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lunedì 14 marzo 2011

Amare i propri vizi


AA VV, FREEDOM, prefaz. di Desmond Tutu, trad. dall’inglese di Federica Ressi, Mondadori
AA VV, L’UOMO CHE SPOSÒ UN ALBERO, trad. dall’inglese di Francesca Maioli e Elena Orlandi, Mondadori
Amo i miei vizi e finché riesco li coltivo, consapevole che possono fare male. Questo è valido anche per la passione per le antologie, e un po’ mi consola l’idea che non devo essere sola in questa dipendenza visto che continuano a pubblicarne malgrado sia notorio che i racconti tirano poco. Comunque, a volte il trip è buono altre pessimo, e qui ne porto due esempi.
Pessimo è L’uomo che sposò un albero, traduzione di The best of McSweeey’s, racconti apparsi sul Timothy McSweeney's Quarterly Concern, la rivista fondata da Dave Eggers. A meno che non siate interessati a conoscere gli ultimi snobismi letterari dei giovani scrittori statunitensi, odorosi di scuole di scrittura creativa, inutili e pieni di presunzione. Storie noiosissime scritte benissimo. Qualche esempio: Alison Smith, Lo specialista, una donna con problemi ginecologici risucchia al suo interno gli specialisti che la visitano (forse l’autrice ha visto Parla con lei di Pedro Almodóvar e non l’ha ben digerito), tirando avanti l’ideuzza per più di venti pagine; Tony D’Souza, L’uomo che sposò un albero, non è una metafora, narra proprio di un tizio che si invaghisce di un albero, lo sposa e noi seguiamo la vicenda non travolgente attraverso i commenti degli abitanti del villaggio, il postino, lo sceriffo e via via altre voci sempre più strampalate fino a arrivare alla terra, alla trota, ai pali telefonici, alla morte. Anzi forse è proprio una metafora ma io non l’ho capita. E sapete una cosa? Non me ne frega niente. Steven Millhauser, La torre, gli abitanti di una città costruiscono una torre che arriva a bucare il pavimento del paradiso (nuova questa). David Means, L’uomo di Elyria, autobiografia di una mummia di palude. Qualsiasi cosa sia. Degli altri racconti non dico altro tanto avete capito il genere. Se è quello che cercate, questa antologia ve ne dà a iosa. Se no, passate alla prossima, la buona. Freedom rappresenta il tipo di operazione che a prima vista fa un po’ venire i brividi: il sottotitolo, Trentasei grandi scrittori celebrano la dichiarazione universale dei diritti umani, non promette bene, come il fatto che i diritti d’autore siano devoluti a Amnesty International. Invece, al di là del collegamento tra l’articolo scelto e il senso del racconto, a funzionare è proprio la grande varietà dei nomi e degli approcci al tema. Ci sono autori veramente famosi e altri che non ho mai sentito, ma non vuol dire. Per esempio, l’unico nome italiano, Gabriella Ambrosio, che ha pubblicato nel 2004 il romanzo Prima di lasciarsi (Nutrimenti), premiatissimo e tradottissimo, mi sfuggiva del tutto, ma il suo racconto Stecco, sugli effetti della tortura, è notevole. Forse deludono un po’ Banana Yoshimoto e il suo patetico Un bambino speciale, Paulo Coelho e Prigioniero della quiete, sull’ospedale psichiatrico, soprattutto per la scrittura corriva. Gli altri li cito alla rinfusa, sono troppi quelli da ricordare. Ali Smith, Il messaggero, ci parla di coloro che rimangono intrappolati tra Africa e Europa, nel tentativo sempre frustrato e sempre ripetuto di attraversare un pezzo di mare che li porterà (forse) alla salvezza. Milton Hatoun, Straziato, narra delle illusioni rivoluzionarie degli studenti messicani nel 1969, e della realtà della repressione mentre Héctor Aguilar Camín, Il compagno Vadillo, riesuma con potenza e grande passione una vicenda dolente, l’illusione sovietica vissuta dai giovani comunisti messicani negli anni trenta. Olja Knezevic con L’aula ci porta in mezzo alle dinamiche che stavano sotto alla delazione nella Jugoslavia comunista, Liana Badr, La marcia dei dinosauri, rappresenta la quotidianità di un villaggio palestinese occupato da carri armati e cecchini, Alice Pung, Il capanno, descrive con vivace partecipazione la vita di sua madre, cambogiana fuggita dal regime di Pol Pot, creatrice di gioielli d’oro per pochi dollari e fuori dalla legge nella ricca Australia di cui lei conosce solo la miseria e gli altri espatriati del Sud Est asiatico. Guerrieri del Cielo, di Mahmoud Saeed, colpisce al cuore con la vicenda di un’utopia di riscatto nell’Iraq corrotto e cosparso di cadaveri, dove possono convivere nobili ideali e arcaiche, ignobili violenze. Bello e triste è Un incidente all’ora di pranzo, tra la farsa e la tragedia nello Zimbabwe, terribile e davvero difficile da dimenticare La luna su di lui di Yann Martel, mentre Nadine Gordimer si cala nei panni della donna di un prigioniero politico in Amnistia, Joyce Carol Oates parla di un bambino difficile in Tetano e Walter Mosley, Il processo, suggerisce la possibilità di una giustizia più giusta che nasca direttamente dai brutti, sporchi e cattivi di un ghetto nero negli Stati Uniti. Insomma potrei andare avanti e citare quasi tutti, ma mi limito al mio preferito, Un figlio di internet di Xaiolu Guo, storia terribile che nella sua semplicità illustra in maniera perfetta le contraddizioni tra modernismo e arretratezza nella Cina di oggi. In coda, oltre ai cenni biografici sugli autori, il testo della Dichiarazione universale dei diritti umani.

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