Che bel libro questo Il vagabondo di Adriaan van Dis, olandese nato nel 1946, viaggiatore, scrittore, giornalista e personaggio televisivo, tradotto con eleganza da Fulvio Ferrari che firma anche la postfazione, per i tipi della sempre benemerita casa editrice Iperborea che mi ha fatto conoscere tanti bei libri di ottimi autori. In questo caso poi, durante la lettura, mi è sembrato che si verificasse un piccolo miracolo in quanto la scelta dei temi era quanto c'è di più lontano dai miei gusti: un cane (e io, anche se non ammazzo neanche un ragno né una formica, non sono una fanatica degli animali), barboni, sans papiers e disgraziati vari (non amo gli argomenti di moda o di attualità), un prete (personaggio che normalmente mi fa crollare l'interesse sotto zero), discussioni su dio o non dio (altro argomento che mi è totalmente estraneo e mi annoia). Invece. E' proprio vero che non è l'argomento che fa il libro bello ma il modo di affrontarlo: van Dis ha un tocco leggero, una grande economia di parole, dinamismo e energia sufficienti per non far mai languire il discorso né arenarsi nelle secche della pietà o della predica umanitaria. E' interessante, coinvolgente, laico e pieno di rispetto per tutti. Siamo ai giorni nostri, in anni recentissimi, a Parigi. Il ricco olandese Mulder vive di rendita da espatriato di lusso, coltivando i suoi piaceri un po' egoistici e molto solitari, e dedicando attenzioni al suo cuore un po' malato. Non si cura che della bellezza, e solo quella vede attorno a sé, finché un giorno, dopo un incendio che distrugge una casa occupata da irregolari e clandestini, un cane lo sceglie letteralmente come suo padrone temporaneo. E' un cane che ha fatto un atto eroico nell'incendio, e tutto il quartiere che fino al giorno prima ignorava Mulder comincia a trattarlo con rispetto e simpatia. Ma non è questa la conseguenza principale dell'adozione. In realtà il padrone è il cane, che trascina Mulder in luoghi e tra persone che lui non aveva mai notato prima. Un mondo di dolore, bruttezza, sporcizia, di emarginazione, che visto da vicino però appare del tutto diverso. Intorno Parigi è sconvolta dalla violenza di manifestanti e polizia, la questione dei sans papiers è al massimo della tensione. La crosta di solitudine in cui Mulder viveva si incrina lasciando entrare l'umanità che che fino a quel momento non gli interessava affatto. Conosce il padre Bruno, sacerdote bevitore di whisky, fumatore, poco amante della pulizia e capace di trasgredire le regole per amore dei suoi protetti; la bella e elusiva Sri, vedova buddista di una delle vittime dell'incendio; Fanta, bambina bruciata che torna lentamente alla vita, per la quale Mulder farà il sacrificio più doloroso; la mendicante con la gamba artificiale, il cinese senza nome, la barbona dalle mammelle marce, e molti altri. Entra in contatto con la mafia albanese, vede la propria casa elegante occupata da ospiti sporchi e invadenti, e in tutto questo il cane è la sua vera guida, insieme martire, esempio, amore assoluto e messaggero di vita. Mulder reagisce come sa, il denaro è il solo strumento che sa usare per entrare in contatto con la miseria, ma sono proprio le sue nuove conoscenze a insegnargli altri modi di rapportarsi. Poi c'è il confronto con padre Bruno, ostinatamente convinto che la ricerca inconsapevole di Mulder sia una ricerca di Dio, mentre in realtà è una ricerca di umanità, di comprensione. Come afferma durante la discussione: credo nell'uomo che esiste per sbaglio, e che cerca di ricavarne il meglio. Per questo, discostandomi dall'interessante postfazione, mi pare che questo romanzo non parli di una ricerca di religione quanto dell'inondazione di umanità che investe un uomo appena la sua corazza di autosufficienza si sgretola, e tutto per opera di un messaggero inconsapevole, un angelo peloso senza nome, che va per la sua strada e si ferma dove c'è bisogno di lui, ma non per sempre.
Uhm, pare molto interessante.
RispondiEliminaMe ne prendo la responsabilità.
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