Jón Kalman Stefánsson, La tristezza degli angeli, Iperborea 2011, traduzione di Silvia Cosimini.
Ambientato in una cupa e gelida Islanda all'inizio del secolo scorso, secondo
capitolo di una trilogia dopo il
folgorante Paradiso e inferno, La tristezza degli angeli prosegue con
la storia del ragazzo senza nome e senza famiglia già protagonista del primo
volume. Il ragazzo ha trovato rifugio nel Villaggio anch’esso senza nome,
nell'ospitale casa di Helga, ma ben presto deve ripartire per accompagnare il
postino Jens nel suo giro di consegna nei fiordi occidentali. Attorno a loro ci
sono parecchi personaggi le cui vite si incrociano senza che al lettore sia
concesso di penetrarne i segreti. Come il cuore del primo volume erano le spedizioni
in mare del ragazzo e del suo amico Bálður, qui si è rapiti appena inizia il
viaggio del grande, silenzioso Jens e del ragazzo loquace e appassionato di
libri. La meravigliosa lingua poetica, ritmata e ipnotica resa perfettamente
dalla traduttrice Silvia Cosimini, che già mi aveva conquistato in Paradiso e inferno, spinge il lettore in
un mondo irreale e spaventoso, dove il vento e la neve sono personaggi di primo
piano. Anche se non succede molto, la storia non è per niente lineare nel senso
che ci sono continue fughe dalla linea narrativa, riflessioni sulla morte,
sulla vita, sulla natura dell'uomo, sul passato, aneddoti e leggende, come se
solo la fuga permettesse all'uomo di sopravvivere a una situazione simile. Gli
uomini che camminano carponi per non essere portati via dal vento, che si
devono raschiare via il ghiaccio dal viso con il coltello, accecati dalla neve
e spaventati dal rombo del Mar Glaciale sono costretti a desiderare, a sognare
continuamente, a proiettarsi al di là di ciò che i loro sensi tormentati percepiscono.
È un racconto centripeto, il contrario della claustrofobia, più eroico che
patetico anche nei molti incontri con personaggi vivissimi anche se abbozzati
in poche pagine, che ci fanno intravedere modi di vivere inimmaginabili. Nell’ultima
parte la comitiva si allarga con l’arrivo di Hjalti, aiutante di fattoria, e di una
compagna di viaggio inaspettata. Il finale è un colpo basso, mitigato dalla
consapevolezza che ci sarà un terzo volume.
È un libro
da leggere lentamente, assaporando ogni riga e ogni respiro che vi sta nascosto
in mezzo. Racconta il dramma di uomini che devono vivere nella solitudine, tra
fantasmi esterni e interni, i morti e l'alcol, l'amore e la violenza, e che
hanno la voglia e la sapienza di mettersi a recitare poesie e cantare antiche
canzoni quando la morte viene troppo vicina e li guarda negli occhi. Descrive una
natura nemica, estrema, che fa risaltare la debolezza dell’uomo e la forza che
gli permette di sopravvivere e trovare le parole per creare le poesie che forse
salveranno la vita a qualcuno, forse gliela faranno perdere, come a Bálður. Era impossibile vivere in questo paese,
eppure siamo qui che tiriamo avanti da mille anni.
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