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domenica 21 ottobre 2012

La poesia ci salva, la poesia ci uccide, Jón Kalman Stefánsson, La tristezza degli angeli



Jón Kalman Stefánsson, La tristezza degli angeli, Iperborea 2011, traduzione di Silvia Cosimini.

Ambientato in una cupa e gelida Islanda all'inizio del secolo scorso, secondo capitolo di una trilogia dopo il folgorante Paradiso e inferno, La tristezza degli angeli prosegue con la storia del ragazzo senza nome e senza famiglia già protagonista del primo volume. Il ragazzo ha trovato rifugio nel Villaggio anch’esso senza nome, nell'ospitale casa di Helga, ma ben presto deve ripartire per accompagnare il postino Jens nel suo giro di consegna nei fiordi occidentali. Attorno a loro ci sono parecchi personaggi le cui vite si incrociano senza che al lettore sia concesso di penetrarne i segreti. Come il cuore del primo volume erano le spedizioni in mare del ragazzo e del suo amico Bálður, qui si è rapiti appena inizia il viaggio del grande, silenzioso Jens e del ragazzo loquace e appassionato di libri. La meravigliosa lingua poetica, ritmata e ipnotica resa perfettamente dalla traduttrice Silvia Cosimini, che già mi aveva conquistato in Paradiso e inferno, spinge il lettore in un mondo irreale e spaventoso, dove il vento e la neve sono personaggi di primo piano. Anche se non succede molto, la storia non è per niente lineare nel senso che ci sono continue fughe dalla linea narrativa, riflessioni sulla morte, sulla vita, sulla natura dell'uomo, sul passato, aneddoti e leggende, come se solo la fuga permettesse all'uomo di sopravvivere a una situazione simile. Gli uomini che camminano carponi per non essere portati via dal vento, che si devono raschiare via il ghiaccio dal viso con il coltello, accecati dalla neve e spaventati dal rombo del Mar Glaciale sono costretti a desiderare, a sognare continuamente, a proiettarsi al di là di ciò che i loro sensi tormentati percepiscono. È un racconto centripeto, il contrario della claustrofobia, più eroico che patetico anche nei molti incontri con personaggi vivissimi anche se abbozzati in poche pagine, che ci fanno intravedere modi di vivere inimmaginabili. Nell’ultima parte la comitiva si allarga con l’arrivo di  Hjalti, aiutante di fattoria, e di una compagna di viaggio inaspettata. Il finale è un colpo basso, mitigato dalla consapevolezza che ci sarà un terzo volume.
È un libro da leggere lentamente, assaporando ogni riga e ogni respiro che vi sta nascosto in mezzo. Racconta il dramma di uomini che devono vivere nella solitudine, tra fantasmi esterni e interni, i morti e l'alcol, l'amore e la violenza, e che hanno la voglia e la sapienza di mettersi a recitare poesie e cantare antiche canzoni quando la morte viene troppo vicina e li guarda negli occhi. Descrive una natura nemica, estrema, che fa risaltare la debolezza dell’uomo e la forza che gli permette di sopravvivere e trovare le parole per creare le poesie che forse salveranno la vita a qualcuno, forse gliela faranno perdere, come a Bálður. Era impossibile vivere in questo paese, eppure siamo qui che tiriamo avanti da mille anni.

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