Orhan
Pamuk, La casa del silenzio
Questo
romanzo, la cui edizione originale è del 1996, pubblicato in italiano da
Einaudi nel 2007 con traduzione di Francesco Bruno, avrebbe secondo me bisogno
di quell’obsoleto supporto editoriale che è la prefazione. Presentato così nudo
e crudo a un pubblico di lettori anche sensibili e curiosi, ma lontani dalle
problematiche storiche e culturali della Turchia moderna, rischia di essere
letto come vicenda familiare e di deludere chi, giustamente, da questo tipo di
narrazione si aspetterebbe una maggiore sensibilità alle psicologie dei
personaggi. Io penso invece che l’interesse di un libro come La casa del silenzio (che reca in calce
le date 1980-1983, e si può quindi pensare a un’opera giovanile di Pamuk, nato
nel 1952) sta proprio nel suo valore metaforico, che è anche il suo limite, e
nella rappresentazione delle diverse anime della Turchia attraverso i
personaggi che si alternano come io narrante. Per dirla tutta, mi è sembrato un
imparaticcio ancora un po’ rigido della capacità di rappresentare la Storia
attraverso singole vicende individuali che raggiungerà in Neve un livello di perfezione. La vicenda si svolge nell’estate del
1980, a ridosso quindi del colpo di stato militare del 12 settembre, che poneva
fine a un decennio di conflitti tra destra e sinistra sostenuti e fomentati dal
conflitto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, e sfruttati dai militari per
arrivare appunto alla presa del potere. Come tutte le estati, nella grande e
vecchia casa di Fatma, a Tuzla, località sul Mar di Marmara non lontana da
Istanbul, arrivano in visita i nipoti Faruk, Metin e Nilgün, unica femmina.
Fatma è accudita dal nano Recep, il cui nipote, Hasan, giovane sfaccendato e
infiammato da idee nazionaliste, parafasciste e violente, fa parte di un gruppo
di estrema destra ai limiti della delinquenza. Le voci che si alternano sono
quelle di Recep, Fatma, Faruk, Metin e Hasan. Fatma è depositaria di conoscenze
e segreti che i nipoti non condividono, tra cui il fatto che Recep e suo
fratello Ismail lo zoppo, che campa vendendo biglietti della lotteria, sono
figli illegittimi di suo marito, il defunto medico Selâhattin, e di una serva
bella e ignorante. Abbiamo così due blocchi ben distinti dall’appartenenza di
classe, tra i quali Recep funge da trait d’union. Gli intrecci tra i vari
personaggi sono complessi. Durante l’infanzia Metin e Nilgün hanno avuto Hasan come compagno di giochi, ma
ora che sono cresciuti le loro strade si sono divise, e Hasan è divorato
dall’invidia, dal risentimento e da un’ambigua ossessione per Nilgün. Recep, il
nano, e Ismail, lo zoppo, quand’erano bambini sono stati ridotti in questo modo
dalle bastonate di Fatma, gelosa e esasperata dal marito che le aveva imposto
la presenza dell’amante e di suoi figli; Selâhattin non ha saputo né voluto
difenderli perché economicamente dipendeva dalla moglie. Da questo intreccio
esplosivo deriva la conclusione inaspettata e anche un po’ ingiustificata. Ma
come dicevo prima, quello che conta non sono le azioni dei personaggi ma ciò
che rappresentano, sullo sfondo di un luogo di villeggiatura smemorato e
peccaminoso che ha tradito le sue radici agricole per accogliere una ricca
borghesia che pare non sappia che cosa fare di se stessa, e in un momento di
grande instabilità politica in cui ogni giorno si contano morti ammazzati
dell’una e dell’altra parte, dall’estremo est di Kars all’occidente di Edirne.
Fatma,
novantenne querula e imperiosa, crudele, immersa nei ricordi felici
dell’infanzia, che si vanta ossessivamente della purezza dei propri pensieri e
custodisce con pazza gelosia il cofanetto dei gioielli ormai vuoto, piena
di astio contro il marito, diffidente nei confronti di Recep che è l’unico che
si preoccupa di lei e del suo benessere, insofferente verso i nipoti, è la
Turchia ottomana, la grande tradizione ormai morta che però con le sue
ricchezze ha permesso alla Turchia moderna di nascere e formarsi; Selâhattin,
che conosciamo attraverso le parole della moglie, il medico fallito, l’esiliato
a vita, l’ubriacone illuso, il perdente che passa la vita a scrivere
un’enciclopedia che cambierà le sorti del suo paese e dopo la sua morte verrà
bruciata da Fatma, l’ateo, il razionalista che quando nel 1934 deve darsi un
cognome sceglie Darvinoğlu, cioè De Darwin, che odia la moglie ma le fa vendere
i diamanti della dote uno dopo l’altro per finanziare i suoi folli sogni, è la
Turchia di Atatürk, filooccidentale, europeista, proiettata verso la modernità
e piena di disprezzo per l’Oriente, le sue tradizioni e il suo oscurantismo,
che ha sostanzialmente fallito nel suo sforzo per liberarlo; Faruk,
l’intellettuale abbandonato dalla moglie che cerca consolazione nel vino e nel
cibo, lo storico che nella storia non riesce a trovare un significato che vada
al di là dei singoli opachi episodi, rappresenta l’impotenza della Turchia
moderna di fronte all’incomprensibilità dei processi che hanno portato
all’attuale situazione; Metin, giovane e brillante ma frustrato nelle sue
aspirazioni alla ricchezza e alla bella vita, momentaneamente preso dalla
ragazza Ceylan che non lo ricambia, con il sogno dell’America nel cuore, è la
Turchia giovane che non ha la pazienza di aspettare che la patria sia in grado
di realizzare i suoi desideri, e l’abbandona emigrando non per necessità ma per
ambizione; mentre dall’altra parte della barricata, tra le classi dei
diseredati, Hasan, invidioso dei cugini che lo hanno dimenticato, è la preda
più facile per il populismo, la violenza immotivata e i valori distorti del
nazionalismo sfrenato dei Focolari dell’Ideale, associazione fascista, in fondo
uno degli sbocchi degenerati del kemalismo di cui Selâhattin rappresenta
l’altra faccia. Infine, il mite Recep, pronto all’ubbidienza e a compiere il
proprio dovere senza interrogarsi, solitario, bisognoso di un po’ di compagnia
e di affetto ma capace di lasciare da parte le proprie esigenze per prendersi
cura degli altri, è la Turchia reale, erede non riconosciuta di tradizione,
modernizzazione e nazionalismo, che pur storpiata
dalla storia e malripagata della sua fedeltà, senza esserne cosciente ne ha conciliato in sé i diversi
significati e paziente e silenziosa va avanti senza guardarsi troppo indietro.
Più sfocata la figura di Nilgün, più
detta che agita (l’unico atto da “comunista”, come viene sempre definita, che
la vediamo compiere, è l’acquisto del quotidiano Cumhurryet ), pur essendo in un certo senso il centro di tutta la
narrazione. A questo proposito si può osservare che le figure femminili in
questo romanzo sono piuttosto sbiadite, come Nilgün e Ceylan, o negative, come
Fatma, mentre l’unica figura vissuta come positiva da Selâhattin, la serva con cui ha generato
Ismail e Recep, non ha né nome né storia. E anche questo sono certa che non è
casuale ma rappresenta un aspetto della storia della Turchia.
Io
penso che tenendo presente questo forte sottofondo storico si potrà meglio
apprezzare un romanzo ben lontano dalla meravigliosa, lancinante prosa di Neve o di Istanbul, ma che ha una sua potente attrattiva nella varietà di
voci e personaggi che si muovono soli, senza capirsi né amarsi, nell’estate del
1980 sul Mar di Marmara.
Molti i refusi.
Molti i refusi.
Una
recensione molto completa e molto più chiara della mia, a opera di Francesco83, si può leggere qui.
Ciao Conso. Ottima rece, come tua abitudine. Non conosco questo libro ma, nonostante le tue cautele, mi è venuta voglia di leggerlo. Domani mattina - o la massimo giovedì - la copierei per LN, se non hai nulla in contrario. Un abbraccio esagerato.
RispondiEliminaE' tutta tua (la rece), naturalmente. Il libro è interessante, se non fosse di Pamuk direi che è un gran bel romanzo. Ma da lui mi aspetto miracoli... Ora passerò al Museo dell'innocenza. Smack smack smack
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