Qui alcuni libri consigliatissimi, più che consigliati; tutti, se non sono in vetrina nella libreria sotto casa, facilmente reperibili in rete in versione cartacea quindi non ci sono scuse. Se siete arrivati fin qui siete capacissimi di trovarli. Sono diversissimi, quindi in grado di soddisfare ogni tipo di gusti. Allora.
Cominciamo con Strade paralLele di Adriana B. Ferrari. Più di 400 pagine di poesie appassionanti come racconti e altrettanto limpide, che riuniscono sotto un unico titolo i cinque già pubblicati e alcuni inediti di un'artista, oltre che della parola, anche del collage. Grande maestria metrica e stilistica, che spazia dall'endecasillabo all'haiku all'acrostico, e un continuo, lucido e ludico ragionare con se stessa e con un "tu" sfuggente e sempre presente: Che fossi tu quello che nel passare - / avevo solo diciannove anni - / una sera ha lanciato un impietoso / "Brutta!"? No, inverosimile, sapendo, / conoscendoti adesso come sei...
Raffinatissima operazione di ricupero del ricordo e delle ondivaghe passioni dei vent'anni, Le imperfette quadriglie d'agosto di Loris Maria Marchetti si pone come una danza, appunto, fatta di avvicinamenti e allontanamenti, repulsioni e attrazioni, all'interno di un gruppo di ragazzi in vacanza a Milano Marittima negli anni '60 del secolo scorso. Sullo sfondo di miti, comportamenti, musiche e aspettative tipiche di quegli anni, l'esile vicenda di Eliana e dell'io narrante si dipana a passo di danza in una prosa elegantissima, sorvegliata con la cura e la sapienza dei classici, senza nessun cedimento alla retorica della nostalgia, attraverso un'analisi continua dei moti del cuore, quasi prustiana per precisione e complessità.
Altrettanto prezioso Salva con nome di Paola Gamna, sottotitolo Manualetto di scrittura di memorie familiari. E' una tentazione di molti raccogliere e scrivere le memorie della propria famiglia, ma spesso il piacere della ricerca necessaria si scontra poi con la fatica di dar loro una forma narrativa. Il manuale di Paola Gamna fornisce gli strumenti necessari con grazia e ironia, dà indicazioni sulla scelta dei punti da sviluppare, con frequenti interessantissimi esempi presi da libri che, appunto, trattano la memoria. Infine nella sezione "MG" dà un esempio del suo metodo ricostruendo al figura del padre, e sullo sfondo, di una Torino borghese della seconda metà del novecento. E non manca un eserciziario, per i più diligenti.
Con Un martedì di pioggia e altre storie di Lionello Capra Quarelli entriamo nel campo del noir, graditissimo ai lettori. Quattro inchieste del commissario De Nicola, ognuna un piccolo giallo perfetto che possiamo seguire dall'inizio alla fine nel breve spazio di una cinquantina di pagine. Il protagonista ha tutto l'armamentario necessario per diventare un eroe amatissimo, sia per il bell'aspetto e il carattere complesso che per i rapporti intriganti con la fidanzata Maria, collega all’Ufficio Stranieri, la bella PM Enrica Risso e una vice ispettore in totale adorazione. L'ambiente è sempre Torino declinata in tutte le sue sfumature. Veloci e privi di compiacimento, ci portano nel cuore del delitto e poi si affidano alla lucida intelligenza di De Nicola per risolverlo.
E per riprendersi dalle emozioni del crimine, niente di meglio che Le profumiere di Darinka e Desy, dove Darinka Mignatta, pittice, illustratrice e fumettista, e Desy Icardi, attrice, scrittrice, cabarettista, umorista, blogger (https://patataridens.wordpress.com/) si scatenano in un perfido e divertentissimo manuale scientifico e sistematico in cui le profumiere vengono analizzate, catalogate e inchiodate alle loro (tremende) responsabilità. E chi sono le profumiere? Quelle che non la danno mai ma, secondo la ben nota espressione, la fanno spesso annusare. In pratica tutte le stronze: qui si analizza ogni categoria di femmina terribile, quelle da cui è meglio scappare lontani. Darinka e Desy ci offrono uno strumento per riconoscerle facendoci divertire alle loro spalle, vendicandoci di tutte le volte che ci hanno fregato con la loro abilità di fragranti gattemorte.
Adattissime al Natale le Favole in Piemonte - Masche, esseri fatati e creature magiche di Anna Maria Dalla Torre, illustrate da Fernanda Dalla Torre, sorella dell'autrice. Si sa che in Piemonte circolano numerosi esseri magici e ci sono parecchi luoghi fatati, propizi agli incontri misteriosi. Qui fiabe e leggende vengono gradevolmente variate e storicizzate, dando nomi precisi ai luoghi e spesso anche ai protagonisti, che sotto la trasparente deformazione dei loro nomi sono perfettamente riconoscibili. Contro i loro soprusi combattono i piccoli, gli umili, aiutati dalle creature magiche, spesso anche animali, sempre pronti a dare una mano (o una zampa) a chi è in difficoltà. Oltre alla tradizione orale le fiabe si rifanno ai modelli letterari di Guido Gozzano e Edoardo Calvo, che dal folklore hanno tratto ispirazione.
Tutt'altro che favole sono quelle di cui parla Mariagrazia Nemour in Bianca non era a Shatila. Qui siamo nel Canavese, ma non si tratta di un piccolo mondo antico: lo sguardo è aperto sul vasto mondo e i problemi che lo dilaniano oggi, immigrazione e razzismo e integrazione, Palestina e islam, ma anche un amore difficile e coraggioso e ricordi della Resistenza e della guerra, passione per il Toro e le Alpi, la famiglia e i nuovi abitanti delle valli, insomma la vita di oggi con tutte le sue difficoltà e le sue bellezze. Lieve malgrado gli argomenti e profondamente sincera, la penna di Mariagrazia Nemour ci racconta sommessamente la storia di Veronica, Kais, Bianca e molti altri.
Dieci racconti sul tema del buio di Roberto Turolla, con prefazione di Massimo Tallone e postfazione dell'autore. Premessa indispensabile: Roberto Turolla è un non vedente dalla nascita. E per usare le parole di Massimo Tallone, il non vedente "come fa a costruire un mondo di oggetti mentali che corrisponda a quello dei vedenti?". La risposta è una sola: "la letteratura è il patrimonio di immagini mentali condivisibile tra vedenti e non vedenti". Attraverso la letteratura Roberto Turolla, liceo classico e una laurea magistrale in letteratura, filologia e linguistica italiana, si è creato il patrimonio che gli ha permesso di scrivere i racconti in cui dieci personaggi (in parte immaginari in parte storici o cinematografici) si trovano in situazioni estreme in cui la luce manca del tutto, protagonista e autore condividono la medesima situazione e il lettore non percepisce altro. Il risultato è che "Qui ci sono soltanto due protagonisti: un autore e un libro".
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venerdì 22 dicembre 2017
lunedì 11 dicembre 2017
Lo sapevate che anche gli islandesi picchiano le donne? Arnaldur Indriðason, La signora in verde
Mi perdonerà di sicuro Arnaldur Indriðason, scrittore islandese di successo, se uso il suo romanzo La signora in verde (anche questo un libro antico, del 2001, publicato in Italia nel 2006 da Guanda e da me acchiappato in qualche offerta speciale Kindle) per fare un paio di riflessioni antipatiche. Premetto che il romanzo non mi è dispiaciuto e mi astengo da giudizi perché non sono un'appassionata di gialli (li chiamo così anche se so che ormai o sono noir o sono thriller, la versione italofona non ha più corso) per cui non ho l'autorevolezza per farlo.
Ciò che mi è venuto in mente è: ma è possibile che a nessuno siano venuti a noia i cliché senza i quali pare che nessun giallo possa esistere? Questa riflessione mi ha colpito particolarmente perché un classico che negli altri è spesso metaforico (lo scheletro sepolto) in questo romanzo invece è reale e dà, onestamente e senza pretestuosità, inizio alla vicenda. Ma la storia del passato sepolto che torna alla luce e determina il presente è talmente scontata e prevedibile che dovrebbe essere vietata per legge. Inoltre il più delle volte rende molto facile indovinare (o capire) la conclusione della vicenda (vedi Resa dei conti di Petros Markaris). L'altro aspetto che trovo veramente stucchevole al limite della nausea è la preponderanza dei fatti privati del detective, in questo caso Erlendur Sveinsson della polizia di Reykjavík, sfigato e pasticcione e infelice e pieno di casini famigliari a livelli preoccupanti. Perché un tizio che nella sua vita è riuscito solo a combinare pasticci dovrebbe essere capace di risolvere quelli altrui? E diciamocelo una volta buona, i Wallander e compagnia bella hanno veramente stufato. Molto meglio i razionali alla Montalbano, ma anche lì delle storie di Livia, Mimì e le sue donne, non se ne può più.
Sfogata così la mia personale stufaggine, posso dire che questo La signora in verde è meglio di Sotto la città o almeno mi ha annoiato di meno. La vicenda si svolge su due piani temporali, uno nel passato di cui è protagonista una donna malmenata da un marito violento e uno nel presente, che segue le indagini di Erlendur. Leggetelo se vi piace l'argomento "violenza domestica" così alla moda (qui bisogna dire che l'autore è stato un precursore, ma direi che l'argomento è una sua fissa), se vi piace un'indagine tutta fatta di visite a vari testimoni non sempre facili da distinguere, e se riuscite a non indovinare l'assassino dalla prima volta che viene nominato. Io ho trovato molto meglio la parte ambientata nel presente, e un po' noiosa quella che segue nel passato le vicende della donna picchiata dal marito. E mi resta una domanda: ma non ci hanno sempre raccontato che sti nordici sono tanto civili? Allora non era proprio sempre vero?
La bella traduzione è di Silvia Cosimini.
Ciò che mi è venuto in mente è: ma è possibile che a nessuno siano venuti a noia i cliché senza i quali pare che nessun giallo possa esistere? Questa riflessione mi ha colpito particolarmente perché un classico che negli altri è spesso metaforico (lo scheletro sepolto) in questo romanzo invece è reale e dà, onestamente e senza pretestuosità, inizio alla vicenda. Ma la storia del passato sepolto che torna alla luce e determina il presente è talmente scontata e prevedibile che dovrebbe essere vietata per legge. Inoltre il più delle volte rende molto facile indovinare (o capire) la conclusione della vicenda (vedi Resa dei conti di Petros Markaris). L'altro aspetto che trovo veramente stucchevole al limite della nausea è la preponderanza dei fatti privati del detective, in questo caso Erlendur Sveinsson della polizia di Reykjavík, sfigato e pasticcione e infelice e pieno di casini famigliari a livelli preoccupanti. Perché un tizio che nella sua vita è riuscito solo a combinare pasticci dovrebbe essere capace di risolvere quelli altrui? E diciamocelo una volta buona, i Wallander e compagnia bella hanno veramente stufato. Molto meglio i razionali alla Montalbano, ma anche lì delle storie di Livia, Mimì e le sue donne, non se ne può più.
Sfogata così la mia personale stufaggine, posso dire che questo La signora in verde è meglio di Sotto la città o almeno mi ha annoiato di meno. La vicenda si svolge su due piani temporali, uno nel passato di cui è protagonista una donna malmenata da un marito violento e uno nel presente, che segue le indagini di Erlendur. Leggetelo se vi piace l'argomento "violenza domestica" così alla moda (qui bisogna dire che l'autore è stato un precursore, ma direi che l'argomento è una sua fissa), se vi piace un'indagine tutta fatta di visite a vari testimoni non sempre facili da distinguere, e se riuscite a non indovinare l'assassino dalla prima volta che viene nominato. Io ho trovato molto meglio la parte ambientata nel presente, e un po' noiosa quella che segue nel passato le vicende della donna picchiata dal marito. E mi resta una domanda: ma non ci hanno sempre raccontato che sti nordici sono tanto civili? Allora non era proprio sempre vero?
La bella traduzione è di Silvia Cosimini.
venerdì 8 dicembre 2017
Che cosa succede quando uno scrittore si innamora di un altro scrittore: Julian Barnes, Il pappagallo di Flaubert
Può sembrare strano scegliere di parlare oggi di un libro uscito nel 1984, e in effetti lo è.
Finora di Julian Barnes avevo letto solo Il senso di una fine (di cui è uscita recentemente una sciapissima versione filmica, L'altra metà della storia), che mi è piaciuto ma non mi acchiappato per il fatto che la storia non è particolarmente nelle mie corde, ma mi ha lasciato il ricordo di un libro scritto magistralmente. E anche questo Il pappagallo di Flaubert è scritto benissimo, e mi conferma nella mia convinzione che la scrittura è tutto. Questo è il motivo per cui ne parlo.
Ora, cerchiamo di capirci. Con scrittura non intendo dire pretenziosità, registro alto, ricercatezza, stile iper raffinato. Intendo parole scelte per dire quello che si vuole dire: quindi prima di tutto sapere che cosa si vuole dire, e poi saper usare le giuste parole, il tono, l'alternanza dei contenuti, tenere alta l'attenzione del lettore perché si vede, è evidente, che quello che dice interessa prima di tutto l'autore. Il pappagallo di Flaubert parla esattamente di questo, cioé del pappagallo di Flaubert, oltre che di mille altre cose, in maniera apparentemente svagata e divagante, passando con facilità da un aspetto all'altro della vita di Flaubert o delle sue opere e personaggi, senza mai cadere nell'erudito, nella critica letteraria, nella barba della biografia. Gli aspetti di cui ci parla Julian Barnes sono spesso concreti, materiali (gli animali, i luoghi, gli oggetti) e altre volte spaziano tra gli amici dello scrittore, i suoi viaggi, gli amori, le lettere. La famiglia. Gli spunti da cui possono essere stati tratti i personaggi. E così via, in un continuo (apparente) divagare e affabulare.
In realtà forse la cornice narrativa (il romanzo è in prima persona, e il narratore è un medico inglese, vedovo, che si reca in Normandia, e ovviamente a Rouen, sulle tracce dello scrittore amatissimo) mi è parsa la parte meno interessante, che in qualche punto interrompe il tessuto narrativo così variegato e accattivante. Ma è un'osservazione superficiale, forse a una seconda lettura troverei del tutto necessarie le parti dedicate alla moglie defunta e altre. Ma quello che mi ha colpito moltissimo leggendo, è che mi sono sciroppata con grande piacere e desiderio di tornarci quando interrompevo, tutto un volume su un autore di cui, sinceramente, poco mi interessa. Ho letto a suo tempo, nella prima giovinezza, Madame Bovary, L'educazione sentimentale, Trois contes, Il dizionario delle idee correnti e forse altro; ne ho tratto godimento e giovamento, ma non sono rimasta toccata nel profondo come da altri scrittori dell'Ottocento. Il che non vuole dire che non ne pensi tutto il bene possibile, che non mi renda conto della sua importanza, ma semplicemente che non avevo una spinta particolare a affrontare Il pappagallo di Flaubert. Quindi tutto il merito va a Julian Barnes e alla maestria della della sua scrittura, irresistibile anche in totale mancanza di un plot avvincente, anzi di un qualsiasi sviluppo narrativo.
Perciò lo consiglio vivamente sia agli appassionati di Flaubert che a tutti quelli che amano leggere per divertirsi e far funzionare il cervello, disposti a seguire l'amabile e vivace discorso di un innamorato (come lo è Barnes di Flaubert) per nulla geloso, che vuole condividere con noi tutto quello che sa, o immagina, o inventa, sull'oggetto del suo amore. Bella traduzione di Susanna Basso.
E presto leggerò Il rumore del tempo, anche se di Dmitrij Šostakovič nulla so e poco m'importa.
Finora di Julian Barnes avevo letto solo Il senso di una fine (di cui è uscita recentemente una sciapissima versione filmica, L'altra metà della storia), che mi è piaciuto ma non mi acchiappato per il fatto che la storia non è particolarmente nelle mie corde, ma mi ha lasciato il ricordo di un libro scritto magistralmente. E anche questo Il pappagallo di Flaubert è scritto benissimo, e mi conferma nella mia convinzione che la scrittura è tutto. Questo è il motivo per cui ne parlo.
Ora, cerchiamo di capirci. Con scrittura non intendo dire pretenziosità, registro alto, ricercatezza, stile iper raffinato. Intendo parole scelte per dire quello che si vuole dire: quindi prima di tutto sapere che cosa si vuole dire, e poi saper usare le giuste parole, il tono, l'alternanza dei contenuti, tenere alta l'attenzione del lettore perché si vede, è evidente, che quello che dice interessa prima di tutto l'autore. Il pappagallo di Flaubert parla esattamente di questo, cioé del pappagallo di Flaubert, oltre che di mille altre cose, in maniera apparentemente svagata e divagante, passando con facilità da un aspetto all'altro della vita di Flaubert o delle sue opere e personaggi, senza mai cadere nell'erudito, nella critica letteraria, nella barba della biografia. Gli aspetti di cui ci parla Julian Barnes sono spesso concreti, materiali (gli animali, i luoghi, gli oggetti) e altre volte spaziano tra gli amici dello scrittore, i suoi viaggi, gli amori, le lettere. La famiglia. Gli spunti da cui possono essere stati tratti i personaggi. E così via, in un continuo (apparente) divagare e affabulare.
In realtà forse la cornice narrativa (il romanzo è in prima persona, e il narratore è un medico inglese, vedovo, che si reca in Normandia, e ovviamente a Rouen, sulle tracce dello scrittore amatissimo) mi è parsa la parte meno interessante, che in qualche punto interrompe il tessuto narrativo così variegato e accattivante. Ma è un'osservazione superficiale, forse a una seconda lettura troverei del tutto necessarie le parti dedicate alla moglie defunta e altre. Ma quello che mi ha colpito moltissimo leggendo, è che mi sono sciroppata con grande piacere e desiderio di tornarci quando interrompevo, tutto un volume su un autore di cui, sinceramente, poco mi interessa. Ho letto a suo tempo, nella prima giovinezza, Madame Bovary, L'educazione sentimentale, Trois contes, Il dizionario delle idee correnti e forse altro; ne ho tratto godimento e giovamento, ma non sono rimasta toccata nel profondo come da altri scrittori dell'Ottocento. Il che non vuole dire che non ne pensi tutto il bene possibile, che non mi renda conto della sua importanza, ma semplicemente che non avevo una spinta particolare a affrontare Il pappagallo di Flaubert. Quindi tutto il merito va a Julian Barnes e alla maestria della della sua scrittura, irresistibile anche in totale mancanza di un plot avvincente, anzi di un qualsiasi sviluppo narrativo.
Perciò lo consiglio vivamente sia agli appassionati di Flaubert che a tutti quelli che amano leggere per divertirsi e far funzionare il cervello, disposti a seguire l'amabile e vivace discorso di un innamorato (come lo è Barnes di Flaubert) per nulla geloso, che vuole condividere con noi tutto quello che sa, o immagina, o inventa, sull'oggetto del suo amore. Bella traduzione di Susanna Basso.
E presto leggerò Il rumore del tempo, anche se di Dmitrij Šostakovič nulla so e poco m'importa.
lunedì 4 dicembre 2017
A morte i democratici: Petros Markaris, Resa dei conti
Avevo giurato che non avrei più letto nessuna storia di Petros Markaris, perché mi hanno stufato le
storie di Adriana, i ghemistà, Caterina, Fanis e i consuoceri, il traffico tra Singrou e Sintagma, le manifestazioni, il dizionario, la Mirafiori che adesso è diventata una Seat, insomma tutto l'armamentario iperipetitivo di Costas Charitos. E i suoi intrighi piuttosto noiosi e prevedibili. Ma siccome la coerenza non è tra le mie vistù, in un momento di debolezza ho scaricato Resa dei conti (ed.orig. 2012) e in un altro l'ho letto.
La vicenda è ambientata in una specie di presente immaginario in cui la Grecia, l'Italia e la Spagna hanno abbandonato l'euro ritornando alle vecchie valute nazionali. Il ritorno alla dracma fa salire alle stelle l'inflazione, lo stato decide il blocco degli stipendi, tutti sono in miseria nera e fanno rinunce su rinunce. Persino quella rompiballe di Adriana elimina la carne dai suoi manicaretti e va giù di zucchini e scarola. Comunque, questo lo sappiamo tutti, io che amo i greci e ho la Grecia tra le mie seconde patrie, ne sono dispiaciutissima e spero che venga presto il momento della riscossa (prima che se la siano comprata tutta i tedeschi e i cinesi).
La storia è presto detta e come sempre prevedibilissima (io che non sono un'aquila e frequento poco gialli e thriller avevo capito chi era il colpevole diciamo prima della metà): in sequenza tre ricchi ateniesi (un costruttore, un insegnante di politecnico e un sindacalista) vengono trovati morti, c'è un messaggio dell'assassino che li lega e scavando nella loro vita viene fuori che tutti e tre appartenevano alla generazione del Politecnico e avevano fondato le loro fortune sull'aver contribuito alla fine della dittatura dei colonnelli.
Ora, che né Markaris né Charitos siano di sinistra lo sapevamo da mo', e andava benissimo. Ma sono rimasta veramente colpita da questa vicenda in cui i cattivi sono gli ex giovani della generazione che ha vissuto e respinto la dittatura militare - e a lungo sono stati considerati eroi nazionali. In questo libro sono la feccia della società, corrotti, disonesti, mafiosi, ignoranti e delinquenti, a loro è dovuta l'attuale rovina della Grecia, tanto che si capisce benissimo che l'autore pensa che le tre vittime hanno avuto proprio quello che si meritavano. Mi ha fatto molto pensare, visto che ricordo bene quegli anni e mi chiedo se si tratta di un'opinione condivisa da molti in Grecia. Non ho voglia di affrontare un discorso complesso, sgradevole e che mi fa stare male. Però è così, e è quello che mi è rimasto di più del romanzo.
Per il resto come giallo secondo me Resa dei conti vale poco, ma dà un'immagine vivida delle difficoltà di vivere in un paese in bancarotta, e di questo bisogna dare il merito a Markaris che con il suo modo di scrivere più che semplice e attaccato ai particolari concreti, tutto sommato leggero e veloce, disegna efficacemente una società molto confusa, nervosa, angosciata e incerta sulle gambe. La bella traduzione è di Andrea Di Gregorio.
storie di Adriana, i ghemistà, Caterina, Fanis e i consuoceri, il traffico tra Singrou e Sintagma, le manifestazioni, il dizionario, la Mirafiori che adesso è diventata una Seat, insomma tutto l'armamentario iperipetitivo di Costas Charitos. E i suoi intrighi piuttosto noiosi e prevedibili. Ma siccome la coerenza non è tra le mie vistù, in un momento di debolezza ho scaricato Resa dei conti (ed.orig. 2012) e in un altro l'ho letto.
La vicenda è ambientata in una specie di presente immaginario in cui la Grecia, l'Italia e la Spagna hanno abbandonato l'euro ritornando alle vecchie valute nazionali. Il ritorno alla dracma fa salire alle stelle l'inflazione, lo stato decide il blocco degli stipendi, tutti sono in miseria nera e fanno rinunce su rinunce. Persino quella rompiballe di Adriana elimina la carne dai suoi manicaretti e va giù di zucchini e scarola. Comunque, questo lo sappiamo tutti, io che amo i greci e ho la Grecia tra le mie seconde patrie, ne sono dispiaciutissima e spero che venga presto il momento della riscossa (prima che se la siano comprata tutta i tedeschi e i cinesi).
La storia è presto detta e come sempre prevedibilissima (io che non sono un'aquila e frequento poco gialli e thriller avevo capito chi era il colpevole diciamo prima della metà): in sequenza tre ricchi ateniesi (un costruttore, un insegnante di politecnico e un sindacalista) vengono trovati morti, c'è un messaggio dell'assassino che li lega e scavando nella loro vita viene fuori che tutti e tre appartenevano alla generazione del Politecnico e avevano fondato le loro fortune sull'aver contribuito alla fine della dittatura dei colonnelli.
Ora, che né Markaris né Charitos siano di sinistra lo sapevamo da mo', e andava benissimo. Ma sono rimasta veramente colpita da questa vicenda in cui i cattivi sono gli ex giovani della generazione che ha vissuto e respinto la dittatura militare - e a lungo sono stati considerati eroi nazionali. In questo libro sono la feccia della società, corrotti, disonesti, mafiosi, ignoranti e delinquenti, a loro è dovuta l'attuale rovina della Grecia, tanto che si capisce benissimo che l'autore pensa che le tre vittime hanno avuto proprio quello che si meritavano. Mi ha fatto molto pensare, visto che ricordo bene quegli anni e mi chiedo se si tratta di un'opinione condivisa da molti in Grecia. Non ho voglia di affrontare un discorso complesso, sgradevole e che mi fa stare male. Però è così, e è quello che mi è rimasto di più del romanzo.
Per il resto come giallo secondo me Resa dei conti vale poco, ma dà un'immagine vivida delle difficoltà di vivere in un paese in bancarotta, e di questo bisogna dare il merito a Markaris che con il suo modo di scrivere più che semplice e attaccato ai particolari concreti, tutto sommato leggero e veloce, disegna efficacemente una società molto confusa, nervosa, angosciata e incerta sulle gambe. La bella traduzione è di Andrea Di Gregorio.