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martedì 13 ottobre 2015

Ancora a proposito di Magda Szabò: Via Katalin



MAGDA SZABÓ, VIA KATALIN, Einaudi 2008, ed. orig. 1969, pp. 1980, € 17,00, trad. di Bruno Ventavoli
La più che succinta nota di copertina su Magda Szabó mi innervosisce con una di quelle affermazioni che fanno prudere le dita dalla voglia di mollare subito il libro. “Magda Szabó (1917–2007) è considerata la maggiore scrittrice ungherese del XX secolo”. Vorrei sapere, di grazia, da chi? E di quale XX secolo? Esiste un XX secolo letterario che permetta di mettere sullo stesso piano
scrittori che pubblicarono prima del 1918 e quelli del dopo 1989? Eccetera eccetera, ma per fortuna avevo letto il precedente La porta, (v. la recensione di Silvia Treves sul sito di LN–LibriNuovi) che mi aveva incantato così mi sono rimangiata l’irritazione e ho comprato anche questo romanzo. Negli anni trenta del secolo scorso, nella via del titolo vivono porta a porta tre famiglie con quattro bambini, le due sorelle Irén e Blanka, Henriett e l’unico maschio, Bálint, condividendo giochi e vita quotidiana. Sono borghesi colti, persone serie e dabbene. Questo stretto legame che si crea in tempi sereni non si scioglierà più malgrado le tempeste della storia, in cui muoiono prima i genitori di Henriett poi la ragazza stessa. Crescendo, tra i giovani i rapporti si complicano e si intrecciano, partenze e ritorni, atti indegni e generosità scandiscono le loro vite, li segnano, ma anche se ormai sono diversissimi dai bambini di un tempo l’antico sodalizio prevale sui nuovi legami. È una vicenda complessa quella di Via Katalin, ulteriormente complicata dalla presenza di Henriett sotto forma di fantasma che segue i suoi amici avanti e indietro nel tempo, e dall’alternarsi dei punti di vista. Un romanzo faticoso, che stenta a ingranare all’inizio perché dà le informazioni con il contagocce, e non convince del tutto con la storia del legame infantile, in certi punti verrebbe da dire a Irén, la protagonista: ma piantatela con quest’ossessione dell’infanzia, decidetevi a crescere. Forse l’infanzia felice è una metafora della libertà perduta dopo l’avvento del regime comunista, il che spiegherebbe la scelta di Irén e Bálint di stare insieme anche se l’amore che li univa è svanito ma non rende più felice la soluzione narrativa. I cenni alla storia ungherese, per esempio ai fatti del ’56, sono talmente criptici che è impossibile trarne informazioni, ma essendo il libro del ’69, forse quella che a noi sembra reticenza era coraggio. Rimangono, certo, la scrittura profonda e ricca, la rappresentazione accurata di vite nello scorrere del tempo, una struggente nostalgia di innocenza e felicità, Budapest e il Danubio che scintilla sullo sfondo, ma la cristallina semplicità di La porta era un’altra cosa.         

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