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giovedì 30 luglio 2009

Sì, buttare...

Sto facendo una cosa che non avrei mai pensato di poter fare. Sto buttando centinaia di libri, e più ne butto più ne butterei. Ho già fatto undici scatoloni, e altri ne farò, ho cercato e trovato chi voglia prendersene cura, molti ancora mi restano da sistemare, per altri so che un'adozione sarà impossibile e mi toccherà gettarli davvero. Non ho la macchina, gli amici sono tutti in vacanza, per cui non posso neanche portarli al Triciclo. Farò la dura e la cosa più strana è che non me ne importa quasi. Quello che mi è successo, l'ho già detto, non l'avrei creduto anche solo due settimane fa. Quando ho deciso che mi dovevo liberare di un po' di libri approfittando del fatto che devo smontare la casa, pensavo di fare come altre volte, eliminare i romanzi più brutti, quelli che mi tocca leggere per "motivi professionali" e che non mi lasciano tracce, qualche residuo fermatosi sugli scaffali non ricordo più perché... Invece mi ha preso una specie di vertigine, di follia distruttiva. Mi sono posta un limite: tenere solo quello che è indispensabile. E ho scoperto che 1) l'indispensabile è quasi sempre un classico, 2) molto di ciò che ho considerato indispensabile per gran parte della mia vita, conservandolo religiosamente attraverso traslochi e cambiamenti profondi, non lo è più. Ho potuto separarmene senza un fremito, senza rimorsi, senza ricordi. Mi sono accorta che nella foga devo avere eliminato anche qualche amore ancora in corso, ma non mi preoccupo. Pensare che una volta ci avrei perso il sonno, tenevo una contabilità minuziosa dei libri prestati (ho sempre amato prestare i libri, per me è un atto di amore sia verso chi li prende che verso i libri che amo particolarmente, e ho una serie di amici che mi usano come biblioteca circolante - spero di non essermi fatta troppi nemici tra i librai), li rintracciavo, me li facevo implacabilmente restituire.
Adesso sento un gran senso di liberazione. Nei miei incubi i libri, intesi come oggetti pesanti, polverosi, impenetrabili, voluminosi, mi soffocano, mi tolgono spazio vitale. Non potevo più comprarne a cuor leggero pensando che avrei dovuto metterli in terza fila o impilati di piatto, che si sarebbero infilati dappertutto e mi avrebbero cacciato dalla mia stessa casa. Mi manca ancora l'atto di coraggio maggiore, non so se ci arriverò questa volta: essere spietata anche con i libri che compro per leggerli e poi accumulo perché non ho tempo, perché non sono dell'umore giusto, perché soprattutto la vita è troppo breve per tutti i libri che vorrei leggere, possedere, assimilare, ricordare. E poi passa il momento, quello che sembrava un acquisto indispensabile, luminoso, ingrigisce e non mi ricordo più perché volevo leggerlo, mi annoia solo il pensiero di prenderlo in mano. Magari ce la farò. Il caldo, la città vuota, l'ansia del lavoro di smantellamento, la leggera follia che mi ha preso possono aiutare.
Così, e questo sarà il risultato più esaltante, potrò ricominciare a comprare libri con la coscienza netta. Ho già in mente due o tre titoli indispensabili con questo caldo.

lunedì 27 luglio 2009

Adriaan van Dis, Il vagabondo

Che bel libro questo Il vagabondo di Adriaan van Dis, olandese nato nel 1946, viaggiatore, scrittore, giornalista e personaggio televisivo, tradotto con eleganza da Fulvio Ferrari che firma anche la postfazione, per i tipi della sempre benemerita casa editrice Iperborea che mi ha fatto conoscere tanti bei libri di ottimi autori. In questo caso poi, durante la lettura, mi è sembrato che si verificasse un piccolo miracolo in quanto la scelta dei temi era quanto c'è di più lontano dai miei gusti: un cane (e io, anche se non ammazzo neanche un ragno né una formica, non sono una fanatica degli animali), barboni, sans papiers e disgraziati vari (non amo gli argomenti di moda o di attualità), un prete (personaggio che normalmente mi fa crollare l'interesse sotto zero), discussioni su dio o non dio (altro argomento che mi è totalmente estraneo e mi annoia). Invece. E' proprio vero che non è l'argomento che fa il libro bello ma il modo di affrontarlo: van Dis ha un tocco leggero, una grande economia di parole, dinamismo e energia sufficienti per non far mai languire il discorso né arenarsi nelle secche della pietà o della predica umanitaria. E' interessante, coinvolgente, laico e pieno di rispetto per tutti. Siamo ai giorni nostri, in anni recentissimi, a Parigi. Il ricco olandese Mulder vive di rendita da espatriato di lusso, coltivando i suoi piaceri un po' egoistici e molto solitari, e dedicando attenzioni al suo cuore un po' malato. Non si cura che della bellezza, e solo quella vede attorno a sé, finché un giorno, dopo un incendio che distrugge una casa occupata da irregolari e clandestini, un cane lo sceglie letteralmente come suo padrone temporaneo. E' un cane che ha fatto un atto eroico nell'incendio, e tutto il quartiere che fino al giorno prima ignorava Mulder comincia a trattarlo con rispetto e simpatia. Ma non è questa la conseguenza principale dell'adozione. In realtà il padrone è il cane, che trascina Mulder in luoghi e tra persone che lui non aveva mai notato prima. Un mondo di dolore, bruttezza, sporcizia, di emarginazione, che visto da vicino però appare del tutto diverso. Intorno Parigi è sconvolta dalla violenza di manifestanti e polizia, la questione dei sans papiers è al massimo della tensione. La crosta di solitudine in cui Mulder viveva si incrina lasciando entrare l'umanità che che fino a quel momento non gli interessava affatto. Conosce il padre Bruno, sacerdote bevitore di whisky, fumatore, poco amante della pulizia e capace di trasgredire le regole per amore dei suoi protetti; la bella e elusiva Sri, vedova buddista di una delle vittime dell'incendio; Fanta, bambina bruciata che torna lentamente alla vita, per la quale Mulder farà il sacrificio più doloroso; la mendicante con la gamba artificiale, il cinese senza nome, la barbona dalle mammelle marce, e molti altri. Entra in contatto con la mafia albanese, vede la propria casa elegante occupata da ospiti sporchi e invadenti, e in tutto questo il cane è la sua vera guida, insieme martire, esempio, amore assoluto e messaggero di vita. Mulder reagisce come sa, il denaro è il solo strumento che sa usare per entrare in contatto con la miseria, ma sono proprio le sue nuove conoscenze a insegnargli altri modi di rapportarsi. Poi c'è il confronto con padre Bruno, ostinatamente convinto che la ricerca inconsapevole di Mulder sia una ricerca di Dio, mentre in realtà è una ricerca di umanità, di comprensione. Come afferma durante la discussione: credo nell'uomo che esiste per sbaglio, e che cerca di ricavarne il meglio. Per questo, discostandomi dall'interessante postfazione, mi pare che questo romanzo non parli di una ricerca di religione quanto dell'inondazione di umanità che investe un uomo appena la sua corazza di autosufficienza si sgretola, e tutto per opera di un messaggero inconsapevole, un angelo peloso senza nome, che va per la sua strada e si ferma dove c'è bisogno di lui, ma non per sempre.

mercoledì 22 luglio 2009

Junot Dìaz, La breve favolosa vita di Oscar Wao

Il mare per me è sempre stato propizio alla lettura, e all'ombra di una tamerice, malgrado gli assalti delle vespe e delle api, sono sempre riuscita a cascare dentro ai libri come piace a me. Quest'anno l'acqua era talmente calda, le coste talmente piene di grotte, il nuoto talmente invitante che ho letto meno del solito. Tra i pochi libri, questo mi ha acchiappata moltissimo, e lo premetto perché sia chiaro che è un libro bello, scritto benissimo, capace di sorprendere e tenere sempre sveglio l'interesse anche in un contesto propizio alla contemplazione. Però mi ha fatto fare una riflessione che esporrò più avanti. La storia è quella di Oscar, nerd per sua propria definizione, obeso, nero, originario della Repubblica di Santo Domingo, assatanato ma incapace di conquistare una donna, con l'abitudine di abbordare le ragazze per strada, portato a innamorarsi perdutamente e sempre della donna sbagliata. Sempre chiuso in casa a leggere, appassionato di giochi di ruolo, fantascienza e fantasy, di cui ha una cultura enciclopedica con cui sono infarcite le pagine del lbro, tanto che l'autore ha inserito un glossario specifico, oltre a uno di termini ispano-domenicani, peraltro ampiamente insufficiente. L'io narrante è un altro dominicano nero, però più consono allo stereotipo corrente: bello, sciupafemmine, traditore, perdigiorno, bugiardo, ma anche studioso di scrittura creativa. Poi ci sono la bella e intelligente sorella di Oscar, Lola, la madre Belicia, la nonna La Inca, le numerose ragazze di cui Oscar si innamora e altri personaggi maschili variamente mariuoli, come il Gangster, ma su tutto campeggia minacciosamente il Ladro di Bestiame Fallito, alias Trujillo, feroce e trucissimo dittatore di Santo Domingo tra il 1930 e il 1961. La storia della Repubblica dominicana, di Trujillo e dei suoi terrificanti tirapiedi la troviamo nelle note a piè pagina, vivaci e succulente come e più del testo. Le vicende dei personaggi si alternano in capitoli separati, tra il New Jersey e l'isola delle radici, e alla fine è proprio Oscar a essere quello meno comprensibile. E qui, consigliandovi vivamente la lettura di questo libro, arrivo alla riflessione: in fondo sono rimasta un po' delusa alla fine, come se non mi avessero dato quello che mi era stato promesso. Eppure il libro mi è piaciuto, mi sono divertita a leggerlo, penso che Junot Dìaz scriva in modo fantastico. Però, ecco. Prima di tutto il titolo, fedele all'originale inglese, The Brief Wondrous Life of Oscar Wao: breve lo è senz'altro, ma perché favolosa? In che cosa? Poi, la sapienza della struttura, l'alternarsi delle voci e delle epoche, l'interruzione continua di una storia per cominciarne un'altra, i tagli sbiechi delle vicende, la tecnica di illuminare un momento specifico di una vita per lasciare il resto nella penombra, tutto questo virtuosismo, secondo me, toglie pathos, lascia, più che curiosità per quello che non siamo riusciti a sapere, un po' di frustrazione, delusione, come un pranzo che nel menu promette un bel dessert e poi alla fine mette in tavola una mela. O forse sono io che sono troppo grezza. D'altra parte l'autore insegna al MIT, suppongo scrittura creativa, e la sa certo più lunga di me.