Io
non sono una che si commuove sui bei tempi andati, non rimpiango né l’infanzia
(dio mi scampi) né le cameriere in
crestina e guanti né i valori perduti né quando la vita era più semplice ecc
ecc (dio mi scampi il doppio). Mi piace abbastanza quello che mi vedo in giro e
mi secca tantissimo pensare che da un certo momento in poi, senza scomodare la
fine del mondo, mi perderò un sacco di novità e cambiamenti. Però mi piace
sbirciare in altri tempi come mi piace sbirciare in altri luoghi, e l’occasione
di questo post sono le tre ultime letture che ho fatto, fortemente connotate al
passato e in grado di scatenare nostalgie di vario tipo.
Rule Britannia. Sto seguendo con molto piacere
il serial Downton Abbey, ottimamente fatto e pieno di attori così bravi che
sembra impossibile non siano tutti star galattiche. Quest’estate ho letto le
memorie di una cuoca inglese, Below stairs di Margaret Powell (ora pubblicato da Einaudi Stile Libero, con il
titolo di Ai piani bassi, traduzione
di Carla Palmieri e Anna Maria Martini), sul mondo delle grandi
case viste dal seminterrato; adesso è stato il turno di un libro di Rudyard
Kipling, The eyes of Asia, quattro racconti
ambientati durante la prima guerra mondiale e pubblicati nel 1918. Non so se
siano stati tradotti in italiano; non sono riuscita a trovarne notizia come
libro a sé stante, ma probabilmente sono presenti in qualche collettanea di
racconti. Se leggete in inglese e avete un Kindle, li potete scaricare aggratis
su Amazon. Riportano all’atmosfera e al momento storico raccontato in Downton
Abbey, un momento in cui l’impero britannico era ancora ben lontano dal
disfacimento, l’orgoglio e il patriottismo riempivano tutti i petti e la guerra
li esaltava. Il buon Rudyard, solitamente ottimo scrittore di racconti (leggete
Plain tales from the hills e i
racconti dell’orrore tipo il celeberrimo Il
risciò fantasma, oltre che L’uomo che
volle farsi re e altri; per non parlare di un romanzo come Kim, pieno di ammirazione e conoscenza
dell’India) si abbandona qui al suo penchant
per il colonialismo e l’imperialismo
dando voce a quattro soldati dell’esercito britannico, tre indiani e un afgano,
sikh e musulmani ovviamente, gli indù non erano buoni soldati per il Raj, che
scrivono ai famigliari in patria. Uno, ferito, è ospite di una magione
nobiliare trasformata in convalescenziario militare: l’esatta situazione di
Downton Abbey. Gli altri si trovano in Francia, alloggiati presso famiglie
locali che li trattano come figli, le padrone di casa si preoccupano di quello
che mangiano, che siano ben coperti, che i loro vestiti siano puliti e
disinfestati. Tutti si stupiscono di come sono ben trattati (non faccio niente
e nessuno si arrabbia con me! gli inglesi scrivono le lettere per me sotto
dettatura come se fossero scrivani da bazar! le donne sanno leggere e scrivere!
i bambini non portano gioielli così nessuno li assale per derubarli, vanno a
scuola, portano le bestie al pascolo! persino i cani si rendono utili badando
alle bestie, ecc ecc), sono pieni di ammirazione per il livello di civiltà che
li circonda, per come sono ben coltivati i campi, perché la gente non bisticcia
e non mente (mah!!! intanto sono lì per una guerra che è un massacro, e mi pare
un po’ peggio di una lite tra compaesani), si commuovono per la morte sotto le
bombe di una piccina tanto vivace e graziosa. Insomma, gli occhi saranno pure
quelli dell’Asia ma il ventriloquo che fa parlare i personaggi è un europeo
convintissimo della sua superiorità (la cosa curiosa è che molta di questa
ammirazione asiatica è dedicata ai francesi, solitamente non proprio oggetto di
stima per gli spocchiosi inglesi). Perché leggerlo? Perché letto con gli occhi
dell’Europa, e di oggi, è divertente e molto istruttivo. Perché anche voi state
seguendo Downton Abbey (e se non lo fate, non sapete che cosa vi perdete).
Perché è un atto di presunzione che può far riflettere anche oggi, che
moltissimi “occhi dell’Asia” ci osservano tutti i giorni da molto vicino, e
sicuramente non sono benevoli e pieni di ammirazione come quelli di
Kipling.
Seconda
tappa nel mondo della nostalgia, i racconti di Ivo Andrič Litigando con il mondo. Ragazzi che giocano nell’indimenticabile
Vişegrad di Il ponte sulla Drina, e
studiano a Sarajevo. Ragazzi che vivono un’infanzia di una libertà nemmeno immaginabile
per quelli di oggi chiusi sempre in spazi protetti, siano le loro stanzette
piene di giochi o le palestre, i campi sportivi, le aule scolastiche, le
macchine, ecc. Questi racconti, scritti tra il 1936 e il 1958, colgono i
giovani protagonisti nel momento in cui si scontrano con un particolare della
vita che non capiscono: questo li costringe a interrogarsi, a fare uno sforzo
per appropriarsi di un pezzetto di comprensione in più, e in questo processo
inevitabilmente crescono. Sono anche interessantissimi spaccati di vita in un
paese sempre in bilico tra Europa e Oriente, e ancora di più tra modernità e un
modo di vivere immobile, antico, ormai decisamente esotico per il lettore
moderno. Leggete a questo proposito Il Panorama,
in cui il protagonista viene completamente stregato da una sorta di lanterna
magica che presenta scene di vita da tutto il pianeta, e si forma una sua idea
del mondo in cui vive a partire da quelle fotografie, immaginando anche la vita
futura dei personaggi che vi appaiono, in una vertigine immaginativa che lascia
senza fiato. O La gita e La torre, dove i giochi si svolgono in
scenari gravidi di passato e di storia ormai incomprensibili ma pur sempre
carichi di significato emotivo. E le mamme di oggi rabbrividiranno al pensiero
dei loro figli intenti nei passatempi descritti in Sulla riva, dove i bambini attraversano a nuoto la Drina avanti e
indietro finché non fa troppo freddo per continuare: […] La fredda acqua verde scuro, ricoperta dalle ombre del crepuscolo, li
accolse facendoli rabbrividire, mentre la corrente trascinava via i loro corpi
leggeri, stanchi e affamati dopo tanti bagni. Ma loro opponevano resistenza,
nuotavano, lanciando strilli per il freddo e dirigendo gli sguardi verso la
riva illuminata. Altro motivo di nostalgia, oltre a quello che scaturisce
dalla descrizione di un mondo che non potremo mai conoscere perché sparito
ormai da troppo tempo, è la scrittura elegante, calma, preziosa, capace di
raccontare storie infantili senza venire meno alla sua perfezione. E poi,
ricordo il piacere provato quando ho letto Il
ponte sulla Drina, uno di quei libri che mi hanno aperto il cuore e la
mente come un mio personale Panorama. Ancora adesso certi libri mi rapiscono ma
non ho più i vent’anni di allora e non è più la stessa cosa. Ricordo anche che
lo imprestai a un mio moroso del tempo (mi è sempre piaciuto condividere i
libri che amo molto) magnificandoglielo, e quello quasi mi strozzò perché la
scena iniziale del romanzo è un impalamento molto minuzioso, assai migliore di
quello descritto da Mo Yan in Il
supplizio del legno di sandalo. Mai capiti quelli che rabbrividiscono
virtuosamente per le scene di violenza, sesso, perversione ecc nei libri. Son
parole, mica fatti, se son ben scritte leggerle è un piacere, se sono brutte
non fanno impressione perché falliscono il loro scopo, no? Mah. Comunque, quello
dopo pochissimo mi ha mollata.
L’ultima
nostalgia letteraria per oggi è suscitata dalla lettura del racconto di Edmondo
De Amicis Il “Re delle bambole”,
Sellerio 1980, non credo che riuscirete a trovarlo, io ho avuto la fortuna di
scovarlo nella nuova libreria Il Ponte sulla Dora in via Pisa, a Torino. E qui
la nostalgia è privatissima, e si è scatenata quando ho aperto la prima pagina
e ho letto Così lo chiamano molte delle
sue piccole clienti, ed è Gerardo Bonini, inventore, fabbricante e negoziante
di bambine inanimate, che ha la bottega in via Roma. Quel nome, Bonini, mi
ha riportata di gran corsa alla mia infanzia in cui uno dei piaceri più grandi,
concesso con magnanimità ogni volta che si passava nei paraggi perché
assolutamente privo di rischio economico, era andare a vedere le vetrine del
negozio di giocattoli Bonini, in piazza Solferino. Santissima ingenuità della
mia età bambina. Mai mi sarebbe venuto in mente che qualcuno di quei tesori in
vetrina avrebbe potuto diventare mio, erano inattingibili, al di là di
qualsiasi rapporto con la realtà. Puro regno del desiderio e del sogno. Mi
bastava sognare, e anche adesso mi piace tantissimo guardare con desiderio
vetrine cariche di tesori che non possiederò mai e non desidero neppure
possedere. Be’, per tornare a De Amicis, questo breve racconto, quasi più un
articolo-intervista che una narrazione, è molto godibile anche se non
indimenticabile. Lo scrittore si bea della vista delle bambole e dal
giocattolaio si fa raccontare delle sue piccole clienti, come si comportano per
ottenere le bambole di cui si sono incapricciate, dell’amore che le lega a quel
mondo anche quando sono cresciute, e per parte sua si lascia andare
all’immaginazione facendosi trascinare in una ridda di creature meccaniche un po’
buffe un po’ inquietanti. Con tono amabile e sotteso di ironia, fatica a
allontanarsi dalla bottega e confessa alla fine della visita Insomma… mi divertivo. Non ho ben capito
la postfazione di Carlo A. Madrignani, che vuol vedere in questo resoconto discorsivo
e sorridente un sottofondo di inquietudine. Io ho giocato furiosamente con le
bambole, ne ho amate alcune di un amore appassionato, e non ho mai perdonato a
mia madre che a mia insaputa una volta ne ha fatto un bel sacco e le ha
regalate alle suore dell’oratorio. Va be’, storia passata, ma ancora mi si
torce lo stomaco a pensarci. Ora, la nostalgia nasce anche dal fatto che il
negozio di Bonini ha chiuso di recente. Certo, ci sono effetti della crisi
molto più pesanti, ma questo non glielo perdono. Non ci sarà mai più nessuna
vetrina come quella.
"Altro motivo di nostalgia, oltre a quello che scaturisce dalla descrizione di un mondo che non potremo mai conoscere perché sparito ormai da troppo tempo, è la scrittura elegante, calma, preziosa, capace di raccontare storie infantili senza venire meno alla sua perfezione".
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Caterina Mion