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domenica 8 settembre 2024

Una lettura perfetta: Edith Durham, High Albania


Sono in giro, tra tempo risicato e collegamenti internet precari non riesco a scrivere una vera e propria recensione ma devo assolutamente fare una segnalazione del libro che ho letto con passione e interesse crescenti in queste ultime settimane. Tra l'altro, mi piacerebbe che chi legge potesse condividere la vista che ho dal balcone da cui scrivo: a Samotracia, campagna sterminata, ulivi, fichi, gelsi, pioppi, cipressi e ginepri, albizie iulibrissin, acacie, in lontananza querce e la mole imponente del monte Fengari, quello che fa ombra al Santuario dei Grandi Dei e ai loro cupi misteri, persino un paio di palmette (immigrate naturalmente), un numero imprecisato di gatti scheletrici sempre in movimento, la chiesetta bianca del cimitero su una collina, e l'imperdibile audio che l'accompagna: un vastissimo silenzio interrotto da qualche tortora (per fortuna poche e lontane), moltissimi chicchirichì di galli, molti coccodè di galline, frequenti “malaka” dai giovani poliziotti che occupano due stanze nel cortile, ogni tanto chiacchiere a alta voce con fragorosi scoppi di risa, molto gradevoli, e soprattutto verso il tramonto almeno mezz’ora di belati e campanelle quando le pecore tornano dal pascolo e passano vicinissime, ma nascoste dalla vegetazione. 

In questo luogo così bello e pieno di sorprese (le nuvole se ne inventano una nuova in continuazione) ho letto “High Albania” di Edith Durham, scrittrice inglese (1864-1943) di cui non sapevo niente e non avevo letto niente. Ora, prima di andare avanti devo chiarire che non si tratta di un libro di narrativa ma del resoconto di un viaggio compiuto nel 1908, quando tra l’altro il movimento dei Giovani Turchi ottenne dal Sultano il ripristino della costituzione del 1876, dando inizio alla rivoluzione che abbattè l’impero ottomano. Ma “High Albania” non tratta questioni politiche né storiche, narra con grandissima partecipazione e velocità quello che l’autrice vide durante la sua esperienza di donna occidentale che viaggiava sola in territori davvero inusuali.

Ora è passata poco più di una decina di giorni e mi ritrovo a scrivere su un altro balcone, davanti a una foresta di pali della luce dietro i quali un mare azzurro e liscio, solcato da un traffico intenso di traghetti (silenziosissimi) soffre con me per il rumore continuo e insopportabile di auto, bus, camion e fragorosissime moto che ci separano scorrendo senza sosta. Svanita la poesia del silenzio interrotto solo dalle voci degli animali e delle nuvole sul Saos. Va be’, il balcone è comodo e il wi fi nel complesso tiene. Ma a parte queste notazioni personali, resta il fatto che penso che “High Albania” sia un libro da leggere assolutamente se siete curiosi del mondo e delle sue vicende meno conosciute, vicine a noi ma lontane anni luce dagli argomenti di moda. Edith Durham (Londra 1864-1943; cercate notizie su Wikipedia se avete fretta, c’è anche una foto, ma si reperisce molto altro in rete) intraprese questo viaggio nell’alta Albania, cioè nelle montagne che ora la separano da Montenegro, Kossovo e Macedonia del Nord, per il suo piacere, a spese sue, spostandosi a piedi e dov’era possibile a cavallo, accompagnata da una guida locale, arrampicandosi su montagne scoscese e guadando fiumi, usufruendo dell’accoglientissima ospitalità di preti e frati, di notabili o di privati cittadini, sempre pronti a dare ricetto ai viaggiatori secondo le proprie possibilità. Tutti accorrevano per vederla, toccarla, se riuscivano la coprivano di domande (Edith Durham parlava serbo e Marko, la sua guida, le faceva da interprete per le altre lingue locali), quando c’erano autorità di qualsiasi tipo facevano degli incontri in cui si scambiavano informazioni e stupori. È incredibile l’interesse che suscita la situazione di questi territori che ci appaiono più esotici dell’Africa (e ancora oggi non credo siano notissimi). Divisi in tribù, spaccati tra cattolicesimo, ortodossia e islam, facevano parte dell’impero ottomano che odiavano, ma ancora di più odiavano gli slavi, i Serbi, non conoscevano autorità né un governo centrale e ubbidivano solo al Kanun, la legge di Lëke Dukagjini. L’unico legame riconosciuto era quello familiare (nel libro non si parla mai di villaggi, ma solo di case), i rapporti tra uomini erano diretti dall’onore e dal “sangue”,  faide crudelissime e rigidissime che comportavano ammazzamenti senza pietà, le donne erano merci di scambio di proprietà strettamente maschile, venivano talvolta vendute anche prima di nascere, cedute o barattate a seconda delle esigenze familiari. 

In questo mondo incredibile Edith Durham ci fa fare una full immersion con estrema chiarezza e onestà, senza mai dare giudizi né dimostrare emozioni o cedimenti sentimentali, con occhi spalancati e attentissimi ai particolari, tenendosi ai margini come persona e tenendo sempre viva l’attenzione del lettore. Io mi ci sono appassionata malgrado l’abbia letto in condizioni non proprio semplici, e mi è dispiaciuto moltissimo quando l’ho finito. 

Se volete leggerlo in italiano, il titolo è “Nella terra del passato vivente”, Salento Books 2016, in versione cartacea.