Per continuare il discorso sulle ragazze e la loro tenace voglia di vivere, due film diversissimi che hanno molti punti in comune: sono film corali in cui le protagoniste sono ragazze (e donne), che con tenacia, indomita vitalità, allegria quando gli è permessa e molta solidarietà combattono per sopravvivere in società profondamente maschiliste.
In Mustang di Deniz Gamze Ergüven, ambientato in Turchia, sulle coste del Mar Nero, tra meravigliosi paesaggi boscosi e brumosi, non lontano da Trebisonda, cinque sorelle tra l'adolescenza e l'infanzia, orfane allevate da una nonna che si divide tra il conformismo sociale e l'affetto comprensivo, e da uno zio truce e violento (grande merito del film è che accenna appena, scivolando con lievità, sull'argomento della violenza sessuale), senza rendersene conto, per pura giovanile esuberanza, si fanno sorprendere in atteggiamenti sconvenienti per la morale. Da questo momento le ragazze subiscono limitazioni sempre più violente della loro libertà fino a essere fisicamente segregate, costrette a lasciare la scuola e spinte a matrimoni più o meno forzati. Le reazioni delle cinque bellissime ragazze (e la loro bellezza, che di primo acchito può sembrare eccessiva e inverosimile, assume un senso profondo man mano che il film, senza per questo appesantirsi, assume un significato più ampio fino a rappresentare quello che sta succedendo alle donne sotto il regime di Erdogan - cui il film non deve essere piaciuto per niente) sono diverse, mentre il centro, il cuore vitale della resistenza è la più piccola, Lale (la straordinaria Günes Sensoy), pronta alla ribellione e piena di iniziative che fanno pensare al rossiniano "e cento trappole prima di cedere farò giocar". Un film, secondo me, veramente consigliabile e riuscito per il solido equilibrio tra denuncia sociale e positiva capacità di reazione, dove non ci sono momenti bassi né falle di sceneggiatura, con ottimi interpreti tra cui le cinque ragazze spiccano per bravura e venustà.
Molto diverso il discorso per Much loved di Nabil Ayouch, ambientato a Marrakesch dove le protagoniste si prostituiscono in alberghi di lusso con ricchi sauditi che vanno a cercare in Marocco quello che evidentemente nel loro paese è impossibile. Sono uomini straricchi, talvolta violenti talaltra bisognosi di conferme, ma comunque ben coscienti del potere dei loro soldi, quindi molto lontani dai sogni delle ragazze che in fondo si illudono sempre di suscitare amore. Proprio la rappresentazione di questi incontri, secondo me, è il punto debole del film che sembra trasformarsi in un lungo pornosoft gremito di sederi roteanti e ventri danzanti. Molto meglio quando la vicenda riprende quota con l'arrivo in scena di una ragazza incinta scappata dal paese che viene accolta e protetta dalle ragazze nell'appartamenteo che condividono. La storia però, e soprattutto i personaggi, non sfuggono al cliché e alla prevedibilità. Grande merito del film sono le attrici, bravissime e vere: finalmente delle donne reali, belle ma con le loro pancette e i rotolini alla vita, sensuali e imperfette come sono le donne nella vita.
Curiosamente, i due film hanno in comune anche l'aspirazione all'altrove, una sorta di "a Mosca!" checoviano, rappresentato da Istanbul per le ragazzine turche e dall'oceano per le prostitute marocchine; e il fatto che in entrambi l'unico personaggio maschile positivo è un autista, uno che che guida, e che condividendo questa sua abilità, o mettendola al servizio delle donne, si fa strumento, in fondo, della loro conquista della libertà.
Entrambi i film sono del 2015 e si trovano in sala in questi giorni.
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giovedì 29 ottobre 2015
mercoledì 28 ottobre 2015
Le allegre ragazze dei bassifondi londinesi: Nell Dunn, "E' la vita, Joy", e "Up the junction"
Un'ottima idea è quella della Sonzogno di ripubblicare E' la vita, Joy di Nell Dunn (titolo originale Poor cow, del 1967 ma perfettamente godibile anche oggi) con la traduzione di Marinella Magrì. Io ricordavo bene Poor cow, il film d'esordio di Ken Loach dello stesso anno, e Up the junction di Peter Collison (1968) con la suggestiva colonna sonora di Manfred Mann, tratto dall'omonima raccolta di racconti di Nell Dunn del 1963 sui quali si basano anche molte delle vicende del romanzo, ma non sapevo niente dei libri che ci stavano dietro né dell'autrice, che pure è parecchio interessante. Dalla sua commedia Steaming, il bagno turco nel 1985 Joseph Losey trasse l'omonimo film con Vanessa Redgrave.
Di famiglia ricca, educata in convento e abitante dell'elegante quartiere di Chelsea, nel 1957 sposò lo scrittore (e molto altro, vale la pena di leggere l'obituary sul Daily Telegraph in occasione della sua morte nel 2003) Jeremy Sandford, con cui ebbe tre figli. Nel 1959 la coppia si traferì nel quartiere proletario di Battersea dove Nell trovò lavoro come operaia in una fabbrica di dolci. Quando si separarono nel 1979, lei tornò a Chelsea e continuò la carriera di scrittrice. L'esperienza di vita a Battersea si trasformò in opera letteraria, prima con la raccolta di racconti Up the junction poi con il romanzo Poor cow: ma quello che è veramente notevole è il modo in cui la scrittrice riesce a dare una vivida fotografia di quel mondo borderline, tra working class e piccola delinquenza, in cui le donne scivolano facilmente dalla fabbrica alla prostituzione e ritorno, gli uomini che di giorno lavorano di notte si trasformano in ladruncoli di piccola stazza.
La protagonista Joy attraversa la vita con incoscienza, allegria e fame di tutto: di sesso, di divertimento, di lusso, di ridere, di baci, di scopate, di considerazione e forse anche di amore. Sposata a sedici anni con un ladruncolo finito subito in galera, madre di un bambino, si innamora di un altro ladruncolo che presto finisce dentro. Joy lo idealizza proiettando su di lui i suoi sogni di riscossa e felicità, gli scrive lunghe lettere struggenti per ingenuità e solitudine, mentre la realtà è che il marito, uscito dal carcere e ritornato con prepotenza nella sua vita, la picchia e la maltratta. L'unica sua certezza è il figlio che ama con carnalità semplice e istintiva.
Il personaggio di Joy è la summa di molti personaggi che compaiono nelle pagine di Up the junction, mai descritti né raccontati ma presentati attraverso le loro parole, lunghi monologhi (il magnifico The tally man), frasi sconnesse da qualsiasi dialogo, voci che parlano ognuna con se stessa, come emergendo dal buio e dalla solitudine dei vicoli o dal fumo spesso del pub, rotte e espressive, una specie di inno rantolante alla gioventù e alla morte di un mondo. Perché gli slum di Battersea, le strade di casette di mattoni anneriti dall'umido e dai fumi delle fabbriche, con le loro terraced houses, le biciclette abbandonate, le donne sciabattanti tra il pub e le lavanderie, l'umanità densa di persone che si conoscono e si riconoscono in un intreccio di rapporti dalla nascita al funerale, stanno sparendo sotto i colpi delle ruspe della speculazione, per lasciare il posto a casermoni immensi e pieni di solitudini.
Entrambi i libri scoppiano di gioventù e della sua fame di vita. I soldi non bastano mai (ma, dice Nell Dunn nell'introduzione, di lavoro ce n'era da vendere: chi era licenziato il venerdì, il lunedì trovava un altro posto) ma tutti sono pronti a buttarli via per una scopata o un'illusione di amore. Le ragazze si trovano sovente a dover affrontare le conseguenze, e tutte sanno dove trovare chi può praticare l'aborto con poca spesa e moltissimo rischio (e non si può non pensare a Il segreto di Vera Drake di Mike Leigh del 2004, ambientato nello stesso periodo e negli stessi luoghi). Queste ragazze spensierate sono sempre sull'orlo del baratro ma anche sempre capaci di una risata, talvolta alle spese di chi è meno sveglio (The gold blouse), di solidarietà e lealtà verso i propri compagni assenti perché in galera (The trial, Prison visit) e alla fine pronte a mettersi i tacchi e uscire tra amiche per andare la pub, a vedere se trovano qualcuno che gli offra una birra. Chiacchierano di vestiti e di come farsi i capelli, sfrenate nella loro allegria senza domani perché sanno che dal momento in cui si sposeranno e faranno dei bambini, la vita finirà. Malgrado il loro continuo affabulare sul fututo splendido che le attende, sanno che tutto quello che possono permettersi è il presente.
Ma il miracolo che Nell Dunn riesce a fare è che questo vivissimo ritratto è costruito con obiettività e distacco, assolutamente privo di sentimentalismi, emozioni, colpi alla panza del lettore, ricatti e lacrime. Merito della scrittura in presa diretta, di quel concerto di voci che parlano dal buio senza dialogare, di quella disperata vitalità che tiene lontano qualsiasi patetismo. Neanche lo spauracchio femminile di tutti i tempi, l'argomento principe della letteratura dei bassifondi, la prostituzione, le turba, e se ne parlano è con esperto interesse e conoscenza di causa. A Joy, Rube, Silvya e le altre non può neanche venire in mente che la loro vita sia oggetto di compassione o di disprezzo, e se mai gliene venisse il sospetto probabilmente se ne andrebbero indignate e ancheggianti a berci su una birra per dimenticarlo subito.
Di famiglia ricca, educata in convento e abitante dell'elegante quartiere di Chelsea, nel 1957 sposò lo scrittore (e molto altro, vale la pena di leggere l'obituary sul Daily Telegraph in occasione della sua morte nel 2003) Jeremy Sandford, con cui ebbe tre figli. Nel 1959 la coppia si traferì nel quartiere proletario di Battersea dove Nell trovò lavoro come operaia in una fabbrica di dolci. Quando si separarono nel 1979, lei tornò a Chelsea e continuò la carriera di scrittrice. L'esperienza di vita a Battersea si trasformò in opera letteraria, prima con la raccolta di racconti Up the junction poi con il romanzo Poor cow: ma quello che è veramente notevole è il modo in cui la scrittrice riesce a dare una vivida fotografia di quel mondo borderline, tra working class e piccola delinquenza, in cui le donne scivolano facilmente dalla fabbrica alla prostituzione e ritorno, gli uomini che di giorno lavorano di notte si trasformano in ladruncoli di piccola stazza.
La protagonista Joy attraversa la vita con incoscienza, allegria e fame di tutto: di sesso, di divertimento, di lusso, di ridere, di baci, di scopate, di considerazione e forse anche di amore. Sposata a sedici anni con un ladruncolo finito subito in galera, madre di un bambino, si innamora di un altro ladruncolo che presto finisce dentro. Joy lo idealizza proiettando su di lui i suoi sogni di riscossa e felicità, gli scrive lunghe lettere struggenti per ingenuità e solitudine, mentre la realtà è che il marito, uscito dal carcere e ritornato con prepotenza nella sua vita, la picchia e la maltratta. L'unica sua certezza è il figlio che ama con carnalità semplice e istintiva.
Il personaggio di Joy è la summa di molti personaggi che compaiono nelle pagine di Up the junction, mai descritti né raccontati ma presentati attraverso le loro parole, lunghi monologhi (il magnifico The tally man), frasi sconnesse da qualsiasi dialogo, voci che parlano ognuna con se stessa, come emergendo dal buio e dalla solitudine dei vicoli o dal fumo spesso del pub, rotte e espressive, una specie di inno rantolante alla gioventù e alla morte di un mondo. Perché gli slum di Battersea, le strade di casette di mattoni anneriti dall'umido e dai fumi delle fabbriche, con le loro terraced houses, le biciclette abbandonate, le donne sciabattanti tra il pub e le lavanderie, l'umanità densa di persone che si conoscono e si riconoscono in un intreccio di rapporti dalla nascita al funerale, stanno sparendo sotto i colpi delle ruspe della speculazione, per lasciare il posto a casermoni immensi e pieni di solitudini.
Entrambi i libri scoppiano di gioventù e della sua fame di vita. I soldi non bastano mai (ma, dice Nell Dunn nell'introduzione, di lavoro ce n'era da vendere: chi era licenziato il venerdì, il lunedì trovava un altro posto) ma tutti sono pronti a buttarli via per una scopata o un'illusione di amore. Le ragazze si trovano sovente a dover affrontare le conseguenze, e tutte sanno dove trovare chi può praticare l'aborto con poca spesa e moltissimo rischio (e non si può non pensare a Il segreto di Vera Drake di Mike Leigh del 2004, ambientato nello stesso periodo e negli stessi luoghi). Queste ragazze spensierate sono sempre sull'orlo del baratro ma anche sempre capaci di una risata, talvolta alle spese di chi è meno sveglio (The gold blouse), di solidarietà e lealtà verso i propri compagni assenti perché in galera (The trial, Prison visit) e alla fine pronte a mettersi i tacchi e uscire tra amiche per andare la pub, a vedere se trovano qualcuno che gli offra una birra. Chiacchierano di vestiti e di come farsi i capelli, sfrenate nella loro allegria senza domani perché sanno che dal momento in cui si sposeranno e faranno dei bambini, la vita finirà. Malgrado il loro continuo affabulare sul fututo splendido che le attende, sanno che tutto quello che possono permettersi è il presente.
Ma il miracolo che Nell Dunn riesce a fare è che questo vivissimo ritratto è costruito con obiettività e distacco, assolutamente privo di sentimentalismi, emozioni, colpi alla panza del lettore, ricatti e lacrime. Merito della scrittura in presa diretta, di quel concerto di voci che parlano dal buio senza dialogare, di quella disperata vitalità che tiene lontano qualsiasi patetismo. Neanche lo spauracchio femminile di tutti i tempi, l'argomento principe della letteratura dei bassifondi, la prostituzione, le turba, e se ne parlano è con esperto interesse e conoscenza di causa. A Joy, Rube, Silvya e le altre non può neanche venire in mente che la loro vita sia oggetto di compassione o di disprezzo, e se mai gliene venisse il sospetto probabilmente se ne andrebbero indignate e ancheggianti a berci su una birra per dimenticarlo subito.
martedì 20 ottobre 2015
Quant'è difficile vivere in famiglia: Celeste Ng, Quello che non ti ho mai detto
Il romanzo d'esordio di Celeste Ng, Quello che non ti ho mai detto, è un "literary thriller", qualunque cosa ciò voglia dire, che racconta di una famiglia americana in Ohio negli anni '70. La famiglia Lee è composta da un padre di origine cinese e modesta che ha studiato e ora insegna in un'università di provincia, la cui maggiore aspirazione è di integrarsi, di essere accettato; da una madre americana con gli occhi azzurri e i capelli biondo miele, che aveva ambizioni di diventare una scienziata e invece si ritrova casalinga con tre figli; da un fratello maggiore, Nath, in procinto di partire per Harvard, una ragazza che ha appena compiuto sedici anni, Lydia, su cui si sono riversate tutte le aspettative dei genitori, e una figlia piccola, Hanna, piuttosto trascurata da tutti, che ha imparato a ascoltare e osservare nascondendosi, e naturalmente si rivelerà la più solida di tutti.
La scomparsa di Lydia mette in moto la vicenda e porta alla luce tutti i motivi interni che rendono i Lee un gruppo familiare pesantemente disfunzionale, scatenando comportamenti inaspettati (ma non tanto) e costringendo tutti i componenti a arrivare al nodo degli autoinganni e delle incomprensioni che li tengono uniti.
Questo romanzo, che ha avuto un grande successo in patria e all'estero facendo di Celeste Ng una star del firmamento letterario americano di cui si attende con ansia la seconda prova, ha richiesto quattro stesure e una revisione che sono durati sei anni.
Be', si vede. Quello che non ti ho mai detto è dosato in ogni sua pagina con tutto ciò che ci vuole per piacere a un certo tipo di pubblico, è lisciato e soppesato per non sbagliare. Ci si sente la scuola di scrittura creativa e il pesante intervento dell'editor con il bilancino in mano.
Intendiamoci, non è un brutto libro, solo che suona finto, costruito. Non sorprende mai, non affascina né fa venire voglia di andare avanti. L'unico argomento veramente forte (il razzismo contro i cinesi e soprattutto contro le coppie miste) deve farsi strada in mezzo a molto psicologismo e un travestimento thriller davvero pretestuoso, in cui le epifanie sono cedimenti alle mode narrative (il libro nascosto, la goccia d'acqua) non necessari, dozzinali, che abbassano il livello già altalenante e danno un suono falso a tutto il resto.
Però si possono capire benissimo i motivi del successo: l'argomento "famiglia" nella tipica forma di ossessione americana (nei film e telefilm la frase più frequente è "non toccare la mia famiglia"), con tutto che i ragazzi se ne vanno a diciotto anni e quasi mai ritornano; il blando, e piuttosto pretestuoso, travestimento thriller; l'approfondimento psicologico dei personaggi, soprattutto padre, madre e Nath, che permette di ricostruire la vita di tutti. Se vi piacciono le vicende drammatiche e l'eccesso di famiglia non vi dà troppa claustrofobia, questo libro ve lo consiglio volentieri.
La fluida e sapiente traduzione di Manuela Faimali indulge in alcuni vezzi attualissimi, tra quelli che più mi fanno l'effetto delle unghie sul vetro, in particolare l'uso transitivo dei verbi intransitivi o il passato remoto al posto del trapassato (in una narrazione tutta al presente, che già di per sé non mi mette di buon umore). Ho sofferto leggendo perché so che ho perso, e da un bel po': queste tendenze diventeranno sicuramente uso, e forse sono tra gli ultimi che se ne accorgono. Tant'è, non posso fingere che non sia così, e può darsi che una parte di questo fastidio (involontario ma incontrollabile) abbia stinto sulla mia lettura dell'intero libro.
La scomparsa di Lydia mette in moto la vicenda e porta alla luce tutti i motivi interni che rendono i Lee un gruppo familiare pesantemente disfunzionale, scatenando comportamenti inaspettati (ma non tanto) e costringendo tutti i componenti a arrivare al nodo degli autoinganni e delle incomprensioni che li tengono uniti.
Questo romanzo, che ha avuto un grande successo in patria e all'estero facendo di Celeste Ng una star del firmamento letterario americano di cui si attende con ansia la seconda prova, ha richiesto quattro stesure e una revisione che sono durati sei anni.
Be', si vede. Quello che non ti ho mai detto è dosato in ogni sua pagina con tutto ciò che ci vuole per piacere a un certo tipo di pubblico, è lisciato e soppesato per non sbagliare. Ci si sente la scuola di scrittura creativa e il pesante intervento dell'editor con il bilancino in mano.
Intendiamoci, non è un brutto libro, solo che suona finto, costruito. Non sorprende mai, non affascina né fa venire voglia di andare avanti. L'unico argomento veramente forte (il razzismo contro i cinesi e soprattutto contro le coppie miste) deve farsi strada in mezzo a molto psicologismo e un travestimento thriller davvero pretestuoso, in cui le epifanie sono cedimenti alle mode narrative (il libro nascosto, la goccia d'acqua) non necessari, dozzinali, che abbassano il livello già altalenante e danno un suono falso a tutto il resto.
Però si possono capire benissimo i motivi del successo: l'argomento "famiglia" nella tipica forma di ossessione americana (nei film e telefilm la frase più frequente è "non toccare la mia famiglia"), con tutto che i ragazzi se ne vanno a diciotto anni e quasi mai ritornano; il blando, e piuttosto pretestuoso, travestimento thriller; l'approfondimento psicologico dei personaggi, soprattutto padre, madre e Nath, che permette di ricostruire la vita di tutti. Se vi piacciono le vicende drammatiche e l'eccesso di famiglia non vi dà troppa claustrofobia, questo libro ve lo consiglio volentieri.
La fluida e sapiente traduzione di Manuela Faimali indulge in alcuni vezzi attualissimi, tra quelli che più mi fanno l'effetto delle unghie sul vetro, in particolare l'uso transitivo dei verbi intransitivi o il passato remoto al posto del trapassato (in una narrazione tutta al presente, che già di per sé non mi mette di buon umore). Ho sofferto leggendo perché so che ho perso, e da un bel po': queste tendenze diventeranno sicuramente uso, e forse sono tra gli ultimi che se ne accorgono. Tant'è, non posso fingere che non sia così, e può darsi che una parte di questo fastidio (involontario ma incontrollabile) abbia stinto sulla mia lettura dell'intero libro.
lunedì 19 ottobre 2015
Cicero pro domo sua
domenica 18 ottobre 2015
"Miss Mapp" di E. F. Benson: non c'è niente di meglio di un bel pettegolezzo per vivere felici in un villaggio inglese
Confesso che non avevo mai sentito nominare lo scrittore inglese E. F. Benson (1867-1940) ma quando l'ho incontrato nelle pagine di Martin Bauman di David Leavitt l'ho googlato e ho scoperto che proviene da una famiglia molto interessante. Di E. F. Benson in italiano si trovano Lucia a Londra e La regina Lucia, entrambi pubblicati da Fazi sia in cartaceo che in digitale, ma io voglio parlare di Miss Mapp anche a costo di sembrare una snob (l'ho letto in inglese e non sono
riuscita a trovare in rete una traduzione in italiano) e di farmi
mandare a quel paese. Fa parte di un ciclo di sei volumi dedicati a Lucia e Miss Mapp, ai suoi tempi popolarissimo tanto che esistono ben sette libri con gli stessi personaggi scritti da quattro autori diversi, e due serie televisive, una degli anni '80 di Channel 4 e un'altra della BBC del 2014 (con Miranda Richardson). Dico subito che leggerò anche gli altri.
Autore di straordinaria prolificità, Benson scrisse un centinaio di libri tra romanzi, racconti, non fiction; è famoso anche per i suoi racconti di fantasmi che ho già scaricato e me li tengo lì per la prima giornata di nevischio e raffreddore (ma andrà bene anche il sole data la mia passione per l'argomento). Benson è spiritosissimo, ha un occhio micidiale e preciso per le miserie e le debolezze umane, una perfidia senza cedimenti e una capacità di ritrarre luoghi e personaggi che fa pensare proprio alla grande pittura inglese ottocentesca.
In Miss Mapp (1922), la protagonista "Miss Elizabeth Mapp dimostrava quarant'anni, e approfittava di questa opportunità per averne giusto uno o due in più". E' la regina (molto contrastata) della buona società di Tilling, villaggio archetipico basato sulla città natale di Benson, Rye. I pochi che si degna di frequentare (ad esempio, non il dottore né il dentista: sempre lo snobismo inglese, l'occhio implacabile sulle differenze di classe) si riuniscono continuamente in bridge parties pomeridiani, in cui attorno al tavolo da gioco per una volta cadono le affettazioni e le buone maniere e la lotta si fa dura attorno a pochi pence, per non parlare di scellini. Le signore la mattina vanno a fare la spesa con un cavagnino di vimini, si fanno i vestiti da sole o fanno copiare alle sartine i modelli sfoggiati dalla nobiltà a qualche ballo e visti in una foto sul giornale, e soprattutto spettegolano. Questa è l'attività fondamentale di tutti i vari e fantastici personaggi femminili, mentre quelli maschili si dedicano al golf, alla bottiglia, alle carte e a sfuggire elegantemente ai tentativi di cattura da parte delle signore. Nessuno ha molti soldi, e chi ne ha, e lo mostra, viene subito guardato con sospetto e un filo di disprezzo. Miss Mapp sorveglia tutto da una posizione privilegiata, la sua garden room da cui vede la strada principale e chiunque passi, oltre alle finestre dei due scapoli più appetibili del villaggio, il Maggiore e il Capitano di cui spia vita, vizi e virtù.
Gi argomenti su cui ci si arrovella a Tilling sono il sospetto di un duello, vestiti uguali addosso a signore diverse, un bacio tra una signora ricca e un signore con antenati, una sorella sposata con un nobile italiano (la Contessa Faraglioni, detta Faradiddleleony) di cui si dubita persino che esista finché non arriva con montagne di bagagli cifrati e un elegante monocolo, e così via. Ma non bisogna farsi ingannare dalla trivialità dei problemi degli abitanti di Tilling (di cui esiste persino una società Amici di Tilling che si riunisce annualmente) perché i personaggi sono vivi e pieni di sfumature, tanto che alla fine ci si trova a tifare persino per la strapettegola, manipolatrice, intrigante Miss Mapp. La questione è un'altra: le storie minime di queste minime persone sono esilaranti, scritte con un'abilità incomparabile, senza momenti morti né parole inutili, divertono e coinvolgono dalla prima all'ultima pagina, e non si vorrebbe che finissero troppo presto.
Questo libro e gli altri dello stesso ciclo (come ho detto ce ne sono almeno due facilmente reperibili in italiano) li consiglio molto vivamente a chiunque ami l'ironia, o la comicità sottile, a chiunque preferisca leggere libri che stimolano il cervello più che la pancia, a chiunque ami l'Inghilterra che sa ironizzare su se stessa e i suoi tic in maniera davvero magistrale.
Autore di straordinaria prolificità, Benson scrisse un centinaio di libri tra romanzi, racconti, non fiction; è famoso anche per i suoi racconti di fantasmi che ho già scaricato e me li tengo lì per la prima giornata di nevischio e raffreddore (ma andrà bene anche il sole data la mia passione per l'argomento). Benson è spiritosissimo, ha un occhio micidiale e preciso per le miserie e le debolezze umane, una perfidia senza cedimenti e una capacità di ritrarre luoghi e personaggi che fa pensare proprio alla grande pittura inglese ottocentesca.
In Miss Mapp (1922), la protagonista "Miss Elizabeth Mapp dimostrava quarant'anni, e approfittava di questa opportunità per averne giusto uno o due in più". E' la regina (molto contrastata) della buona società di Tilling, villaggio archetipico basato sulla città natale di Benson, Rye. I pochi che si degna di frequentare (ad esempio, non il dottore né il dentista: sempre lo snobismo inglese, l'occhio implacabile sulle differenze di classe) si riuniscono continuamente in bridge parties pomeridiani, in cui attorno al tavolo da gioco per una volta cadono le affettazioni e le buone maniere e la lotta si fa dura attorno a pochi pence, per non parlare di scellini. Le signore la mattina vanno a fare la spesa con un cavagnino di vimini, si fanno i vestiti da sole o fanno copiare alle sartine i modelli sfoggiati dalla nobiltà a qualche ballo e visti in una foto sul giornale, e soprattutto spettegolano. Questa è l'attività fondamentale di tutti i vari e fantastici personaggi femminili, mentre quelli maschili si dedicano al golf, alla bottiglia, alle carte e a sfuggire elegantemente ai tentativi di cattura da parte delle signore. Nessuno ha molti soldi, e chi ne ha, e lo mostra, viene subito guardato con sospetto e un filo di disprezzo. Miss Mapp sorveglia tutto da una posizione privilegiata, la sua garden room da cui vede la strada principale e chiunque passi, oltre alle finestre dei due scapoli più appetibili del villaggio, il Maggiore e il Capitano di cui spia vita, vizi e virtù.
Gi argomenti su cui ci si arrovella a Tilling sono il sospetto di un duello, vestiti uguali addosso a signore diverse, un bacio tra una signora ricca e un signore con antenati, una sorella sposata con un nobile italiano (la Contessa Faraglioni, detta Faradiddleleony) di cui si dubita persino che esista finché non arriva con montagne di bagagli cifrati e un elegante monocolo, e così via. Ma non bisogna farsi ingannare dalla trivialità dei problemi degli abitanti di Tilling (di cui esiste persino una società Amici di Tilling che si riunisce annualmente) perché i personaggi sono vivi e pieni di sfumature, tanto che alla fine ci si trova a tifare persino per la strapettegola, manipolatrice, intrigante Miss Mapp. La questione è un'altra: le storie minime di queste minime persone sono esilaranti, scritte con un'abilità incomparabile, senza momenti morti né parole inutili, divertono e coinvolgono dalla prima all'ultima pagina, e non si vorrebbe che finissero troppo presto.
La casa di E. F. Benson a Rye, modello di Mallards, residenza di Miss Mapp |
Questo libro e gli altri dello stesso ciclo (come ho detto ce ne sono almeno due facilmente reperibili in italiano) li consiglio molto vivamente a chiunque ami l'ironia, o la comicità sottile, a chiunque preferisca leggere libri che stimolano il cervello più che la pancia, a chiunque ami l'Inghilterra che sa ironizzare su se stessa e i suoi tic in maniera davvero magistrale.
martedì 13 ottobre 2015
Ancora a proposito di Magda Szabò: Via Katalin
MAGDA SZABÓ, VIA KATALIN, Einaudi 2008, ed. orig. 1969,
pp. 1980, € 17,00, trad. di Bruno Ventavoli
La più che succinta nota di copertina su Magda Szabó mi
innervosisce con una di quelle affermazioni che fanno prudere le dita dalla
voglia di mollare subito il libro. “Magda Szabó (1917–2007) è considerata la
maggiore scrittrice ungherese del XX secolo”. Vorrei sapere, di grazia, da
chi? E di quale XX secolo? Esiste un XX secolo letterario che permetta di
mettere sullo stesso piano
scrittori
che pubblicarono prima del 1918 e quelli del dopo 1989? Eccetera eccetera, ma
per fortuna avevo letto il precedente La porta, (v. la recensione di
Silvia Treves sul sito di LN–LibriNuovi) che mi aveva incantato così mi sono
rimangiata l’irritazione e ho comprato anche questo romanzo. Negli anni trenta
del secolo scorso, nella via del titolo vivono porta a porta tre famiglie con
quattro bambini, le due sorelle Irén e Blanka, Henriett e l’unico maschio,
Bálint, condividendo giochi e vita quotidiana. Sono borghesi colti, persone
serie e dabbene. Questo stretto legame che si crea in tempi sereni non si
scioglierà più malgrado le tempeste della storia, in cui muoiono prima i
genitori di Henriett poi la ragazza stessa. Crescendo, tra i giovani i rapporti
si complicano e si intrecciano, partenze e ritorni, atti indegni e generosità
scandiscono le loro vite, li segnano, ma anche se ormai sono diversissimi dai
bambini di un tempo l’antico sodalizio prevale sui nuovi legami. È una vicenda
complessa quella di Via Katalin, ulteriormente complicata dalla presenza
di Henriett sotto forma di fantasma che segue i suoi amici avanti e indietro
nel tempo, e dall’alternarsi dei punti di vista. Un romanzo faticoso, che
stenta a ingranare all’inizio perché dà le informazioni con il contagocce, e non
convince del tutto con la storia del legame infantile, in certi punti verrebbe
da dire a Irén, la protagonista: ma piantatela con quest’ossessione
dell’infanzia, decidetevi a crescere. Forse l’infanzia felice è una metafora
della libertà perduta dopo l’avvento del regime comunista, il che spiegherebbe
la scelta di Irén e Bálint di stare insieme anche se l’amore che li univa è
svanito ma non rende più felice la soluzione narrativa. I cenni alla storia
ungherese, per esempio ai fatti del ’56, sono talmente criptici che è
impossibile trarne informazioni, ma essendo il libro del ’69, forse quella che
a noi sembra reticenza era coraggio. Rimangono, certo, la scrittura profonda e
ricca, la rappresentazione accurata di vite nello scorrere del tempo, una
struggente nostalgia di innocenza e felicità, Budapest e il Danubio che
scintilla sullo sfondo, ma la cristallina semplicità di La porta era
un’altra cosa.
lunedì 12 ottobre 2015
La noiosa orfanella di Budapest: Magda Szabò, Ditelo a Sofia
Di Magda Szabò ho tanto amato La porta e La ballata di Iza, molto meno Via Katalin, L'altra Eszter e Per Elisa. Ditelo a Sofia, pubblicato nel 1958 e ambientato a Budapest nel 1957, racconta di Sofia, undici anni, figlia di una psicologa dell'età evolutiva tutta teoria e niente pratica, e di un medico affettuosamente attento a lei. L'amatissimo padre, colpito da infarto nel suo ambulatorio, prima di morire pronuncia la frase del titolo su cui la figlia si interroga ossessivamente. Sofia è praticamente un Incompreso in gonnella: sua madre la sottovaluta e la considera un po' ritardata. Invece si tratta di una ragazzina piena di risorse, tenace e leale, che nella sua ricerca di una testimonianza sulla morte del padre, si ritrova a assistere un vecchio scorbutico e violento, un custode della sua scuola che è stato l'ultimo a raccoglierne le parole. Nell'interazione con il vecchio Pongráz si imbatte in un mondo di cui non sospettava l'esistenza, conquista nuovi amici e a modo suo si comporta eroicamente. Chi la capisce è la maestra Marta Szabò (di cui possiamo senza grande sforzo pensare che sia un alter ego dell'autrice, date anche alcune coincidenze biografiche), acuta osservatrice delle sue allieve, psicologa empirica e innamorata del suo lavoro. Sofia si agita sotto gli occhi perplessi di Marta mentre la madre non capisce niente, e intanto il suo rapporto con Pongráz si sviluppa su binari che più prevedibili non si può. Nel frattempo le cose si complicano per via di uno zio che vuole scappare al di là della cortina di ferro con la sorella di una compagna di scuola di Sofia... dirò solo che la conclusione, ancorché positiva, mi è parsa molto debole.
Qui mi fermo e se ne avete voglia leggetelo voi. Mi piange il cuore per il grande amore che ho per l'autrice e La porta, ma non riesco a mentire: è interminabile, soporifero, con una trama che si complica inutilmente nello sforzo di convincere il lettore che dovrebbe interessarsi alle vicende degli scoloriti personaggi. Certo l'ambientazione nel 1957 fa sobbalzare per la vicinanza con un anno che ha sconvolto non solo l'Ungheria, ma le coscienze e le vite di molti in Europa. Qui non se ne parla, e il personaggio che cerca di fuggire in Austria è totalmente negativo e riceve una punizione davvero perfida, nelle vesti dell'insopportabile moglie con cui gli tocca restare. Invece è interessante vedere il funzionamento della burocrazia e dell'amministrazione dall'interno, con la gestione della scuola e gli arbitrari spostamenti di funzionari e insegnanti, su cui non trapela alcuna critica, anzi tutto sommato il fatto che ci sia chi pensa e decide con giudizio e per il bene di tutti rappresent un elemento positivo e rassicurante.
Io penso che il sostanziale fallimento di questo romanzo sia in gran parte dovuto anche alla scelta di usare il discorso indiretto libero fino allo sfinimento e al ridicolo, con le voci che si alternano di Sofia, della madre, di Marta Szabò, di Pongráz, e persino dei personaggi secondari come il muratore e l'altro custode. Riprodurre il monologo interiore di bambini o di persone cui si attribuisce una certa semplicità di pensiero - malgrado il background comunista, c'è una bella differenza tra la voce dei proletari e quella degli intellettuali - è molto rischioso, e anche qui secondo me il risultato è infelice. Contribuisce in maniera determinante a renderlo stucchevole la traduzione di Antonio Sciacovelli, che nel tentativo di differenziare e di rendere quelle che probabilmente in ungherese sono parlate popolari o dialettali, raggiunge effetti di goffaggine estrema.
Qui mi fermo e se ne avete voglia leggetelo voi. Mi piange il cuore per il grande amore che ho per l'autrice e La porta, ma non riesco a mentire: è interminabile, soporifero, con una trama che si complica inutilmente nello sforzo di convincere il lettore che dovrebbe interessarsi alle vicende degli scoloriti personaggi. Certo l'ambientazione nel 1957 fa sobbalzare per la vicinanza con un anno che ha sconvolto non solo l'Ungheria, ma le coscienze e le vite di molti in Europa. Qui non se ne parla, e il personaggio che cerca di fuggire in Austria è totalmente negativo e riceve una punizione davvero perfida, nelle vesti dell'insopportabile moglie con cui gli tocca restare. Invece è interessante vedere il funzionamento della burocrazia e dell'amministrazione dall'interno, con la gestione della scuola e gli arbitrari spostamenti di funzionari e insegnanti, su cui non trapela alcuna critica, anzi tutto sommato il fatto che ci sia chi pensa e decide con giudizio e per il bene di tutti rappresent un elemento positivo e rassicurante.
Io penso che il sostanziale fallimento di questo romanzo sia in gran parte dovuto anche alla scelta di usare il discorso indiretto libero fino allo sfinimento e al ridicolo, con le voci che si alternano di Sofia, della madre, di Marta Szabò, di Pongráz, e persino dei personaggi secondari come il muratore e l'altro custode. Riprodurre il monologo interiore di bambini o di persone cui si attribuisce una certa semplicità di pensiero - malgrado il background comunista, c'è una bella differenza tra la voce dei proletari e quella degli intellettuali - è molto rischioso, e anche qui secondo me il risultato è infelice. Contribuisce in maniera determinante a renderlo stucchevole la traduzione di Antonio Sciacovelli, che nel tentativo di differenziare e di rendere quelle che probabilmente in ungherese sono parlate popolari o dialettali, raggiunge effetti di goffaggine estrema.