Con questo romanzo molto premiato Julie Otsuka ha raggiunto la
popolarità negli USA, mentre in Italia è comparso prima il bellissimo Venivamo tutte per mare con l'ottima traduzione di Silvia Pareschi.. Finalmente (gennaio 2013) Bollati Boringhieri l'ha mandato in libreria; la bravissima traduttrice è ancora Silvia Pareschi. Per questo ripubblico la recensione già apparsa su questo blog con il titolo originale, When the Emperor was divine. Se Venivamo tutte per mare raccontava
coralmente le vite di migliaia di donne giapponesi che dal principio
del Novecento sono sbarcate in California per congiungersi con i mariti
emigrati, sposati per procura, qui è narrata l'oscura e vergognosa
storia dell'internamento dei cittadini statunitensi di origine
giapponese dopo Pearl Harbor. Considerati indiscriminatamente potenziali
traditori, informatori del nemico, più fedeli all'Imperatore che al
governo dello zio Sam, furono allontanati dalle proprie case, privati di
averi e libertà, raccolti in campi di concentramento dove trascorsero
anni nell'inattività e nel disagio più totali. La famiglia protagonista
vive dapprima il trauma di veder prelevato in piena notte il padre
(portato via in vestaglia e ciabatte, particolare che tormenterà il
figlio bambino per tutto il tempo della separazione) poi, quando per
strada compaiono i manifesti in cui si avvisano gli americani di
ascendenza giapponese che il giorno tale dovranno partire per una
destinazione sconosciuta portando con sé solo una valigia di effetti
personali, lo strappo violento della perdita di punti fermi, amici,
abitudini, sicurezze. Né il ritorno sarà la facile e felice ripresa
della propria vita: ciò che è perduto non si ritrova, essere assimilati
ai nemici sconfitti crea disagio e vergogna, gli altri, quelli che sono
rimasti, non hanno nessuna voglia di riaccogliere chi avevano già
dimenticato. Anche se non raggiunge la commovente (e strabiliante)
perfezione della voce corale di Venivamo tutte per mare, Julie
Otsuka è una scrittrice sicura e padrona dei suoi mezzi, capace di
narrare una vicenda tanto densa con cristallina semplicità, obiettività e
distacco, creando i personaggi attraverso piccoli tocchi e notazioni
rivelatrici. Alternando i punti di vista dei quattro personaggi senza
nome (e il più sconvolgente è quello del padre, l'unico che parla in
prima persona, anche se forse è quello che convince di meno), senza mai
cedere all'indignazione o all'empatia ostentata, ci fa partecipare con
indignazione a un momento di storia poco conosciuto, di cui giustamente
gli Stati Uniti non amano parlare perché non torna a onore di uno stato
che della democrazia fa il proprio pilastro portante.
Un romanzo bello, severo e necessario.
Per chi ne volesse sapere di più sull'argomento, Silvia Pareschi ha pubblicato su Nazione Indiana un bell'articolo, esauriente e di grande interesse, Enemy aliens, I romanzi di Julie Otsuka e le storie dimenticate dei giapponesi schedati e internati dei campi di prigionia.
Comprato ma non ancora letto - se non per le primissime pagine - dato che l'ho regalato alla nostra Silvia nazionale. Comunque concordo con la recensione, perlomeno per ciò che riguarda Venivamo tutte dal mare.
RispondiEliminaSì, non raggiunge "Venivamo tutte per mare" ma l'argomento è davvero interessante. Ciao Max.
RispondiEliminaGrazie! Hai visto l'articolo che ho pubblicato su Nazione Indiana, in cui ripercorro la storia dei campi di prigionia americani?
RispondiEliminaLo trovi qui: testo.
Grazie a te, Silvia, per la condivisione! Ho aggiunto il link nella recensione. Ciao.
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