Ripubblico un mio racconto uscito su Torino Leggendaria, un numero monografico della gloriosa rivista Leggendaria dedicato alle scrittrici torinesi nell'ormai lontanissimo ottobre 2003. Vedo in giro manifesti elettorali che mi fanno venire la giassina ai denti, come si dice da queste parti, o la voglia di spaccare il faccione che vi campeggia sopra promettendo sgomberi. Siccome sono una signora non lo faccio, né faccio il nome del proprietario del faccione. Questo è il mio contributo alla campagna elettorale per le prossime elezioni comunali.
È incluso nella raccolta Racconti fantastici e del margine.
È incluso nella raccolta Racconti fantastici e del margine.
NEMICI
I miei nemici non
sono un esercito compatto, anonimo, non portano uniforme. Di ognuno so il
colore degli occhi, le abitudini, i gesti e soprattutto l’odore. Li
riconoscerei al buio. Dormono molto, anche di giorno. Stesi nei loro cartoni
luridi giacciono come cadaveri. Respirano appena ma si capisce che sono vivi
perché ogni tanto si grattano. Più raramente leggono, o bevono, o lanciano
lamenti e invettive contro i passanti.
C’è chi della mia città ha un’immagine legata alla bellezza delle
prospettive lungo il fiume, chi al profumo di cioccolata che emanano certi
vecchi caffè, qualcuno persino dice che è elegante, o forse lo era, altri ne
sottolineano grigiore e austerità. Io mi ci muovo seguendo la mappa dei miei
nemici.
E li odio. Odio quelle facce mollicce e i capelli unti, quelle mani tese
che puzzano, quelle bocche bavose e gli stracci che li avvolgono. Sono uno
sfregio, offendono l’estetica, l’ordine e l’olfatto.
Non ho ancora scatenato l’offensiva. Mi limito a perlustrare notte dopo
notte i portici deserti. Ne cerco l’usta. Fortunatamente i portici conservano
gli odori, li fissano, così non devo faticare troppo. Li distinguo da lontano.
Controllo che siano sempre lì. Li conto.
Sto elaborando una strategia. Ci devo pensare bene perché questa guerra
non può che essere vinta definitivamente, senza feriti né prigionieri. Oggi ne
ho visto uno nella galleria Subalpina, seduto sui gradini che portano al primo
piano. Si era tolto le scarpe, con uno straccio bagnato nell’acqua putrida di
una bottiglietta curava le piaghe del suo piede sinistro. Schifo e orrore, tra
l’indifferenza della gente accaldata che correva a casa per cena. In piazza
Carlo Alberto le rondini stridevano e volavano basse, eccitate, felici. Questo
giugno afoso centuplica le puzze malgrado il profumo di tigli che satura
l’aria. La mia città potrebbe ancora essere bella, sarà di nuovo bella quando
la mia guerra sarà vinta. Quando avrò cancellato la vergogna.
Guerra è una parola che amo, una parola che ha ritrovato la sua forza, il
suo significato eroico per chi è nel giusto e sa di esserlo, sa di avere dei
valori positivi da proporre e imporre. Come me. Io ho nel cuore e nel pensiero
una città splendente, dove non c’è posto per gli amanti della sporcizia. Quando
i tempi saranno maturi tutti mi daranno ragione. E dopo verrà la riconoscenza:
la città liberata sarà la mia vittoria.
Io so che cosa devo fare, perché odio i miei nemici.
La mattina presto percorro corso Cairoli in direzione del Valentino. La
bellezza del lungo Po mi fa piangere. Acque verdi scorrono tra sponde verdi,
profumi di rose e ligustri, la collina sfuma nella caligine, i platani stendono
i rami maestosi. Ma loro si acquattano persino tra le siepi del viale. Lerci
sacchi a pelo, cartacce, resti di cibo, bottiglie di birra e bottiglie di
plastica, per non parlare della puzza di piscio, straziano l’ora perfetta. Dove
sono i miei nemici quando passo di lì? Tutti fuggiti alla prima luce, per un
residuo di pudore, per la coscienza di stonare in quell’armonia? Non basta la
fuga per ammansire il mio odio. Sono invisibili, ma le tracce del loro
passaggio rimangono. Non se la caveranno scappando.
Bene, la guerra può cominciare. È scoppiato un caldo fuori stagione.
Certi odori non si possono più sopportare. Devo agire subito, per dare requie
ai nasi della mia città.
La grande battaglia di stanotte ha avuto pieno successo. I nemici sono
stati sorpresi nel sonno. Giusto e preciso il mio pugnale li ha colpiti a uno a
uno, senza che uno schizzo di sangue mi sporcasse le mani. All’alba, dopo avere
ripulito le belle sponde del Po, l’ho gettato in acqua dal ponte di corso
Vittorio. Non ha fatto rumore e nemmeno ferito la corrente. Tornando a casa,
nel breve momento di frescura, mi è venuta voglia di cantare, ma non sapevo che
cosa. Non conosco canzoni. Ho gridato a bocca chiusa: l’ho fatto per te, sei
libera.
Libera, preziosa e intangibile come un diamante. Tornerai a profumare di
cioccolato e tigli. Di sudore operaio. Di operoso decoro. Riconosci il mio atto
d’amore? Capisci che la guerra è pulizia, salute, salvezza?
La mia azione ha avuto una grande eco, i giornali l’hanno amplificata. Ma
non esultano, anzi esprimono esecrazione e dissenso. Certo non tutti i problemi
sono risolti, rimangono altri nemici a minacciare la serenità delle piazze e
delle strade, ma questa lezione gli insegnerà qualcosa. Ora hanno paura.
Capiranno che devono abbandonare i loro traffici immondi. Forse troveranno la
forza di correggersi. In caso contrario la guerra riprenderà. Sono molti, lo
so, i furtivi mercanti di morte e i clienti che scivolano nell’ombra, le donne
in vendita e gli uomini che le cercano, con le mani sudate piene di banconote
appiccicose. Ma il secondo pugnale è pronto e poi ce ne sarà un terzo e un
quarto, tutti ben affilati, luccicanti e silenziosi. Queste caldissime notti di
giugno sono piene di promesse. Io prometto che nessuno dei miei nemici avrà
scampo.
La forza dell’odio che mi nutre, però, sta scemando. Come se ogni volta
che il mio braccio ha colpito avessi sanguinato anch’io, perdendo vigore
nell’emorragia. Non è stanchezza, non è pietà di certo, né paura, né sazietà.
Un semplice calo di tensione. Normale, in fondo. Preparavo la guerra da tanto,
l’ho vinta, e adesso sperimento la tregua. Non mi piace. È inutile e snervante.
Ho fatto un errore. Un piccolo errore, non irrimediabile, ma non me lo
posso permettere. C’era questo omuncolo – un risibile scheletrico fantasma, di
quelli che senza sosta camminano per la città proponendo le loro cianfrusaglie,
fastidiosi, famelici, miserabili mendicanti travestiti da venditori –, e il
caso ha voluto che fossimo soli sotto i portici di palazzo Carignano, nell’afa
deserta dell’ora di cena. Non era un vero nemico, giusto una zanzara che mi ha
punto nel momento sbagliato. Il pugnale è scattato da solo. Un colpo debole,
era vivo a stento. È rimasto lì sul marciapiedi bollente. Il suo sangue
annacquato ha cominciato subito a puzzare. In piazza Castello la folla assetata
delle gelaterie e dei bar ha inghiottito la mia presenza. Però l’ammetto, è
stato un errore.
Non deve più succedere. Il mio compito è troppo importante.
I tigli sono ormai sfioriti, l’estate precoce avvolge tutto in una coltre
spessa di umidità. Nei giardini, la mattina presto, l’ora migliore per pensare
e sentire, il verde delle magnolie, dei ginkgo, dei bagolari, degli
ippocastani, dei faggi rinfresca e rallegra, rinforza l’animo, rasserena. In
giro ci sono solo quelli che portano a spasso i cani. Anche loro un po’ nemici
per lo schifo degli escrementi abbandonati nei viali, ma insomma, ci sono cose
che si possono sopportare.
L’obiettivo che ho in testa: la mia città com’era cinquant’anni fa.
Naturalmente io non c’ero, ho appena vent’anni, ma ho visto tante foto delle
piazze vuote, i tram a cavalli, le donne con l’ombrellino e i guanti, gli uomini
con il cappello, niente traffico, nessun nemico in vista. Forse le foto non
sono di cinquant’anni fa, forse sono molto più vecchie, di cento, duecento
anni. Non so molto di storia. Però so che così com’è adesso non va.
Ora passeggiare sotto i portici è piacevole. Più niente odori nauseanti e
cartoni intrisi del luridume dei nemici. Gli altri, le donne e i mercanti, sono
meno visibili. Il mio cuore vola per il sollievo.
Stamattina in piazza Castello ho visto uno spettacolo orribile. Su una
panchina davanti a Palazzo Madama giaceva un laido vecchio con le gambe nude,
circondato da sacchetti di plastica e bottiglie di birra. L’ho riconosciuto, è
quello che si lavava le piaghe in galleria. Come ha fatto a sfuggirmi? Un
vigile lo ha sollevato gentilmente per un braccio e l’ha condotto via sotto la
sua protezione. L’unico nemico sopravvissuto. Non ho potuto seguirli perché si
sono allontanati in macchina, ma lo scoverò nel suo rifugio.
Continua a fare caldo. Dormire è impossibile, e io non dormo mai, cammino
tutta la notte. Ci vorrebbe un temporale che riempisse d’acqua le strade,
spazzasse via l’immondizia, lo sporco che m’intralcia il passo. Certe volte la
fatica mi fa crollare su una panchina e per poco mi lascio andare al
dormiveglia. Se qualcuno mi vede in quei momenti, che cosa può pensare? Che
sono uno dei nemici? Il primo di un nuovo esercito che si infiltra subdolo e
testardo nella città liberata? O un disperato relitto della guerra vinta?
Dicono che la mia città sta male, non sa più chi è. Io ho la coscienza di
avere fatto quanto potevo per aiutarla. Però adesso sono io a stare male. Mi
accorgo che perdo lucidità, caldo e stanchezza mi indeboliscono. Non so se avrò
la forza di portare fino in fondo la guerra. I miei concittadini sono ostili, i
giornali esprimono sollievo per quella che io considero una tregua e loro la
fine. Non riescono a capire.
Forse, se piovesse un po’, gli si schiarirebbero le idee.
Pare che non facesse un caldo simile, a giugno, dal 1822. Mi immagino che
allora la mia città fosse proprio come la sogno io, pulita e leggiadra, abitata
da signore delicate che passeggiavano sottobraccio a garbati gentiluomini. La
cosa più terribile è che l’esercito puzzolente delle larve senza nome sta
riconquistando il centro. Tutti quelli che marcivano rintanati nelle orribili
periferie corrono a accaparrarsi i posti che io, con il mio silenzioso pugnale,
ho liberato. Non vogliono accettare la sconfitta. Russano a bocca spalancata
sulle panchine, inalberano i loro miserabili cartelli davanti alle banche,
costruiscono parodie di case sui gradini delle chiese. I vigili, invece di
cacciarli, sorvegliano il loro sonno. Vorrei tenere gli occhi chiusi per non
vederli. L’odore di miseria e di sporcizia è dovunque. Che cosa posso fare io,
con due sole mani?
La guerra è perduta. Stanotte, stanati da un temporale, si sono affollati
tutti sotto i portici. Via Roma è un dormitorio nauseabondo, via Po e piazza
Vittorio sembrano un accampamento di morti. La gente storce il naso ma getta
monete nelle scatole da scarpe. Io provo la vergogna della sconfitta. Se non
sono spariti loro dovrò sparire io.
Da tre notti dormo sotto i grandi noci del Caucaso che segnano il limite
estremo dei Murazzi. È bello sentire vicino il gorgoglio del Po, e in
lontananza le voci piene di birra. Ogni tanto scoppiano i lampi, la pioggia
flagella il fiume, ma qui sotto le fronde arrivano solo spruzzi e folate.
Quelli che affollano i locali gridano e ridono, ci vuol altro per mandarli a
casa. Sembra che per loro la città sia solo leggerezza, allegria, alcol. Non
sentono la putredine che si impadronisce di tutto? La povertà che monta come
un’onda di piena, la strisciante depressione dei cassintegrati? Lo scricchiolio
delle fabbriche che crollano? La città che geme, torcendosi nel suo declino? La
puzza più forte dell’odore del fiume?
Non sentono niente, non si accorgono di niente. Le ragazze con i sandali
dorati, nelle loro sottovesti impalpabili, bevono guardando negli occhi i
maschi trionfanti. Vedono solo quegli occhi pieni di offerte. Si offrono a
vicenda. Nessuno si spinge fino alla mia tana. Non hanno bisogno dell’ombra
degli alberi per stringersi. Hanno grandi automobili, grandi case con l’aria
condizionata, grandi felici letti in cui amarsi dopo essersi scelti. Io li spio
dal mio giaciglio di cartoni vecchi. Vorrei mescolarmi a loro. Vorrei colpirli
tutti e ognuno con l’ultimo pugnale che mi è rimasto.
Invece. Quest’ultimo pugnale è per me. Lo guardo e lo pulisco fino a
farlo brillare. Mi incido il braccio destro, per punirmi di non avere portato a
termine il compito che mi sono dato. Il braccio sinistro, perché i miei nemici
hanno riconquistato il territorio. La gola, perché non ho parole per esprimere
la mia disperazione. Me lo pianto nel cuore, per il troppo amore che porto alla
mia città, un amore inutile, perdente, maleodorante come gli stracci in cui mi
nascondo.
E mi affido al fiume misericordioso. Mi porterà con sé, ma solo per pochi
metri. Domani, alle rapide sotto il ponte di piazza Vittorio, qualcuno si
accorgerà di me.
– Guarda, – diranno, – ancora una di quelle barbone che bevono e
traballano e cadono nel Po e annegano come gattini. Tocca ai pompieri tirarla
fuori.
Ho una vicina di casa che è praticamente così. Non condivide la stessa sorte dei barboni ma gira per la zone continuando a protestare contro gli abitanti e i cani che sporcano in giro. Di ieri mattina la constatazione che odia anche i quattro gatti randagi di una via secondaria perché genericamente "sporcano". È un'ex-maestra che bisognerebbe internare da qualche parte, se non altro per non sentirla più. Buon racconto, peraltro, complimenti.
RispondiEliminaQuando la vita imita l'arte! ;-) Grazie per avermi letto, ciao
RispondiEliminaNonostante la mia memoria pessima, ricordo benissimo questo racconto e ricordo l'impressione che mi fece la prima volta che lo lessi e che confermo ancor oggi: un ottimo racconto che mi riempì di orrore e di malinconia (due tra le cose migliori che posso chiedere a un'opera letteraria!)
RispondiEliminaAncora complimenti, carissima.
Grazie per avermi riletto! E' che vedendo in giro certe stronzate a caratteri cubitali e non avendo voglia di candidarmi anch'io ;-)questo mi è sembrato l'unico modo di rispondere.
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