Stremata dalla lettura di Hakawati - Il cantore di storie di Rabih Alameddine, traduzione di M. Rotondo e F. Nitti, ed. italiana 2010, ed. originale 2008, pagine 756 nell'edizione cartacea, penso con nostalgia a quando mi imbattevo in autori che mi facevano innamorare come Mo Yan e Orhan Pamuk, o libri che mi incantavano, come Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka o Le ricette più piccanti della cucina tatara di Alina Bronsky tanto per fare due esempi abbastanza recenti. Di ultimo non ho trovato niente che mi abbia colpito. Per tornare a Hakawati, non so bene che cosa dire perché ho dato un'occhiata in rete e ho visto solo recensioni talmente entusiastiche da far pensare che ci troviamo di fronte a un nuovo Omero. Va be', io non riesco a unirmi al coro delle lodi. Non è un brutto libro, intendiamoci, Alameddine scrive bene, sa il fatto suo, e anche se non me li vado a cercare, nel caso mi capitassero tra le mani altri libri suoi (con un numero di pagine più ragionevole) probabilmente li leggerei, soprattutto la raccolta di racconti intitolata The perv che però sembra introvabile. Ma è un libro, per i miei gusti tradizionali e banali, piuttosto insopportabile e soprattutto estenuante. Si intrecciano due filoni di storie, quelle dell'io narrante Osama al-Kharrat, libanese emigrato negli Stati Uniti che torna a Beirut nel 2003 per assistere all'agonia del padre, con una lussureggiante vegetazione di sottostorie relativa alla sua famiglia, nonni, genitori, sorella, cugini, amici, e quelle che si generano infinite e senza soste dalla tradizione letteraria e popolare, mischiando Mille e una notte, fiabe, Corano, mitologia classica, Shakespeare, storia riinventata, e chi più ne ha più ne metta. Ora, io ho cominciato a leggere in viaggio, per lo più la sera prima di dormire, per un tempo abbastanza limitato. Risultato: appena cominciavo a entrare nelle storie della famiglia al-Kharrat (complesse, con decine di zii e zie con nomi difficili da memorizzare) venivo scaraventata di brutto nel mondo dei jinn, delle streghe, dei ladri di città e dei ladroni del deserto, delle prostitute scaltre, di emiri e Re d'Egitto, di magie e prodigi e spiritelli e combattimenti tra eroi schiavi e invasori mongoli, eccetera eccetera. Dopo una pagina e mezza, si tornava a Beirut tra un fidanzamento, un tradimento coniugale e amicizie infantili, con una certa insistenza in scene di morte e figure femminili eccezionalmente forti e originali. Frastornata (e probabilmente anche assonnata, perché devo confessare che la parte fiabesco-meravigliosa mi ha annoiata a morte, non è proprio il mio genere) perdevo il filo, e interrompevo la lettura. Così non sono riuscita a entrare in nessuno dei vari filoni abbastanza da farmi coinvolgere. Non sono riucita a distinguere i vari livelli su cui si sviluppavano i racconti fiabeschi, e la parte legata alla vita del protagonista, già spezzata nell'inevitabile andirivieni temporale, senza il quale nessuno scrittore americano si sente realizzato, non riusciva a acchiapparmi. Un peccato perché è interessante. E' bellissima per esempio la storia del nonno paterno, nato a Urfa da un missionario inglese e una serva armena e diventato hakawati, cioè narratore professionista, per pura passione, suscita curiosità l'ambiente dei drusi in cui vive l'io narrante, si vorrebbe saperne di più sulla sua vita in America, sulla madre, sullo zio Jihad, la sorella Lina, e così via. Ma vi pare che Alameddine si neghi l'altro vezzo obbligatorio degli scrittori americani & seguaci nostrani, cominciare una storia e mollarla rigorosamente a metà senza concluderla? Così non posso che dire che Hakawati - Il cantore di storie mi ha lasciata molto insoddisfatta e annoiata, anche se riconosco la bravura dell'autore e la sua capacità di costruire un monstrum (nel senso etimologico) per dimensioni e complessità. Ma riconosco le mie responsabilità e i miei limiti per cui dico: è un romanzo che vale sicuramente la pena leggere, tenendo presente che è necessario dedicargli un po' di tempo e di attenzione, un po' di impegno; che bisogna amare le fiabe; che malgrado si presenti come un moderno cantastorie, Alameddine è uno scrittore per niente tradizionale, è reticente e molto in linea con le mode letterarie di oggi; che se il nonno hakawati avesse raccontato come lui le sue storie che tenevano avvinti sera dopo sera per mesi gli avventori dei caffè di Beirut e il bey che lo manteneva come suo narratore privato, probabilmente sarebbe finito linciato.
E io sento la mancanza di Mo Yan e Orhan Pamuk, i miei hakawati preferiti, che scrivono in un modo che
mi incanta, mi riempie di stupore e di invidia, e mi spediscono diritta diritta in un mondo di sogni in cui mi sento sorella dei baffuti frequentatori dei caffè di Aleppo e Urfa. Sia benedetta la stirpe degli hakawati, che ci rendono più leggera la vita e meno buia la notte.
Come molti altri libri anche questo andrebbe letto no stop, tutto in un fiato, in full immersion. Con brevi soste per cibo e sonno ristoratore.(E segreteria telefonica inserita!). Penso al Don Chisciotte, A suitable boy, le saghe storiche della Dunnet ... Non interromperemmo mai l'ascolto di una composizione musicale per riprendere il giorno dopo... (anche se con Wagner, confesso, sia inevitabile.... :-) o similmente non guarderemmo mai un pezzo di un quadro alla volta...Perdere il filo della narrazione danneggia irrimediabilmente il piacere di una certa letteratura. Stephen King lo posso interrompere e riprendere senza grandi traumi... ma per Murakami , Alameddine and C. mi sarebbe impossibile!
RispondiEliminaPurtroppo non è sempre possibile trovare uno di quei bei pomeriggi vuoti da trip romanzesco. Una spiaggia, un libro e una tamerice per essere felice... o un bel treno indiano di quelli d'antan, senza aria condizionata e tè serviti al finestrino in ciotoline di terracotta. Condivido la passione per A suitable boy. E grazie per la segnalazione, malgrado le mie riserve Hakawati è un libro che vale davvero la pena di leggere.
RispondiEliminaMi congratulo per la tua volontà di leggerti un libro di 700 e passa pagine. Personalmente sono sempre restio a imbarcarmi in un libro di quelle dimensioni. Ho paura di esserne deluso e non riuscire a smetterlo. Certo, si può sempre smettere, come ci insegna Pennac, ma io non riesco. Con tutto ciò mi sono imbarcato in un romanzo di 600 pagine, quest'estate. La rece l'ho pubblicata su ALIA Evolution e curiosamente non è troppo diversa dalla tua. Mi scuso per la mia scarsa convinzione di lettore ma non posso onestamente dire che mi sia piaciuto. Certo anche per colpa mia :-(
RispondiEliminaMax, ti ho risposto su ALIAEVOLUTION
RispondiElimina