Sulla copertina di questo libro, che preannuncia con geniale fedeltà quello che troveremo all’interno, metà del volto di una bellissima ragazzina sorride tra sé per qualche suo pensiero stupendo mentre dal retro l’altra metà ci guarda serena, e il titolo anticipa il tono di elegante ironia che permette a Margherita Giacobino di affrontare temi anche dolorosi senza mai farsi travolgere dal sentimento né dalla cupezza.
Siamo in una Torino precisissima come topografia e atmosfera, a cavallo tra il secolo scorso e quello attuale. Le due protagoniste, Gioia e Debora, che non si conoscono, narrano le proprie vicende in prima persona a capitoli alterni, disegnando così due educazioni sentimentali – e non solo – parallele, poi tangenti e forse, noi lettori lo speriamo, coincidenti. O intrecciate. La giovane Gioia è l’uovo fuori dal cavagno del detto popolare: qualcosa di speciale. Speciale come te. Che al mondo non ce n’è un’altra, le dice la vecchia Cecca che si prende cura di lei quando la madre è al lavoro. Cresce ribelle alle convenzioni, orgogliosa della propria unicità. Quello che lei stessa definisce il mio avventuroso viaggio nel mondo dei diversi da me comincia nell’infanzia, alle scuole elementari dove si trova a verificare la verità della sua percezione […] non pensavo di essere diversa dagli altri. Ma mi rendevo conto che erano gli altri a essere diversi da me. Queste poche parole sono un esempio dell’understatement ironico quando non caustico di cui l’autrice è maestra. Gioia ha una precocissima coscienza di sé, sa che non vuole essere come le bambine della sua scuola, smorfiose col culetto fasciato dai pantacollant e scarsissimi segni di attività cerebrale, o ancora quelle piccole smorfiose sempre pronte a sedurre e a fare la spia. Però quelle smorfiose le piacciono: amavo le bambine, lo ammetto. Non era solo sesso. Mi coinvolgevo. Perdevo la testa, come tutti gli innamorati. Si capisce che un personaggio in grado di fare un’affermazione simile in prima elementare non può essere che straordinario, e infatti lo è.
La sua divinità personale è la madre, Elisabetta, personaggio che assurge a dimensioni mitologiche nella sua affettuosa bruschezza, e dotato al massimo grado della capacità di non sprecare parole emettendo sentenze definitive di fantastica causticità. L’inciampo sulla strada di Gioia è Stefania detta Stef, grande amore dell’adolescenza che le spezza il cuore trasformandola in Dolores, il nome che si sceglie e non abbandonerà più. Stef è anche un personaggio di grande fascino, ambiguo, ambizioso e contradditorio, sfuggente e pasticcione, che determinerà alcuni degli snodi narrativi principali della vicenda.
L’altra protagonista è Debora, sorella minore di Stef, abituata a difendersi da una madre ossessiva che ha puntato tutto sulla figlia maggiore, da una sorella senza scrupoli nell’appropriarsi di quello che le piace e da un padre sciagurato che però l’accetta com’è. Anche a Debora piacciono le bambine, ma la sua solidità di fondo le fa seguire una strada più lineare, cercando l’aiuto di donne uguali a lei, più esperte e sicure, che finiscono per rappresentare la sua vera famiglia. Con loro capisce che la diversità non esiste se non per chi si considera regola e misura della norma, e sperimenta finalmente l’amore con una donna tanto sognato in solitudine.
Dolores, selvaggia e spericolata, ha davanti l’esempio negativo della zia Manu che vive corteggiando la morte, e sa procedere sul filo del rasoio senza farsi troppo male; l’incontro con Victoria Sereni, anziana scrittrice di sereno egoismo, una donna che ce l’ha fatta a vivere come voleva senza doversi abbassare a incarnare un cliché femminile, capace di capirla e darle sostegno, la conduce finalmente alla scoperta del proprio talento. Anche Debora, dopo aver cercato di aiutare la sua disastrata famiglia, si salva trovando la strada che le appartiene. E noi facciamo il tifo incondizionatamente per le due ragazze, perché dopo le tante peripezie che le hanno viste procedere fianco a fianco senza mai vedersi, riescano a girarsi per guardarsi negli occhi.
Oltre a essere divertente e profondo, L’uovo fuori dal cavagno ha una struttura molto sapiente. È un romanzo fatto di specchi, dove Dolores e Debora si muovono incomplete come le due mezze facce della copertina, le loro vicende speculari sono intessute di rimandi non solo per quel che riguarda i fatti, ma anche per i personaggi che si muovono nei rispettivi ambienti. Speculari le madri, che svolgono entrambe attività legate alla bocca: ma Elisabetta, la mamma buona, nel suo ristorante cucina per nutrire, la mamma cattiva di Debora è assistente alla poltrona di un dentista, e non c’è bisogno di commento. Speculari il padre solido e quello sciagurato, entrambi poco più che appendici delle madri; la sorella Stef seminatrice di guai e la zia Manu che i guai li cerca e li corteggia, Sylvette l’amica coetanea ma saggia di Dolores, sempre pronta a darle una mano, e Meri l’amica anziana di Debora, esperta e disincantata, anche lei sempre disponibile a offrire un porto sicuro nei momenti difficili. E la figura di Vic, in cui Margherita Giacobino rende omaggio a figure di scrittrici a lei molto care, pur campeggiando unica come se non avesse bisogno di specchiarsi in nessuno per essere completa, in realtà fa da contraltare perfetto alla vecchia, ignorante, affettuosa Cecca di quando Dolores era ancora Gioia.
Anche grazie a una scrittura controllata ma piccantina e piena di sorprese, alla fine della lettura di questo romanzo si rimane di buon umore e con un buon gusto in bocca come dopo un ricco gelato, senza controindicazioni per la salute.
(Questa recensione è uscita nel 2010, anno di pubblicazione del romanzo, su LN-LibriNuovi).
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