CALIPSO E LE ALTRE
Il sole era
alto sull'isola quando Calipso si svegliò e andò a lavarsi alla sorgente che
sgorgava vicino al suo antro. L’aria era già calda, ma la brezza faceva
stormire le fronde degli alberi e agitava le foglie e i grappoli verdi della
vite che cresceva sulla pergola all'entrata. La ninfa si immerse nelle acque
fredde e rabbrividì. Dopo il bagno sedette di fronte al mare che si intravedeva
tra i rami dei pini, piatto e scintillante, per mangiare i semplici cibi a cui
era abituata, dal momento che non c'erano fumi di sacrifici né ambrosia nella
sua vita solitaria: ancora una volta durante la notte era stata tormentata dai
sogni, che le avevano riportato i giorni felici in cui non era sola.
Da anni
ormai i sogni la tormentavano: ma il tormento nasceva al risveglio, quando
questi rivelavano la loro natura ingannevole. Di notte Calipso era felice, e
non avrebbe mai voluto svegliarsi. Tutto era come lei avrebbe sempre desiderato,
Ulisse era con lei, l'amava, le chiedeva per pietà di essere tenuto sull'isola,
le giurava che l'amava, che l'avrebbe amata sempre, solo lei. Ma la mattina
tutto tornava come sempre: l'isola era vuota, il sole scintillava sulla superficie
del mare privo di vele, la voce della sorgente era l'unica a spezzare il
silenzio, e le ore erano lente a passare, lente come pietre che affondano in
uno stagno melmoso, finché la sera portava tramonti di fiamma e d'oro liquido
sulle onde piatte dell'insenatura tra gli scogli, da dove tanti anni prima era
partita la zattera che portava via l'uomo che aveva rifiutato l'immortalità. Le
bruciavano ancora le guance dalla vergogna a quel pensiero. Pur di andarsene,
pur di ritornare dalla sua sposa, Ulisse aveva rifiutato di diventare simile a
un dio. Aveva passato anni con lei, mangiando il cibo cucinato dalle sue mani,
dividendo con piacere il suo letto - al ricordo di quelle notti sentiva ancora
un brivido - tuttavia di giorno ipocritamente piangeva la sposa e la patria
lontana e chiedeva incessantemente di poter partire, come se lei fosse stata
la sua carceriera e lui un povero prigioniero maltrattato. Ma la sera scordava
tutto, Penelope e Itaca, il mare che lo chiamava e la nostalgia del ritorno, e
si ricordava solo di lei, la cercava e l'amava... Così sono gli uomini,
mortali o dei, sempre pronti a buttar via quello che hanno per partire alla
ricerca dei loro fantasmi.
Eppure con Penelope era stato sì e no un
anno, e con lei invece aveva trascorso sette lunghi anni di vita quotidiana,
di amore notturno, di giorni condivisi nei boschi e sulle spiagge dell'isola.
E in tutti quegli anni lui non l'aveva mai amata, l'aveva sopportata solo
perché era una dea e non avrebbe mai potuto sottrarsi ai suoi voleri; e quelle
lacrime quotidiane l'avevano offesa più di qualunque torto avesse mai
ricevuto... Ma questi erano pensieri da scacciare. Era meglio pensare a ciò che
aveva sognato, ai baci sinceri di Ulisse nel sogno, ai suoi giuramenti, alla
sua tenerezza. Nei sogni era la verità, non nei ricordi amari e dolorosi. Eppure,
allora era stata felice perché intanto lui era lì, a riempire la sua vita; e
lei non aveva mai amato così né prima né dopo.
Nell'antro
che era la sua casa, dove stava il suo telaio, Calipso teneva un bacile pieno
d'acqua in cui nelle ore calde scrutava le immagini di chi le stava a cuore. Lì
aveva visto le vicende del ritorno di Ulisse, e non le era sfuggito che,
malgrado l'ansia che aveva di tornare dalla sua sposa, era riuscito a
trascorrere un periodo molto piacevole in compagnia di una giovane principessa
di nome Nausica. Le venne la curiosità di vedere quale fosse ora la sorte delle
donne che erano state sue rivali nel cuore di Ulisse, quelle di cui lui le aveva
parlato o di cui aveva appreso l'esistenza attraverso il bacile magico:
Penelope, Nausica, Circe.
La
preparazione dell'incantesimo era lunga e solo al tramonto fu pronta a
interrogare le acque. Quale vedrò per prima? si chiese. Scelse l'altra immortale
che aveva amato Ulisse, quella che forse non lo aveva rimpianto quando era
partito per sempre. Quando l'acqua torbida del bacile si schiarì, Circe le
apparve vestita di porpora, seduta a banchetto con una compagnia di marinai
sfrontati, che la circondavano senza timore né timidezza: lei versava
personalmente il vino nelle coppe, prodiga di sorrisi e generosa nel far intravedere
la propria bellezza attraverso il peplo, senza veli sul viso; e il banchetto si
protraeva nella notte. Era chiaro che Circe sapeva quello che voleva. Sorrideva
sull'orlo della sua coppa a un giovanissimo marinaio dagli occhi azzurri, e a
un certo punto si allontanò con lui dalla sala, mentre gli altri travolti
dall'ubriachezza si lasciavano andare sul pavimento vomitando senza ritegno o
russando a bocca spalancata.
"Ulisse"
le sussurrò una voce senza corpo, provenendo dall'aria intorno a lei come un
presagio.
"Ulisse?"
disse Circe, aggrottando le sopracciglia. "Come mai mi è venuto in mente
questo nome? Non l'ho mai sentito prima."
Sostenendo
il marinaio che barcollava lo trascinò verso una stanza interna, dove i due
crollarono sul letto abbracciati, lui dimentico dei compagni, lei dell'altro
marinaio che aveva allietato le sue notti tanti anni prima.
"Benedetta
la memoria corta di Circe" disse Calipso, e ripeté le formule magiche sul
bacile per continuare nell'indiscreta indagine, spinta dal suo cuore geloso e
nostalgico. Questa volta apparve la stanza di un gineceo di Scheria, il paese
dei Feaci. Com'era diversa la donna che l’abitava da quella che aveva spiata
durante il viaggio di ritorno di Ulisse! Nausica era ormai una matrona
ispessita dalle molte maternità, autorevole nella sua maturità, resa fredda
dall'impatto con la realtà della vita. Giaceva ancora sveglia nel letto, perché
il marito era a un banchetto con altri uomini e chissà quando sarebbe tornato.
"Quindici
coperte filate e tessute di mia mano" pensava Nausica, "sette pepli
ricamati e venticinque tuniche semplici per mio marito... Non è male come
lavoro di un anno. I miei figli maschi crescono tutti sani e abili
nell'amministrare le nostre ricchezze, dacché gli dei ci favoriscono e Scheria
è sempre più prospera. Pensare che quand'ero giovane abbiamo rischiato di
perdere tutto sfidando la volontà degli dei per aiutare uno straniero
naufragato qui per caso, come si chiamava? Non lo ricordo più. Com'è sciocca
la gioventù, per un attimo ho pensato di amarlo povero e nudo com'era, e persino
che avrebbe potuto fermarsi qui con me." Rise tra sé nel dormiveglia.
"Se le mie figlie si dimostrassero così stupide da innamorarsi di un
ospite perseguitato dagli dei e bisognoso di una tunica per coprirsi, le
legherei al letto per impedire loro di fare stupidaggini. Davvero i giovani
sono sventati e inesperti! Per fortuna i Feaci hanno perso l'abitudine
imprudente di dare ospitalità e aiuto a tutti gli stranieri che arrivano alle
loro spiagge."
Nausica
chiuse gli occhi soddisfatta della sua giornata, si coprì le membra abbondanti
con una coperta tessuta con le sue mani, e sprofondò in un sonno sereno.
Calipso
rabbrividì nel suo antro umido e si chiese se qualcuno, oltre a lei,
conservasse ancora il ricordo di Ulisse com'era un tempo, bello e forte.
"Sua
moglie sicuramente, almeno lei" pensò "sarà felice di essere amata da
una tale eroe, un uomo che molti hanno scambiato per un dio. O sono io l'unica
vittima del suo fascino? Non è possibile. Circe e Nausica lo hanno cancellato
perché non hanno avuto scelta, come me: e hanno potuto sostituire con un marito
o molti amanti il ricordo di quell'uomo unico, ecco perché hanno dimenticato.
Ma Penelope, nella sua posizione privilegiata di sposa, non può che essere
felice."
Ancora una
volta il bacile docilmente le mostrò quello che succedeva a Itaca.
Neanche
Penelope dormiva, ma si rivoltava in preda all'inquietudine. Era ormai vecchia,
e priva di quella bellezza che aveva attirato per tanto tempo nella reggia di
Ulisse i pretendenti pronti a sostituirlo nel suo letto oltre che sul trono. E
ora si rivoltava tra le coperte al fianco del suo anziano sposo che Calipso
ancora sognava, e che aveva i capelli grigi e pochi denti in bocca.
"Certo
la mia vecchiaia è onorata" pensava Penelope "ma quanti anni ho
perso! Quando in me il sangue scorreva ancora veloce, quando il mio corpo aveva
ancora bisogno dell'uomo nella sua potenza virile, io dovevo tutte le notti
ritirarmi sola nel mio letto deserto e pensare a Ulisse, per consolarmi della
mia solitudine... Ma lui? Lui faceva l'amore con chi gli capitava, dea o
mortale, e non soffriva della lontananza dalla sposa e dalla casa se non nel
ricordo... E infatti che cosa è stato il suo ritorno? Tre o quattro notti
d'amore, e poi il mio posto è stato preso da una schiava giovane e fresca, ed è
normale... Avevo già compiuto il mio dovere di generare un figlio maschio,
perché avrebbe dovuto avere ancora il desiderio di me? Ora sono avvizzita, e
anche quando lui è tornato a casa avevo già molti capelli bianchi, anche se le
mie carni erano ancora sode mi mancava l'attrattiva della giovinezza per attirare
il mio sposo, costante se pur non fedele. Sette anni è vissuto con quella
ninfa... E se io, invece di un maschio, gli avessi generato una figlia?
Sarebbe mai tornato da me? Chissà che destino diverso il mio se avessi
accettato la corte di qualcuno dei miei pretendenti... Non tutti miravano solo
al trono di Ulisse. Ad esempio, Eurimaco mi sembrava animato da una vera
tenerezza nei miei confronti... Chissà, con un cuore meno rigido e attaccato
al ricordo, forse la mia giovinezza infelice sarebbe stata meno sterile? Quanti
figli avrei potuto generare se non fossi stata fedele al marito che, nel
frattempo, ha sparso il suo seme tra dee e mortali senza risparmio né rispetto
per me, che intanto nella sua casa conservavo la sua stirpe e i suoi averi senza
averne altra ricompensa che una vecchiaia serena e noiosa... Eppure, ho avuto i
miei pretendenti!"
L’anziana
Penelope si agitava tra le lenzuola con l'inquietudine di chi non è soddisfatto
della vita che gli è toccata in sorte, e Calipso soffiò rabbiosamente
sull'acqua per cancellare l'immagine. Non aveva riconosciuto Ulisse nel vecchio
steso sul letto, o forse non l'aveva nemmeno guardato.
"Ingrate!"
esclamò la dea. "Donne viziate, stupide, incoscienti della felicità che
vi è toccata! Una è stata amata come un sogno impossibile e adesso rinnega
quell'amore, un'altra ha potuto dimenticarlo perché anche se dea è una gran
sgualdrina, un'altra infine lo ha riavuto definitivamente vicino a sé e non è
nemmeno riconoscente per la sua fortuna! E io allora chi sono? A che cosa mi
serve essere una dea, se nell'amore valgo meno di chiunque altra, se per liberarsi
di me l'unico che ha colpito il mio cuore non ha badato né a quello che
perdeva, né ai pericoli cui andava incontro? Solo io l'ho amato, e come avviene
tra gli uomini, solo me lui non ha mai amato. Solo io ne coltivo il ricordo e
continuo a venerarlo come il migliore tra gli uomini, solo io penso che non ci
sia nulla di più dolce che averlo a fianco giorno e notte. Vuol dire che sono
la più stupida tra tutti gli esseri di sesso femminile? La più fedele, o la più
testarda? O forse, l'unica che non ha avuto niente altro a cui pensare in
tutti questi anni? Zeus, non dovresti permettere simili ingiustizie!"
Rovesciò il
bacile pieno d'acqua con rabbia, preparò un po' di cibo, formaggio e uva, e si
sedette a mangiare. Era ormai l'alba e i gabbiani volando le facevano
compagnia con grande stridore, ma né uomo né dio si accostava alla sua isola
verde. E dopo il pasto Calipso spezzò il bacile perché non le venisse mai più
la tentazione di spiare la vita che si svolgeva nelle terre lontane dove gli
uomini si affaccendano; e nell'isola solitaria riprese la sua vita immortale,
sempre attendendo e temendo l'arrivo di un naufrago bisognoso delle sue cure.