Adrian
Nicole LeBlanc, Una famiglia a caso – Amore, droga e guai nel Bronx
Raramente
un libro riesce a darmi insieme piacere, totale adesione, aperture di nuovi
orizzonti, curiosità e la voglia di ricominciare appena l’ho finito, come mi ha
dato questo Una famiglia a caso, uscito con grande successo negli Stati Uniti nel 2003. L’ho
comprato nel 2007, incuriosita da qualche recensione, e colpevolmente l’ho
lasciato chiuso e negletto nello scaffale dei libri ancora da leggere. Scampato
alla furia di eliminare tutto che mi ha preso quando ho dovuto sgombrare il mio
appartamento, l’ho acchiappato un paio di settimane fa, un po’ infastidita
dalla massa cartacea che mi toccava tenere in mano per leggerlo – 486 pagine,
non so se mi spiego. Non è un romanzo, è uno studio sociologico scritto in
maniera molto discorsiva, più letteraria che giornalistica, e forse l’unico
limite che gli ho trovato è proprio quello di presentarsi in una veste un po’
troppo narrativa. Pubblicato molto lodevolmente da Alet con la bella traduzione
di Cristiana Mennella, racconta la vita di un gruppo di portoricani nel Bronx seguiti
da Adrien Nicole LeBlanc per una decina d’anni a partire dal 1985, quando la
sedicenne Jessica rimane incinta di uno che non è il suo ragazzo, e ha un
bambina che chiama Serena Josephine. Da questo primo nucleo si diparte una rete
di radici sotterranee e in superficie, che legano insieme un numero
notevolissimo di personaggi, strettamente coinvolti l’uno nella vita dell’altro
ma non sempre per legami di parentela o amorosi. Ci sono la madre di Jessica, i
suoi fratelli e sorelle, i ragazzi dei suoi fratelli e sorelle, i ragazzi dei
ragazzi, i figli che questi hanno con frequenza impressionante, e i fidanzati
delle madri, gli amici, gli amici degli amici… seguire l’intreccio è quasi
impossibile ma non è necessario, in fondo. Le due figure principali, il centro
di questo vortice, sono Jessica e la più giovane Coco, che per un po’ è legata
al fratello di Jessica, Cesar, e con lui fa due figlie, intervallate con altre
due di padri diversi. Jessica ha un grande amore, lo spacciatore adolescente e
straricco Boy George, condannato all’ergastolo all’età di ventitre anni. A
vent’anni Coco ha cinque figli, a ventotto anche Jessica ne ha cinque, di cui
due gemelli nati in carcere, dove lei è finita, diciannovenne, con una condanna
a dieci anni sulla scia di Boy George. Le costanti di queste vite complicate
sono la mancanza di soldi, la mancanza di lavoro, la continua ricerca di una
casa (quando non si è in carcere), la preoccupazione e la cura per i figli,
propri o altrui. E la droga. Non il consumo per quel che riguarda Jessica e
Coco, non ne avrebbero nemmeno il tempo (ma le loro madri sì, il tempo ce
l’hanno), ma lo spaccio, attività che tutti i loro uomini svolgono
saltuariamente o a tempo pieno. Dei figli le madri si occupano in mezzo a
difficoltà enormi, e quando non ci riescono (come Jessica quando finisce in
carcere) c’è sempre qualcuno che li prende a carico, madre, sorella, amica o
addirittura rivale in amore; ma i figli non si abbandonano mai. Nutrirli è
fondamentale ma anche comprargli regali è importante, così come proteggere le
femmine dal pericolo sempre incombente delle molestie, che le madri hanno
sperimentato in prima persona durante l’infanzia. Jessica e specialmente Coco
vorrebbero che le figlie studiassero per non trovarsi a condividere con loro il
destino di madri singole adolescenti, ma per avere successo negli studi
l’ambiente familiare che le circonda non è il più adatto. Una cosa che non
sapevo è che negli Stati Uniti (o almeno nello Stato di New York, di cui si tratta)
ci sono moltissimi progetti assistenziali che vanno dagli assegni alimentari
all’assegnazione di case popolari, al controllo scolastico. E alla figlia di
Coco, età anni undici, ribelle a scuola e superprotettiva con la madre, viene
comminata la libertà vigilata – proprio così, libertà vigilata come a molti
degli altri personaggi che, dopo anni di buona condotta, escono di
prigione.
Il
grande pregio di questo libro è che nasce da uno studio sociologico, quindi non
c’è traccia di giudizio né di compassione o ideologia. Le vite squinternate,
delinquenti, miserrime, apparentemente prive di bellezza, disseminate di
pericoli e difficoltà, dei protagonisti, ci appaiono come una delle molte
possibili maniere di vivere. Coco, il suo coraggio indomito e certo
incosciente, la sua generosità di cicala, il suo autolesionismo, il suo amore
per i figli in continuo conflitto con l’amore per gli uomini e l’incapacità di
tenere fede ai progetti, è una persona vera e viva da guardare senza sentirci
superiori. La realtà del ghetto è questa, per chi ci nasce è impossibile
uscirne con le proprie forze, anzi, pare che dibattendosi nel fango e i vetri
rotti delle strade percorse dai macchinoni degli spacciatori possa solo
sprofondare di più. E in effetti, per la maggior parte dei personaggi di Una famiglia a caso è così. Ma
l’impressione che rimane alla fine, insieme al dispiacere di dovercene
staccare, è quella di una vitalità inestinguibile, una capacità di ridere, di
godere delle cose piccole e di quelle che a noi, con il nostro conto in banca,
le case pulite, la cultura che ci aiuta, possono sembrare inutili e pacchiane:
le scarpe da ginnastica prima di tutto, i gioielli d’oro, i tatuaggi, una gita
in limousine, cucinare cose buone con ingredienti da schifo, pettinarsi, truccarsi,
andare a ballare… Ecco, questo libro è esente dalla colpevolizzazione
strisciante dei poveri che spesso si intravede nelle opere benefiche a favore
dei diseredati. Nessuno vuole aiutare Jessica, Coco, Lourdes, Foxy, Mercedes,
Milagros, Cesar, Rocco, e tutti gli altri. Guardiamo alle loro vite con
l’interesse e la curiosità che si prova scoprendo mondi nuovi, nuove
possibilità di vita, diversità da cui alla fine si può anche imparare. Ma senza
cercare esempi, né da additare alla riprovazione dei salvati né da imitare, per
la verità.
Le
poche foto nascoste con pudore all’interno della sovracopertina non indulgono
al voyeurismo morboso di chi (come me) vorrebbe conoscere il viso dei
protagonisti, per leggere nei lineamenti la conferma del fatto che sì, il
destino che hanno avuto è proprio quello giusto per loro. Ma anche un po’ per
mantenere ancora un attimo quel filo di amicizia, di empatia, che ci ha legati
per il tempo della lettura: miracolo di un buon libro, veramente.
Temo c’entri nulla con la tua ottima rece, ma mi sembra un sistema adeguato per avvisarti. Devi sapere che sono stato coinvolto in un discutibilissimo meme e ho pensato bene di coinvolgerti… Quando hai tempo vai a guardare sul mio blog, poi potrai anche (non) rispondermi. Un abbraccio!
RispondiEliminaDicevo che si trattava di un'ottima rece e, oltretutto, ho molta considerazione per ALET. Tutto ciò prelude a un furto, se sei d'accordo.
RispondiEliminaRuba ruba! finirai male. ;-) Naturalmente sono d'accordissimo.
RispondiEliminaGrazie per il meme. Ho letto le tue risposte e mi sono molto divertita. Mi piacerebbe partecipare ma non conosco nessuno che abbia un blog, a parte voi, Soumaré e Mana, ampiamente sfruttati. Perciò che devo fare? Suppongo cedere il passo a qualcuno che abbia più contatti.
Se vuoi, puoi sempre rispondere alle domande - chi sei, cosa fai e le risposte ai quesiti che ho posto - senza tirare in ballo nessun altro. Il regolamento non lo permette, ma altri l'hanno fatto. Un abbraccione e a presto.
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