì che le rimaneva ancora un compito: riscrivere
il Vangelo in chiave femminile, di modo che le sue creazioni pittoriche e
musive potessero poggiarsi su una base più solida. Quest'impresa si annunciava
più complicata delle altre per la necessità di fare uso di carta e penna,
strumenti che le incutevano un certo timore. Ormai però si sentiva capace di
tutto, e si mise al lavoro, pensando che si sarebbe trattato di una faccenda
lunga, ma prima o poi ne sarebbe venuta a capo.
Con la
primavera arrivò anche una visita, lo stesso gruppo di donne che per primo era
salito al monastero in settembre. Eleni fu lieta di vederle e di mostrare loro
tutto il lavoro che aveva fatto durante l'inverno; le donne rimasero stupefatte
e ammirate, anche se un po' sconcertate dall'aspetto femminile che aveva
assunto la cappella, soprattutto dalla figura nell'abside. Alcune di esse si
riconobbero sulle pareti e furono lusingate di essere state trasformate in
sante. Avevano portato del caffè, e mentre lo bevevano nel refettorio dove
Eleni continuava a vivere, lei confidò il suo progetto di riscrivere il Vangelo
con un Cristo femmina. Questo le confuse definitivamente; ripartirono ansiose
di raccontare quello che avevano visto e sentito.
Le notizie
portate dalle donne destarono molta curiosità, e le visite al monastero si
fecero più frequenti. Non tutti apprezzarono le innovazioni apportate da Eleni,
nel villaggio cominciarono a circolare mormorii e proteste, soprattutto tra gli
uomini, finché il pope non poté più fare finta di non saperne niente e fu
costretto ad affrontare la faticosa salita per andare a controllare di persona
le voci. Per sentirsi più sicuro, si fece accompagnare dalla moglie e da un
paio di figli, di modo che il suo arrivo al monastero potesse sembrare dettato
più dal desiderio di fare una scampagnata che dalla necessità di controllare
una possibile eresia. Eleni non fu contenta di vederli arrivare, ma li accolse
con dignità e li fece accomodare sotto il fico ombroso e profumato. Il cortile
era trasformato in un orto, con file di tenere piantine che spuntavano ordinate
e fiorite dalla terra arida.
"Allora,
Eleni" disse il pope cordialmente, "come te la sei passata
quest'inverno? Sei sempre sicura di essere fatta per vivere in
eremitaggio?"
Sua moglie
guardava Eleni con timore reverente, chiedendosi come fosse possibile resistere
per tanto tempo in un posto così remoto. I ragazzi correvano urlando e pestando
le aiuole ben coltivate, finché un eloquente sguardo di Eleni li ridusse alla
calma, e si sedettero in un angolo all'ombra addentando il pane e le olive
portati dalla madre.
"Sono
certa sì, padre," rispose lei "ho lavorato moltissimo, e ho fatto un
buon lavoro, credo. Non vede come è ben tenuto il cortile, come sono aggiustati
i muri? Venga a vedere dentro, come tutto è in ordine e pulito".
Ma al pope
interessava poco che il posto fosse pulito, lui voleva vedere la cappella per
verificare con i suoi occhi se quello che aveva sentito era vero. Eleni ve lo
accompagnò. Dentro faceva un caldo soffocante e l'aria odorava di cera. Le
candele fornite dalle donne del villaggio brillavano sull'altare e davanti agli
affreschi rinnovati. Il pope, accecato dalla luce del sole, ci mise un po' a
mettere a fuoco le immagini che popolavano le pareti e l'abside, ma quando ci
riuscì, per poco non si mise a gridare per l'agitazione. Riuscì con sforzo a
trattenersi e senza far commenti uscì nel cortile. Il resto della visita fu
velocissimo e poco dopo, trascinandosi dietro moglie e figli a passo di corsa
sul sentiero pericoloso, tornò al villaggio in preda alla paura. Chi poteva
assicurargli che l'ira divina non si sarebbe scatenata sull'isola quella notte
stessa? Scrisse immediatamente una lunga lettera al vescovo; per fortuna la
mattina dopo sarebbe passata la barca che svolgeva il servizio postale.
Ma prima che giungesse una
risposta, l'isola fu distratta da una novità. In una baietta deserta attraccò
un grosso yacht a motore, appartenente a un ateniese rumoroso e gioviale, che
tutte le mattine si faceva accompagnare al porto in fuoribordo da un marinaio;
poi affittava un mulo, saliva al villaggio, e trascorreva la giornata alla
taverna, parlando con chi gli capitava e ricevendo la visita dei notabili.
Sembrava avere un sacco di soldi e grandi progetti: ben presto convinse un
possidente a vendergli la terra attorno alla baia dove aveva attraccato, e
annunciò che vi avrebbe costruito un albergo di lusso. Fu raggiunto dopo
qualche giorno da un gruppo di persone che si misero a girare per il villaggio
visitando le case che avevano stanze libere da affittare, per vedere se erano
adatte; poi cominciarono a parlare di una strada carrozzabile per unire il
porto al villaggio, e di bagni, e di docce, e di impianti di desalinizzazione
dell'acqua, e di ristoranti, e di cavi telefonici e di traghetti giornalieri, e
di mille altre cose che facevano girare la testa agli isolani. Certo, ogni
tanto qualche turista era già arrivato fin lì, aveva preso alloggio in una casa
del villaggio o si era fatto ospitare dai pescatori che vivevano nelle baie
raggiungibili solo in barca; qualche yacht attraccava al molo e più di una
volta nelle due taverne della piazza si erano visti gruppi di gente vociante
che sembravano divertirsi un mondo a mangiare sui tavolini traballanti,
trovando "deliziose" le insalate paesane e "incantevoli" i
marmocchi che li fissavano a bocca aperta, ma l'idea di uno sfruttamento
turistico dell'isola non era ancora venuta a nessuno. L'ateniese parlava di
cifre enormi, proponeva prestiti, prometteva guadagni, agitando le mani su cui
scintillava una pietra preziosa grossa e rossa come l'occhio di un coniglio.
Tutti cominciarono a farsi prendere dalla febbre del turismo.
In questo
clima, Eleni fu dimenticata per un po', ma poi arrivò una lettera del vescovo
che annunciava una visita entro pochi giorni. Non sembrava preoccupato, anzi,
aveva l'aria di considerare il problema risibile, tuttavia era disposto a
sottoporsi a un viaggio così scomodo, sicuro che la sua presenza sarebbe
bastata per rimettere le cose a posto. Il pope, che aveva guardato da lontano,
con diffidenza, l'ateniese, si agitò invece moltissimo all'idea di una visita
pastorale, anche se il vescovo si sarebbe fermato solo poche ore, giusto il
tempo di parlare con Eleni. "Mi faccia trovare la donna al villaggio"
diceva la lettera. Il pope aveva il triste presentimento che la cosa non
sarebbe stata tanto facile da realizzare.
Infatti
Eleni, avvisata dal solito gruppo di donne, si rifiutò categoricamente di
lasciare il monastero anche solo per poche ore.
"Se il
vescovo mi vuole parlare, sa dove trovarmi" rispose.
Neanche il
pope, che si sobbarcò un'altra volta la lunga salita, riuscì a convincerla.
Così dovette rassegnarsi a confessare al vescovo la sua sconfitta, e cominciò a
organizzare la spedizione episcopale come meglio poteva, preparando muli e
rinfreschi per renderla meno penosa. Gli isolani vivevano giorni esaltanti,
divisi tra due eventi tanto insoliti: la presenza degli ateniesi e l'arrivo del
vescovo. Molte tra le donne avevano disapprovato l'iniziativa del pope, ma non
osavano dare voce ai loro dubbi, sapendo che Eleni era andata troppo in là
perché le gerarchie ecclesiastiche potessero continuare a ignorarla.
Aspettavano il giorno della resa dei conti con sentimenti contrastanti, e la
segreta speranza che lei riuscisse a tenere testa a tutti. Il vescovo,
accompagnato da cinque o sei accoliti, sbarcò la mattina presto dal traghetto,
di cattivo umore perché la traversata era stata brutta e la cabina poco
confortevole; salì con difficoltà sul mulo che doveva portarlo al paese (era un
uomo anziano, alto e corpulento, e non faceva una bella figura seduto all'amazzone
sulla sella) e, appena arrivato, si ritirò con il pope e il suo seguito in
sacrestia. Quando riemersero, il sole era ormai alto e il caldo tremendo. Tutti
gli abitanti dell'isola erano radunati nella piazza, compresi gli ateniesi e
qualche turista, e si misero al seguito del vescovo e degli altri ecclesiastici
che erano montati nuovamente sui muli.
La salita
era faticosa per tutti. Il corteo strisciò lentamente lungo il pendio, colorato
e scintillante alla testa per i paramenti del clero, nero dietro, con le
macchie chiare degli abiti dei turisti sparse qua e là. Alcuni degli ateniesi
avevano grosse macchine fotografiche e correvano su e giù sudando a grandi
gocce per fare fotografie al vescovo e agli altri sui muli, ai vecchi che
salivano pregando e ansimando sotto i vestiti pesanti, alle donne che malgrado
tutto portavano regali per Eleni, sempre alla ricerca di inquadrature efficaci
e di colore locale. I turisti, stanchi ma curiosi, seguivano senza sapere bene
dove stessero andando.
Giunti
sullo spiazzo antistante al monastero, tutti scesero dai muli e il vescovo
guidò la processione con dignità, ben dritto sotto la stola ricamata, il viso
severo e preoccupato. Il portone del cortile era chiuso e sprangato. Il pope
bussò e ribussò, ma nessuno venne ad aprire; poi cominciò a chiamare a voce
alta, ma nemmeno allora ci fu risposta. A poco a poco anche il resto del corteo
era giunto sullo spiazzo, e tutti si unirono ai richiami. La montagna deserta risuonava
di un grido solo:
"Eleni!
Eleni! Apri, Eleni!"
Infine,
quando sembrava che non sarebbe successo più nulla, Eleni comparve sulle mura
del monastero, mezza coperta dal parapetto, vestita con il suo abito con i
pizzi, la collana di granati che luccicava al sole.
"Che
cosa volete?" chiese tranquillamente.
"Eleni,"
disse il pope con voce forte e chiara, come gli sembrava ci si dovesse
rivolgere a un personaggio così temibile "qui c'è il vescovo che ti vuole
parlare. È venuto apposta da lontano per parlare con te, Eleni. Scendi giù e
aprici."
"No"
rispose lei. "Parliamoci così, mi piace di più." Si sedette di
sghembo sul parapetto. "Che cosa volete? Il mio Vangelo non è ancora
pronto, ma appena lo sarà ve lo farò avere. Per il momento, preferisco essere
lasciata in pace".
Il vescovo
provò a parlare, ma la voce non gli uscì. Dovette schiarirsi la gola e chiedere
un sorso d'acqua. Nell'agitazione il pope aveva dimenticato di prendere i
rinfreschi, così la voce passò come un'onda lungo tutta la folla ammassata
sullo spiazzo.
"Il
vescovo vuole dell'acqua!"
Infine
qualcuno portò un termos e il vescovo riacquistò la parola.
"Vieni
giù e facci entrare" disse.
"No"
rispose lei.
"Mi
dicono" riprese il vescovo, un po' sconcertato che la sua autorità non
fosse stata riconosciuta, "che stai facendo e dicendo delle strane cose,
per niente in accordo con l'insegnamento della Chiesa. Non posso tollerare una
simile mancanza di disciplina. Devi abbandonare immediatamente il monastero e
tornare al villaggio, poi decideremo il da farsi".
"No"
ripeté Eleni.
"Come,
no?" ribatté il vescovo che non era mai stato trattato così in tutta la
sua vita, e cominciava ad arrabbiarsi. "Scendi giù, brutta eretica, facci
vedere come hai sconciato la cappella di questo santo monastero".
Eleni lo
guardò dritto negli occhi, per quanto era possibile con tutto quel sole che
picchiava senza pietà, ma non rispose.
"Vieni
giù, Eleni, facci entrare" disse una delle donne. "Ti ho portato del
caffè e del formaggio, e le altre hanno zucchero, dolci e vino".
Ma Eleni,
scrollando le spalle, si accomodò meglio sul parapetto.
"Vieni
giù, aprici" cominciarono a gridare gli altri, e alla fine la confusione
divenne totale. Gli ateniesi correvano qua e là con le loro macchine
fotografiche, i turisti intimiditi se ne stavano in un angolo chiedendosi l'un
l'altro che cosa stesse succedendo.
Il vescovo,
che sentiva di dover riprendere in mano la situazione, riaprì il dialogo.
"Che
cosa fai qui? Perché vuoi restare? Il monastero non ti appartiene, non puoi
farne quello che vuoi".
"Il
monastero mi appartiene, invece," rispose Eleni "me l'ha detto la
Santa Trinità che mi appare tutte le notti".
"Ma
come puoi sapere che si tratta veramente della Santa Trinità? E che aspetto
ha?"
Il pope
inorridì sentendo quella incauta domanda, ma era troppo tardi. Eleni salì in
piedi sul parapetto, e cominciò a gridare con voce ispirata:
"Ha
nere vesti, un nero scialle, è femmina, vuoi vedere com'è fatta?"
Si alzò la
veste sul capo, mostrando a tutti la sua nudità, e aggiunse:
"E
guarda, fa così!"
Il getto
non raggiunse il vescovo, verso cui forse Eleni aveva cercato di dirigerlo, ma
si disperse in mille goccioline iridescenti che il vento spinse verso la
montagna. Dalla folla si levò un "Oh!" reverente e impaurito, tutti
si volsero e si avviarono giù per il sentiero a passo veloce, in silenzio.
Anche il vescovo si volse e si diresse verso i muli.
"Andiamocene"
disse. I suoi accoliti e il pope gli corsero dietro.
Al porto
una barca aspettava il vescovo per ricondurlo alla sua isola. Lui non volle
fermarsi al villaggio nemmeno per la cena che la moglie del pope aveva
preparato lavorando fin dall'alba. Il pope gli corse dietro con un cestino
pieno di viveri, gridando: "Per il viaggio! Per il viaggio!", e
riuscì a raggiungerlo prima che si imbarcasse.
"Comunque"
disse il vescovo, con voce calma ma ancora rosso per la rabbia e il movimento,
"c'è un documento del 1706 che testimonia che il vescovado ha regalato il
monastero alla chiesa dell'isola. Sono fatti vostri, risolveteveli voi".
La barca
partì, e il pope rimase sul molo con il suo cestino in mano, stanco e
mortificato, mentre il sole al tramonto trasformava il mare in un tripudio
d'oro liquido. Tornò al villaggio a piedi, per schiarirsi le idee.
Quindici
giorni dopo, su una rivista della capitale apparve un dossier fotografico
intitolato "L'isola dimenticata". Non vi si parlava molto di Eleni,
genericamente definita "la fondatrice di una setta
eretico-femminista", ma c'erano decine di fotografie del vescovo sul mulo,
del pope, degli abitanti del villaggio e scorci pittoreschi dell'isola e del
monastero.
"Questo
articolo vi porterà migliaia di turisti" decretò l'ateniese, che era
tornato dopo una breve assenza in cui aveva preso accordi e trovato fondi per il
suo progetto di lancio turistico. "Dovreste fare un monumento a quella
donna per la pubblicità che vi ha procurato".
Per un po',
il problema di Eleni fu accantonato per pensieri più immediati. Qualcuno
suggerì che si facesse ricorso alla giustizia, ma il pope era restio perché
sapeva che le donne del villaggio sarebbero state contrarie e poi la sola idea
di quello che Eleni avrebbe potuto dire o fare alla polizia lo faceva
rabbrividire, per cui non se ne fece nulla.
La
primavera avanzava, l'estate si annunciava ingiallendo la stenta erba che
copriva la collina e rendendo tiepida l'acqua delle spiagge ancora intatte.
L'ateniese, che continuava a far la spola tra l'isola e la capitale, tornava
ogni volta più entusiasta e pieno di idee. Gli isolani cominciarono a ordinare
lavandini, bidè, piatti da doccia e gabinetti. Gruppi di uomini con strani
strumenti si aggiravano lungo i sentieri prendendo misure e facendo disegni,
nella baia acquistata dall'ateniese erano cominciati i lavori per l'albergo,
con materiali portati via mare dal porto. Traghetti che non si erano mai
sognati di far scalo nell'isola cominciarono ad attraccare al molo sbarcando
casse, sacchi e passeggeri. Sbarcò persino una jeep, che però rimase
parcheggiata sul molo intralciando le operazioni di scarico per mesi, perché
non c'era nemmeno un metro di strada percorribile su tutta l'isola. Le taverne
della piazza vennero ridipinte e ampliate, comparvero tavolini di plastica e
tovaglie, i quartini e i mezzi litri di alluminio in cui era sempre stato
servito il vino furono sostituiti da caraffe di vetro; chiunque avesse anche
solo uno sgabuzzino libero si affrettò a rimetterlo a posto in vista
dell'arrivo dei turisti. Le vecchie botteghe che avevano sempre venduto solo
generi alimentari si riempirono di salvagenti, sandali di plastica, creme da sole
e stuoie di paglia fabbricate in Corea.
E i turisti
arrivarono, già da quell'estate, a piccoli gruppi, rumorosi e famelici, sempre
alla ricerca di una spiaggia su cui sdraiarsi e di una barca per farcisi
condurre, o di un piatto di insalata e pesce fritto. La mattina assediavano il
forno per comperare pane e dolci, consumavano quantità incredibili di vino e
acqua minerale, volevano giornali e medicine e sandali per il mare e pinne e
maschere e chiacchierare con i vecchi del paese e ascoltare musica e mandare
cartoline e telefonare a casa. Il villaggio li accolse e si gonfiò, ma molti
trovavano faticoso salire fin lì, anche se la strada era stata ormai terminata
e c'era persino un pulmino che faceva servizio trasportando bagagli e
viaggiatori, per cui intorno al porto cominciarono a spuntare casette e taverne
e poi un paio di alberghi, altri sorsero su altre spiagge, altre strade furono
costruite per raggiungerli, altri pulmini si mossero per collegarli al porto, e
infine dai traghetti cominciarono a sbarcare macchine e motociclette che
percorrevano l'isola strombettando e sollevando polvere sulle mulattiere
frananti, restando bloccate in bilico sugli strapiombi, precipitando sugli orti
e schiacciando pecore, ma la maggior parte del tempo rimanevano posteggiate
vicino al porto o nel paese, ostruendo le strade strette e bloccando le porte
d'ingresso delle case. Nessun turista sembrava in grado di muoversi a
piedi.
Gli
abitanti dell'isola si arricchirono con il turismo, e tutti, dalle vecchie che
apparentemente passavano il loro tempo immobili su una sedia fuori della porta
di casa, mentre invece conducevano ogni sorta di traffici, affittando stanze,
aprendo negozietti, raccogliendo ricami, lavori a maglia e altri prodotti
artigianali per venderli, ai bambini che a sette o otto anni parlavano già due
lingue straniere, ai pescatori che rifornivano di pesce le taverne e gli
alberghi, al pope che cercava di non guardare quelli che circolavano seminudi
per il paese ed entravano in chiesa in calzoncini corti, si trovarono, chi più
chi meno, a beneficiare della pioggia di soldi che si abbatteva su di loro.
Eleni e i suoi traffici nel monastero erano passati in secondo piano, ma ogni
tanto qualcuno saliva fin lassù e le portava notizie e regali, ritornando con
altre notizie che non suscitavano più nessun clamore. Aveva affrescato con
lunghe teorie di donne dalle facce conosciute le pareti del refettorio, aveva
dipinto oscene epifanie della Santa Trinità in ogni cella ancora in piedi,
aveva riprodotto tutta la scena della processione del vescovo su un lato del
cortile, e si diceva che la riscrittura del Vangelo procedesse, lentamente ma
sicuramente. Il pope fingeva di non sapere nulla. Quasi nessuno, ormai, si
interessava ai sogni di Eleni.
Qualche turista più curioso
degli altri, che aveva sentito delle chiacchiere in giro per il paese, o che si
era troppo scottato e doveva evitare la spiaggia per qualche giorno, cominciò a
salire per l'aspro sentiero che non era stato asfaltato come gli altri. Quelli
che bussavano al portone del monastero venivano accolti gentilmente, Eleni era
fiera di mostrare la sua opera, la biblioteca, la bella vista che si ammirava
dal tetto; la voce si sparse e le visite si fecero più frequenti. Eleni trovò
una cassettina antica che piazzò in evidenza all'entrata, ci scrisse sopra
"Offerte per il monastero" in più lingue, facendosi aiutare dai
visitatori; e le offerte arrivavano. Cominciò a servire ai turisti caffè e tè,
facendosi pagare abbastanza caro, e tutti erano ben lieti di contribuire al mantenimento
di un luogo così bizzarro, rallegrandosi al pensiero di quello che avrebbero
potuto raccontare agli amici al ritorno. Eleni offriva l'acqua del pozzo
gratuitamente.
Durante gli inverni, si mise a raccogliere erbe selvatiche sulla
montagna e preparare tisane, ad allevare api e raccogliere il miele, a fare
marmellate di fichi e di more di rovo; dato che sapeva anche ricamare, con i
soldi delle offerte si fece comprare della tela e ricamò asciugamani e
tovagliette con l'immagine della Santa Trinità in tutte le sue varie
manifestazioni. Inventò una grappa di ginepro che battezzò "Latte di
Crista", e su ogni bottiglia, ricuperata dalle osterie del villaggio,
incollò un'etichetta dipinta a mano con l'immagine del Pantocrator femmina;
costava come un whisky invecchiato, ma si esauriva in una settimana. I turisti
erano felici di comprare i suoi prodotti, non ce n'erano mai abbastanza. Eleni
si arricchì tanto che in pochi anni riuscì a far riparare il tetto e
ridipingere la pareti esterne, che così ripresero a brillare bianchissime sul
pendio scuro. Il cortile divenne un giardino, fresco come un miracolo per chi
arrivava stanco dopo la salita faticosa. Si mise d'accordo con un contadino che
affittava i muli a chi non voleva salire a piedi, e si fece dare un tanto per
ogni turista che veniva trasportato; in compenso, non permise a nessun altro di
fare lo stesso servizio. Continuava ad avere poco tempo per meditare, ma la
sera, e durante i brevi inverni, si applicava laboriosamente al suo Vangelo
femminile; aveva imparato a scrivere abbastanza bene. Quando le celle furono
rimesse a posto, offrì anche ospitalità (a pagamento, ben inteso) a chi
desiderava provare l'esperienza della vita spartana del monastero; forniva
ricche colazioni e pasti appetitosi, aperitivi e digestivi, lenzuola pulite e
portaceneri, indulgente con il bisogno di alcol e di piaceri terreni dei
visitatori, ma non installò mai né un bagno né un gabinetto, ritenendo che
chiunque voleva godere di quel privilegio dovesse adattarsi a lavarsi al pozzo
e fare i suoi bisogni nella natura, come lei faceva ormai da anni.
Così fu che la vocazione di Eleni si ricongiunse con quella dell'isola intera; e non ci fu più nessuno, né il pope, né il vescovo nella sua isola lontana, né men che meno gli abitanti, che fece obiezioni al suo diritto di abitare nel monastero e propagandare la sua teologia eretica; su tutti i dépliant che le agenzie distribuivano per illustrare le attrattive dell'isola, il monastero della Santa Trinità femmina era menzionato come uno dei principali motivi di interesse, una passeggiata consigliata e un soggiorno "che potrà rendere la vostra vacanza un'esperienza indimenticabile".
Teologia e visioni personali, un mix esplosivo per un racconto agrodolce. La protagonista non è simpatica ma è decisa, inflessibile. Parte della mia simpatia è andata al pope, vaso di coccio tra vasi di ferro. Una buona lettura, grazie.
RispondiEliminaEh, la solidarietà maschile non si smentisce mai... scherzo of course. Grazie per avere letto questo vecchissimo racconto, di cui peraltro, rileggendolo a distanza di anni, non mi vergogno affatto. L'isola in questione è Kastelorizo, il monastero c'è e all'origine ci stava qualcosa che ho ritorto, gonfiato e potato, e naturalmente ormai non saprei più distinguere assolutamente. Ma la grossa Eleni è una creatura esclusivamente mia, e le sono molto affezionata. Max, non ti ringrazierò mai abbastanza di avere trovato il tempo di leggermi.
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