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I racconti




GUANCETTE ROSSE
Divagazione sul quadro “Venditrice di gamberetti”
di William Hogarth

Se è novembre, si hanno diciott’anni, i piedi nudi, un vento gelato spinge il nevischio quasi in orizzontale, non c’è niente di insolito nel fatto che le guance siano di un bel rosso acceso. E neanche nell’accettare di passare un’oretta al caldo, davanti a un fuoco ruggente e a un tipo che maneggia il carboncino su un foglio bianco, in cambio di una moneta lucida. Se poi ci scappa anche una coscia di pollo freddo, una fetta di pasticcio di lepre, un bicchiere di chiaretto, due mele da ficcarsi in tasca, che sarà mai un bacio su quelle stesse guance, sempre più rosse per l’effetto delle fiamme e del vino?
 Così fu che Mary Stapleton, venditrice di gamberetti, venne immortalata in un quadro appeso ancora oggi su una parete della National Gallery di Londra. Ride e tiene un cesto di gamberetti sulla testa. Non si può restare indifferenti alle sue guance vermiglie. Ma il suo nome, nessuno lo conosce.

Mary uscì dallo studio del pittore in preda all’euforia. Giusto quella mattina le sue scarpe avevano rinunciato alla lotta per la vita, le tomaie si erano staccate del tutto dalla suola, e il ciabattino aveva dichiarato che ripararle era impossibile.
– Dove potrei far passare il filo, secondo te? Sarebbe più facile cucire l’aria.
La moneta, calda per essere stata nascosta nel seno di Mary, si trasformò in un paio di stivaletti scricchiolanti, odorosi di cuoio fresco, con un rinforzo di ferro sotto ai tacchi e alle punte, che facevano venir voglia di ballare sul selciato per il puro piacere di sentire quel ticchettio che voleva dire Ho guadagnato una moneta tutta per me, da spendere come volevo, senza che mia madre ci mettesse le mani sopra.
Ma siccome Mary aveva una coscienza professionale, prima di tornare a casa si impegnò a vendere tutto il contenuto della cesta.

Ormai a collegare Mary al suo ritratto, destinato a diventare così famoso, c’era solo quel paio di stivaletti. Mentre il quadro veniva completato – dal foglio alla tela, dall’abbozzo ai colori, alle ombre, allo sfondo, al luccichio dei dentini bianchi nella risata monella, al perfetto rosso mela autunnale delle guance – gli stivaletti si consumavano. Molto più lentamente, perché il cuoio era ben conciato, i legacci robusti come cime, il passo di Mary leggero e danzante. Eppure, prima o poi gli stivaletti finirono nella spazzatura, mentre guance denti capelli occhi neri di Mary sono ancora lì, in una bella cornice dorata, su una parete di damasco rosso, tutti quelli che la vedono dicono – Oh! ma che carina! – e magari pensano, Peccato che non ci siamo incontrati prima.

Mary però, ben calzata e allegra, continuò a vendere gamberetti per le strade di Londra. – Ehi, ehi, – gridava nelle strade fangose, nella nebbia invernale, – sono freschi come rose, profumati come dame, dolci come ciliege! Rossi come ciliege! Un mangiare da re!
Le cuoche uscivano dalle case per comprare la sua merce perché la conoscevano e sapevano che era buona. Aveva diciott’anni, non si stancava a camminare e gridare. Aveva i piedi ben caldi negli stivaletti nuovi. Quando il quadro fu esposto all’Accademia, ebbe un grande successo. Un paio di volte, una coppia elegante fermò Mary per strada e le chiese se aveva posato per un ritratto. Un cavaliere impellicciato le diede persino un’altra moneta e un buffetto sulle guance rosse. Era una piccola moneta. Lei si comprò una pinta di birra e pesce fritto.
Poi successe che le guance di Mary cominciarono a sbiadirsi, il sorriso a farsi tirato. Passò tre mesi a letto con la polmonite. Guarì, ma era dimagrita, la sua voce non era più così squillante né il passo tanto lieve. Sua mamma la sgridava, perché vendeva meno. Mary pensò che era ora di trovare qualcuno che si prendesse cura di lei.
In autunno si sposò con un barcaiolo di vent’anni, biondo e robusto, che conosceva da quando era bambina. Le piaceva moltissimo vederlo impallidire di desiderio quando si toglieva la gonna, la giacca, e rimaneva in camicia alla luce barcollante del focolare. Le piaceva essere abbracciata e baciata. Presto tornò ad avere le guance rosse e paffute. Thomas gliele pizzicava volentieri. Mary riuscì a mettere un banco al mercato di Billingsgate, così non doveva più correre per le strade né consumare troppo i bei stivaletti, ora non più tanto nuovi.
Ebbe un figlio, due, tre, quattro, praticamente partoriti dietro al banco, tra l’odore del pesce e il fango viscido di lische e scaglie. A ogni bambino la sua vita si allargava e le guance diventavano più tonde. Quando sua madre morì dovette rinunciare al banco per stare dietro ai figli.
Riprese i giri con il canestro sulla testa. Gridava ancora più di quando era ragazza.
– Ehi, ehi, i bei pesci freschi! Sono freschi come rose, croccanti come il croccante, profumano di mare, sono argento vivo, sono oro fuso, sono corallo del sud! Sono uova di giornata!
Gli stivaletti erano passati alla figlia maggiore, i rinforzi di ferro erano stati cambiati più volte. Thomas gliene regalò un paio ancora più belli.
Una volta, facendo una consegna in una casa di clienti abituali, dovette passare dall’entrata principale perché quella di servizio, nel seminterrato, era allagata. Attraversò un atrio grandioso senza osare alzare il capo. Ma uscendo, con il canestro vuoto sotto il braccio, si guardò intorno e lì, sul camino, le sorrise il suo ritratto, guance rosse e denti di perla. Si fermò di botto. La compassata cameriera, veste di seta grigia e grembiulino di pizzo, che l’accompagnava all’uscita, si fermò anche lei, seccata.
– Adesso che c’è? I soldi non sono giusti?
– Guardi, guardi! Quella sono io!
– Ma cosa dice! Quello è un quadro.
– Sì, ma nel quadro ci sono io. Guardi un po’.
Si mise davanti al camino, nella stessa posizione del ritratto, il viso voltato verso destra, la bocca spalancata a ridere di essere viva. Le mancavano quattro denti davanti. Le guance, a onor del vero, erano rubizze, coperte di piccole vene a fior di pelle. La cameriera le diede uno spintone.
– Vada via, per favore. Non sta bene se qualcuno la vede qui.
Mary guardò il quadro, guardò la cameriera, guardò la propria immagine riflessa in un grande specchio dorato su un tavolino carico di fiori di serra.
– Eppure, le assicuro, sono io, – disse uscendo.
– Si ricordi i granchi per domani, – le gridò la cuoca facendo capolino da una finestra.
Il giorno dopo Mary portò con sé la figlia, nella speranza che l’entrata di servizio fosse ancora allagata. Ma tutto era normale, solo un po’ di fanghiglia sui gradini rischiò di farla scivolare.
Tornando a casa, Mary ripeté la storia che Louise conosceva a memoria.
– E così, mi sono comprata gli stivaletti che hai portato anche tu.
Louise si toccò le guance rosse, evitò una pozzanghera, storse il naso all’odore di mare che emanava dalle gonne della madre. Saprò usare meglio la freschezza delle mie guance, pensò. Se un pittore mi chiede di posare per lui, non mi accontenterò di una moneta. Se il ritratto di mia madre sta sul caminetto di una casa di signori, io voglio stare seduta davanti a quel caminetto, mangiare pane e burro con i piedi sugli alari, bere sherry vecchio in un bicchiere di cristallo che riflette le fiamme. Altro che stivaletti con rinforzi di ferro. Avrò scarpine di raso. Avrò una pelliccia di volpe e cento vestiti di velluto. Avrò carrozze e cavalli, piatti di porcellana, una cameriera che mi pettina. Avrò un materasso di piume...
Sorrise a un gentiluomo che si scostava per lasciarle il passo sul marciapiede. Quando si volse a guardarlo, si accorse che anche lui si era voltato.
Se è novembre, si hanno diciott’anni, le guance splendenti, un cesto di gamberi sulla testa, scarpe vecchie ai piedi, il vento gelato spinge il nevischio quasi in orizzontale, non c’è niente di strano ad accettare di prendere un bicchiere di vino davanti al fuoco. Non si avrà il proprio ritratto appeso sulle pareti di damasco della National Gallery, duecentosettant’anni dopo. Ma il vino scalda, le fiamme infiammano, le carezze consolano e tengono lontano il freddo e il buio. Le guance si arrossano anche per questi motivi, non solo per il gelo. Louise scelse il caldo, inconsapevole come sua madre quando aveva scelto l’anonimato dell’immortalità.





***

MIA CARA AMICA
Lettera a un'amica molto cara, che non la leggerà mai


Mia cara amica, questa lettera è proprio per te, anche se non è fatta di fogli fruscianti e macchie di biro. Se solo tu fossi nata qualche anno dopo avremmo la stessa dimistichezza con lo schermo del computer. Sei così attenta a quello che succede nel mondo, curiosa e lucida nei tuoi giudizi, non è certo per pigrizia che non sai niente di informatica. Il fatto è che hai novantaquattro anni, una bella età comunque la si guardi. Io la guardo su di te e vedo che è bellissima. Come te. Hai le guance rosa e i capelli bianchi, le mani trasparenti, gli occhi di cui non si capisce più il colore. Sei stata operata di cataratta per cui vedi molto meglio di me, leggi la guida del telefono senza occhiali. Sei un po’ golosa, ma mangi poco e due etti di cioccolatini ti durano al lungo. Soprattutto sei una gran chiacchierona, hai sempre un sacco di aneddoti da raccontare, complicate parentele e riassunti di vite lunghissime. Posti che hai visitato in epoche favolose, dolori terribili che nel trascorrere del tempo hanno assunto una patina nebbiosa, si sono smussati come ciottoli di mare. Li racconti molte volte, anche immediatamente di seguito, e ogni volta ci sono delle variazioni che mi sorprendono. Ti fermo e ti interrogo, e nelle tue risposte cambi ancora versione. Mi chiedi le stesse cose a distanza di pochi minuti, e le mie risposte scivolano via sulla tua memoria come le mie domande. Parlare con te è un incanto, le tue storie hanno l’andamento sinuoso della linea di schiuma sulla battigia, e lasciano tesori sulla sabbia proprio come le onde. Vanno e vengono, sempre uguali e sempre un pochino diverse. In confronto le cose che potrei raccontarti io sembrano acqua stagnante. Ti dico quattro volte dove ho passato l’estate scorsa, cinque volte quali film ho visto ultimamente, sei dove penso di andare l’estate prossima, sette che cosa sto scrivendo in questo periodo. Sei cortese, sai fare conversazione e ti interessi sul serio a me. Che ti dimentichi quello che dico nell’istante stesso in cui l’ho detto non conta, conta la tua premurosa gentilezza e la generosità con cui ti racconti. Ecco, l’unica ragione per cui ti scrivo una lettera è questa. In fondo ci siamo viste ieri, anche se quando tornerò da te la settimana prossima mi dirai meno male che ti fai viva! ero proprio spersa, è tantissimo che non ci vediamo!. Però non ti ho mai ringraziato per essere diventata mia amica pochi anni fa, quando i novanta erano già vicini. Hai avuto voglia di avvicinarti a una nuova amica e scoprirti con generosità, raccontarmi i momenti più ricchi della tua vita. Per questo ti dico grazie, grazie della tua amicizia che mi ha fatto sentire importante. Forse tu mi dimenticherai, per poco o per sempre, ma io no. Almeno finché la memoria mi sosterrà.     


                                                                   

                                                                *** 





                                   GATTA, TOPINA E BUON ANNO



Torino, dicembre 2001

Stracchi come gelati in giugno, Massimo, Gigi e Fede trascinavano gli zaini sulle spalle ingobbite. Rassegnati. La testa tutta presa da quello che sarebbe successo dopo, al momento dolce della libertà, finita la visita didattica al Museo Egizio. La quinta nella loro carriera scolastica.

“McDonald’s a un isolato. Ce li avete i soldi, ragazzi?”

“Trentamila in saccoccia, in biglietti da mille, regali di parenti vari. Con la storia dell'euro sto tirando su un sacco di moneta. Tutti mi sbolognano gli spiccioli, sono diventati generosi all’improvviso”.

“Io arrivo a cento liscio liscio. Mia mamma si è pentita di fare la cresta sulla spesa e mi ha infilato in tasca un rotolino di diecimila. Credo che abbia una crisi di onestà natalizia”.

“Meglio, io tra regali e pizze sono sceso a quota cinquemila. Conto su di voi”.

Fecero la fila ordinata per mollare zaini e piumini al guardaroba, ricevettero il biglietto dalle mani della professoressa, crearono un vortice di schiamazzi attorno all’usciere punzonatore, nella sala d’ingresso si incollarono alla teca della prima mummia, nuda biotta e rannicchiata sulla sabbia come un neonato in culla.

Naturalmente tutti a commentare gli attributi mummificati. Delle professoresse una ridacchiava, l’altra faceva finta di non capire. Il professore di ginnastica si era già imboscato dietro a un mostruoso faraone di granito rosso a fare cip e ciop con la supplente di diritto. Massimo provò svogliatamente a baccagliare una squinzietta di seconda con i capelli zozzi e il pancino all’aria malgrado il gelo, ma lei continuava a stridere con le amiche senza manco rispondergli. Dopo poco nelle gallerie popolate da testoni e gamboni e piedoni, sfingi e massi incomprensibili di pietra c’era un casino totale. Tre classi per un totale di settanta ragazzi tra i quindici e i sedici anni, controllate da quattro professori di cui due fuori uso, erano troppo persino per la faccia di cane di Anubi. I custodi, occupatissimi a leggere il giornale, fingevano di non vedere e non sentire.

Salirono al piano di sopra. Più interessante, a dire il vero. Sarcofagi e papiri e mummie bendate e sbendate, gioielli che facevano squittire le professoresse, pagnotte tarlate e datteri impietriti che strappavano cori di che schifo! alle ragazze. Nessuno spiegava niente e comunque nessuno sarebbe stato a sentire. Bisogna dire che a un certo punto la Vallino di italiano si mise davanti a un chilometro di papiro e intonò “il libro dei morti, ragazzi, l’unico completo in tutto il mondo” ma quando si voltò si accorse di essere sola e scappò via in cerca dei gabinetti.
“Venite a vedere,” disse Fede. “Guardate qua”.
Gigi e Massimo si avvicinarono. In una teca tre sarcofagi di legno pitturato, aperti, contenevano tre mummie di cui una aveva la faccia scoperta.
“Sono tre sorelle, Gatta, Topina e Buon Anno. Morte giovani e imbalsamate. Quella lì sembra carina. Dev’essere Topina. Chissà perché sono morte tutte e tre?”
“Di noia, non c’eravamo noi a farle divertire”.
Massimo rise forte, contentissimo della battuta. Gigi stava schiacciato contro il vetro, tanto che la supplente di diritto venne a battergli sulla spalla. Quando si staccò rimase il segno del naso e delle mani unte. Girellarono ancora annoiati, si infilarono in una stanzina piena di letti parrucche stoffe marroncine impilate sgabelli e scatole da trucco, fecero corsette lungo corridoi pieni di gatti e coccodrilli impagliati, fecero pipì e fumarono uno spinello nei cessi.

All’una studenti e professori si ritrovarono nell’androne, davanti alla biglietteria. Quello di ginnastica, rosso in faccia e con lo sguardo sognante, fece la conta. La prima volta gliene mancavano cinque, la seconda ce n’era uno di troppo. Ci provò la Vallino. Due di meno. Alla supplente di diritto il miracolo riuscì. Settanta tutti interi, a ogni nome dell’elenco un bel presente! sonoro e una spuntatura.
“Liberi tutti,” gridò Educazione Fisica.
Prese la supplente sottobraccio e corse via, forse aveva paura che l’erezione non gli reggesse ancora per molto. Italiano e Chimica fecero ciao con la manina, raccomandarono “domani puntuali che ne parliamo”, i ragazzi si precipitarono in massa al McDonald’s, tranne le tre islamiche di terza G e Fiorenzo di seconda H che era macrobiotico.

Il marocchino fornito da Gigi doveva essere una bomba, perché i tre ripresero coscienza in un letto di mocci vileda circondato da secchi di plastica azzurra dalle sfumature psichedeliche.
“Ragazzi, che viaggio”.
“Ho una fame che mi mangerei sette Big Mac e due quattro stagioni rinforzate”.
“Forza, ormai è libera uscita”.
I tre Swatch segnavano mezzogiorno.
“Ahimè, ci manca un’ora”.
“Andiamo a farci vedere dalla Vallino che non sono ancora stato interrogato”.
I gabinetti erano in fondo al corridoio degli animali. Se lo ricordavano benissimo, un lato tutto bacheche di bestie bendate l’altro intervallato da finestroni e cartelli con piantine del Nilo, freccette e cerchiolini che certamente indicavano robe importanti. Ma adesso c’era qualcosa di strano. Il corridoio si stendeva lunghissimo, vuoto, un po’ sghembo, illuminato solo da una fila di neon al soffitto che si riflettevano sul pavimento di piastrelle bianche e nere. Neanche una finestra né una porta nelle interminabili pareti grigiastre. Non si riusciva a vedere dove finiva.
“Abbiamo sbagliato uscita,” disse Massimo.
Si volse per aprire la porta da cui erano appena sbucati. Ma la porta (che c’era, testimoni tutti e tre) si era ridotta a una fessura sottilissima, senza maniglia né serratura. Mentre la tastavano cercando di forzarla con le unghie la fessura sparì, risucchiata dal muro liscio.
“Che cosa ci hai dato da fumare? Sicuro che fosse proprio semplice marocchino?”
Gigi sporse il labbro inferiore e alzò le sopracciglia.
“L’ho comprato dal mio amico Ahmed che non mi ha mai tirato bidoni”.
“Be’, dai, andiamo. Se si accorgono che siamo spariti rischiamo che fanno un casino”.
Si incamminarono. Fede calpestava solo le piastrelle bianche, Gigi quelle nere, saltellando come gamberi ubriachi. Massimo scelse un’andatura sobria, un rigoroso zigzag da una parete all’altra, una volta sul nero, l’altra sul bianco, ma dovette smettere presto perché gli altri lo avevano lasciato indietro. Man mano che procedevano la luce si faceva più fioca. Qualche tubo ronzava, si spegneva e si riaccendeva pallidamente. Da un certo punto in poi c’era solo oscurità.
“Torniamo indietro?”
Ma alle loro spalle i neon si spegnevano a uno a uno. Rimasero al buio. Gigi tirò fuori l’accendino. Prima di scottarsi le dita illuminò per poco lo spazio circostante. Le pareti sembravano più vicine, il soffitto più basso, come se l’effetto ottico della prospettiva non fosse affatto un effetto ottico, ma una concreta realtà.
“Andiamo avanti?”
Proseguirono tenendo una mano sul muro, Gigi a destra, Massimo a sinistra, Fede aggrappato ai loro maglioni. Presto si ritrovarono a inciamparsi l’uno nell’altro. Il corridoio si restringeva sempre di più. Avevano l’impressione di camminare da ore, ma la fiamma dell’accendino rivelò che gli Swatch segnavano sempre mezzogiorno.
“Che storia, ragazzi! Quando la racconteremo!”
La voce di Fede voleva essere allegra, ma risuonò come il lamento di un bambino piccolo, come quando chiamava la mamma perché aveva paura di restare solo nel suo lettino.
Camminarono ancora. In silenzio perché c’erano echi in agguato, soffi e sussurri che rispondevano alle loro parole. Erano stanchi ma a fermarsi non ci pensava nessuno.
Venne il momento in cui furono costretti a proseguire in fila indiana, strusciando con le spalle le pareti, con il capo chino per non sbattere nel soffitto. Finirono per mettersi carponi, Gigi davanti, Massimo in mezzo e Fede per ultimo, terrorizzato dalla massa di buio che lo premeva da dietro, con l’impressione, ogni momento, di essere afferrato alle spalle. Mancava il fiato, c’era un odore freddo e soffocante, aria stantia e polvere arida.
Di colpo Gigi si fermò.
“Guardate! C’è una luce là in fondo!”
Aumentarono l’andatura. Le ginocchia dolevano, le mani pure, ma presto poterono rialzarsi e poi raddrizzare la schiena. Si vedeva un debole chiarore, una cornice di luce come di una porta chiusa su un luogo illuminato. Avvicinandosi cominciarono a sentire anche un rumore soffice, risatine e voci sommesse, tintinnio di vetri e fruscio di stoffe. Un alito di aria fresca carezzò i loro volti. Respirarono a bocca aperta, ridendo, dandosi pacche di sollievo.
La porta era chiusa, senza maniglia. Bussarono e gridarono finché qualcuno la spinse dall’interno. La luce li colpì senza abbagliarli. Videro una grande stanza rischiarata da decine di torce a fiamma viva. Le pareti non si scorgevano, grumi di buio circondavano l’isola di luce in cui scintillava una tavola apparecchiata di piatti pieni di selvaggina, frutta, pesci, piramidi di pane, tra orci e coppe e fiori di loto. Ombre vestite di bianco si muovevano tutt’attorno, ondeggiando timidamente e sussurrando tra di loro.
“Forte!” disse Fede. “Dove siamo capitati? C’era una festa e non lo sapevamo?”
Gigi gli strinse un braccio, accennando a un gruppo vicino alla tavola. Tre ragazze, brune, snellissime ma con il petto tondo, appena coperte da tunichette pieghettate, li guardavano piene di sorrisi, agitando le mani per chiamarli.
“Miiii… Queste vogliono proprio noi”.
“Topina,” gli scoppiò nella testa.
“Buon Anno,” risuonò nel cervello di Massimo.
“Gatta,” un caldo fruscio che saliva dal cuore, penetrava nelle vene, rimbalzava dalla gola alla punta delle dita frastornò Fede.
“Mannaggia, ragazzi, è una cuccagna. Si mangia?”
Si mangiava, si beveva una birra dolce e spessa, si ricevevano baci delicatissimi nella bocca, si toccavano piccoli seni duri, cosce ferme, natiche sode da atlete. Come per miracolo le altre ombre erano sparite nell’ombra, c’erano solo le tre piccole sporcaccione ansiose di liberarsi dei veli per mettere in mostra i sessi neri e stretti, umidi, i capezzoli come prugnette acerbe, le gambe slanciate. Per un po’ i ragazzi esitarono tra la fame che li spingeva a divorare petti d’anatra e la voglia di stringere quei frutti d’amore, poi cedettero alle dita carezzevoli e alle labbra sottili.
“Si scopa! Ognuno per sé!”

Nessuna delle sudate e ansiose esperienze fatte fino a allora li aveva preparati a quello che successe sulle stuoie distese nei provvidenziali angoli della sala senza confini. Erano angoli ma anche spazi infiniti, dove la luce dolce delle torce permetteva giusto di vedere quello che era bello vedere, i dentini bianchi tra le labbra socchiuse, la morbida voragine che li inghiottiva e li stringeva e li risputava e li avvolgeva in un su e giù smemorato, le tettine elastiche che non rifiutavano né morsi né baci, le lingue pronte a dare sollievo quando, stanchi per essere venuti troppe volte, rischiavano di addormentarsi sbavando sul collo delle loro freschissime compagne. E c’era sempre una manciata di chicchi di melograno, un bicchiere di vino, un’ala di folaga a ristorarli. Profumi delicati e intossicanti. Altro che il solito spinello! Questo era uno sballo vero, un’esperienza totale.
Si sentivano vulcani in eruzione, trasformati in una palla di fuoco paradisiaco proprio lì, in mezzo alle gambe. A poco a poco tutte le altre parti del corpo sparirono ingoiate dalla marea di piacere. Sputavano ossa e noccioli insieme alla saliva zuccherata, scuotevano la testa per liberarsi dalle linguette che gli titillavano le orecchie, annaspavano come stessero annegando. Si scopava e si riscopava, più niente da dire, tacevano le grida e le battute. Zitto, zitto, risuonava nella testa dei ragazzi ogni volta che parole sceme cercavano di uscirgli dalla bocca.
Il primo a cedere fu Gigi.
“Basta! Non ce la faccio più. Riposiamoci un attimo, ti prego”.
Topina si tirò indietro i capelli intrecciati. Aveva uno sguardo scontento.
“Tutto qui? Sei malato?”
“Figurati, gioco a baseball e corro tutti i giorni. Sono stanco”.
Fede, nel suo angolo umido di umori corporei, lanciò un grido.
“Se non smetto muoio! Gigi, Massimo, siete ancora vivi?”
Gatta lo guardò gelida.
“Io sono mezzo morto,” sibilò Massimo. “Ce ne andiamo, ragazzi?”
Buon Anno gli si sedette addosso premendogli il sesso sullo sterno.
“Straccio sporco. Mi aspettavo di meglio”. 
La luce rossastra delle torce s’intorbidava di aria scura, ondate di buio si espandevano come olio versato. Quello che era sembrato bello fino a un momento prima divenne minaccioso. I denti scintillanti erano zanne, le manine carezzevoli artigli rasposi, gli acini d’uva soffocavano in gola, gli aromi si corruppero in puzze orribili. La pelle liscia delle ragazze si sfaldava, lasciava tracce di bava violacea sul ventre e sulle cosce degli amanti.
“Credete che sia bello starsene sotto vetro a farsi guardare da qualsiasi cretino che paga il biglietto? Credete che ci piacciano le battute oscene? I commenti idioti?”
“Noi, noi… Non sapevamo, non volevamo…”
“Maiali. Vi credete dei torelli, ma siete solo maialini da latte”.
Gli infilarono in bocca bucce marce, li innaffiarono di acqua putrida, gli strofinarono sul naso i seni spalmati di unguenti urticanti e i sessi viscidi d’amore. Buon Anno saltava a piedi uniti sui testicoli di Fede, Topina graffiò il petto di Massimo fino a farlo sanguinare. Gatta, vezzosa, danzò una danza lasciva su Gigi e infine gli orinò in faccia. I tre, incapaci di reagire, si sentivano legati da mille bende e rigidi in tutto il corpo. Mummificati.

Nella galleria del primo piano, buia e tranquilla, la teca sporca di ditate unte dove Gatta, Topina e Buon Anno riposavano nei loro sarcofagi era una tra le tante. Un visitatore molto attento, o un guardiano che avesse avuto voglia di sollevare lo sguardo dal giornale, forse si sarebbe accorto che la faccia di Topina, l’unica sbendata, era un po’ diversa dal solito. Più fresca, in un certo senso, con i capelli più corti, magari appena sbalordita. Ma in giro non c’era nessuno. Il giorno dopo, quando furono spalancate le tende e frotte di ragazzini e turisti svogliati cominciarono a peregrinare tra scarabei e statue, la differenza non si vedeva più. Mummie, datteri e papiri erano esattamente come ognuno se li aspettava.
“Guarda queste,” disse uno studente secchione, munito di quaderno e penna per prendere appunti, a una compagna innamorata di lui, “che roba. Tre sorelle mummificate. Chissà perché sono morte tutte e tre?”

E nel gelo di dicembre tre ragazzette snelle, brune e allegre, se ne andavano per le vie della città. Portavano pantaloni troppo larghi e troppo lunghi, giubbotti enormi, scarponi esagerati. Insomma elegantissime nel loro genere hip hop. I loro occhi di datteri canditi luccicavano per la gioia, riflettendo le luci degli alberi di Natale che ornavano i negozi. Fecero un girotondo con un Babbo Natale spelacchiato, arraffarono manciate di caramelle e scapparono via ridendo. Nella galleria del Romano ammirarono i manifesti del cinema. Schiacciarono il naso contro una vetrina di biancheria intima, fecero girare la testa a un signore in loden che telefonava affannoso vorticandogli intorno e agitando le linguette appuntite. Sotto i portici di Piazza Castello si fermarono a guardare la folla di ragazzi ammassati davanti al McDonald’s.
“Ehi,” disse Gatta frugandosi nelle tasche del giubbotto, “qui c’è un sacco di soldi. Big Mac, Doppio Cheeseburger, MacChicken per tutte! E dopo ce ne resta per andare a vedere Harry Potter”.
Si infilarono nella puzza di patatine fritte e nelle bollicine di cocacola. Lo schiamazzo adolescente le inghiottì. Fuori, su Palazzo Madama, su Palazzo Carignano, sui monumenti di bronzo e di marmo, sul Museo Egizio, cominciò a nevicare. Presto tutto fu bianco e silenzioso, lo scenario perfetto per un Natale di pace e serenità.

Nota dell'autrice.
Mi scuso con Gatta, Topina e Buon Anno per averle usate in questo racconto. Sono tre bravissime ragazze, tre mummie esemplari, sempre tranquille e composte nella loro teca al Museo Egizio di Torino. Mai si sognerebbero di andare in giro a combinare guai. Di quello che si racconta qui mi prendo tutta la responsabilità. 
P.S. Come si evince dal testo, questo racconto è ambientato nel 2001, prima dell'euro. E prima anche del nuovo allestimento del Museo Egizio in cui le tre sorelline hanno perso i loro nomi italiani, e si chiamano Tama (Gatta), Tapeni (Topina) e Neferrenepet (Buon Anno).   



LA VERA PROVA DELL'ESISTENZA DI DIO: UNA STORIA DI BOLZARETTO SUPERIORE

   
CENTO DI QUESTI GIORNI


NON PIU' MILLE


UNA NOTTE CON BALBABLU' - prima parte 


UNA NOTTE CON BARBABLU' - seconda parte 


CINQUE PEZZI MOLTO FACILI



UN RACCONTO DI NATALE ALLA MODA DI UNA VOLTA    


L'EREDITA': UN RACCONTO PATRIOTTICO


UN AMOUR D'ANTAN


NEMICI 


SPECCHI


IL TAVOLINO DI CARLIN - cronache di Bolzaretto Superiore


NON PRENDETEMI ALLA LETTERA


AMOR DI SIRENA


QUATTI QUATTI, O CON FRAGORE: Gente che scappa di casa e non torna più



RESURGAM   

  
PER AMORE DI UN TOPO


LA VOCAZIONE 


FIABA D'AMOR CRUDELE

  










   







 




 


 

  







       


 







       


 




  






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