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lunedì 31 luglio 2017

Davanti a ognuno di noi c'è una porta che abbiamo paura di aprire: Una porta come tutte



Non ho nessuna recensione pronta (ho appena finito di leggere Lezioni di nuoto di Rohinton Mistry, raccolta di racconti molto masala ambientati all'interno di un condominio abitato da una comunità parsi a Mumbay) e così pubblico Una porta come tutte, che diventerà un racconto appena avrò tempo di andare avanti, ma per il momento lo condivido qui. E mi piacerebbe molto se mi arrivassero suggerimenti e confessioni di chi ha una sua porta di cui parlare.  

E nella sua immaginazione avveniva quel fenomeno consueto per cui il viso di una persona amata,
rivisto dopo molto tempo, dopo averci colpito per i mutamenti esteriori verificatisi durante l’assenza, poco per volta ridiventa assolutamente usuale a com’era molti anni prima, svaniscono tutti i mutamenti e davanti agli occhi dello spirito emerge solo l’espressione fondamentale dell’esclusiva, irripetibile personalità spirituale.
Lev Tolstoj, Resurrezione
Traduzione di Emanuele Guercetti  


Fuori sembrava una porta come tutte le altre. Legno marrone scuro, lucida, liscia, solo una placchetta d’ottone in cui era inserita la serratura. Dentro, c’era il paradiso. La libertà, l’amore, le risate, l’amicizia, il calore. Il presente senza fine. Le finestre, da cui nessuno si ricordava di guardare fuori.
Ma loro forse, non se n’erano mai accorti. Troppo presi dai loro squisiti dolori, dal desiderio, dalle idee veloci e mutevoli, dall’idea di mondo che avevano in testa. Troppo allegri, troppo ciucchi, raffreddati o di corsa. Per esempio, per Billa c’era solo un grande tavolo coperto di bicchieri con il fondo macchiato di vino rosso dove era bello stare a discutere tutti insieme malgrado l’odore di fritto e di conserva, molti letti sempre occupati da qualcuno che scopava, un bagno in cui non si poteva perdere tempo a leggere giornalini, due divani sfondati coperti da mezzeri indiani e briciole di biscotti. Billa desiderava proprio quello. Voleva poter entrarci tutti i giorni, e anche se la sera era costretta a uscire per rientrare da un’altra porta, la sicurezza che l’indomani era ancora tutto lì, sicuro e stabile e in continua trasformazione, le dava il senso di essere piantata su questa terra. Con radici profonde ben ancorate che la tenevano in equilibrio anche se fuori c’era il vento. Anche se lei si faceva sbatacchiare dal vento, e ne provava un piacere pieno di brividi.
Dietro la porta chiusa c’era anche una passeggiata nei boschi, in una domenica di novembre piena di sole. Quando spirava un po’ di vento si era avvolti da una nevicata di foglie che facevano un rumore di pioggia sul vetro. E proseguendo per quella stradina nel bosco disseminata di suole di gomma spaiate, bordata di calcinacci, bottiglie vuote, sacchi neri e persino un frigorifero, si arrivava a una radura quasi rotonda con un lato in salita, in cima al quale troneggiava una sedia di plastica bianca. C’erano due o tre o quattro conifere evidentemente piantate e non spontanee, i resti di un forno rudimentale e un pozzo chiuso da una botola. Al di là si vedeva un noccioleto rinselvatichito, con arbusti dai molti tronchi grandi e lisci. E da un ramo pendeva un osso di prosciutto attaccato a un filo finissimo che sembrava parte della cotenna, coperto di mosche, che girava lentamente su se stesso nelle folate intermittenti. Anche i rami dei noccioli si muovevano e schioccavano, sbattevano come se ci fosse una piccola tempesta intrappolata nel folto, ma a guardare meglio risultava subito chiara l’origine dell’agitazione: c’era una coppia che scopava con molta energia proprio sul tappeto di foglie appena cadute, e scuoteva i rami mezzi spogli come se quello che li muoveva fosse stato un vento impetuoso, un vento caldo e felice di baci e risate rimandate a dopo, quando ci sarebbe stato il tempo di riandare col pensiero all’impresa appena compiuta.  

E chissà quando ci sarebbe stato tempo: perché il tempo corre veloce, non si fa acchiappare volentieri. In un attimo ci si ritrova all’età delle rimpatriate, delle tremende cene con i compagni di scuola.

In realtà non sempre le cene con i compagni di scuola sono tremende. In fondo bisogna ammettere che si vedono con piacere, perché sono la prova che si è stati giovani. Gli unici testimoni che siamo stati giovani. Li si vede giovani, e questo conferma che lo si è stati anche noi.
Invece quando si conosce qualcuno da adulto, non si riesce a immaginarlo giovane. Gli si attribuisce uno status da adulto. Ovviamente succede lo stesso nei nostri confronti, e è una cosa molto frustrante. Quando si è stati giovani insieme a qualcuno, lo si è per sempre. Quello che prevale non è lo shock del cambiamento, è la continuità che traspare dai lineamenti. Dopo il primo momento le due immagini, di ieri e di oggi, si sovrappongono e si confondono. Ma se non ci piace come eravamo allora, non possiamo avere voglia di vedere i vecchi compagni di scuola. Non ci interessa per niente che ci rimandino quell’immagine di allora.
Ma dentro, dentro siamo uguali sempre. E quando ci svegliamo di notte e il cuore ci si stringe al pensiero di (tutto) quello che abbiamo perso lungo la strada della vita, è lo stesso cuore di quando le facce dei nostri compagni ci erano così familiari, di quando dormire era facile e svegliarsi un dispiacere, di quando si correva dietro al tram seminando fogli e matite.
Per fortuna il tempo aggiusta tante cose, quasi tutte, almeno quelle che non distrugge.   

E se dietro alla porta ci fossero solo bucce d’arancia, spine, puzza e fazzoletti sporchi? Forse dipende da quando si abbassa la maniglia. Se è mattina presto e il sole arriva un po’ di sbieco, pieno di una ferocia che anticipa ore calde e chiare, scommetto che dentro ci si potrebbero trovare drappeggi di seta cangiante su sfondo di pareti bianche. Al tramonto quando tutto si confonde e si stempera nell’oro e nell’arancio, il pavimento sarebbe coperto di foglie secche che frusciano via ammucchiandosi negli angoli. Forse al chiaro di luna che penetra dai vetri sporchi si troverebbero i tesori perduti dell’infanzia, sorprese delle uova di pasqua, una catenina di palline d’acciaio, bilie di vetro con dentro l’arcobaleno, soldatini di plastica, una coroncina di fiori di stoffa che qualcuno ha portato da un’isola d’Oriente… forse persino una boccetta di cristallo sfaccettato senza tappo, ma con l’etichetta d’oro. Cose che non potrebbero diventare utili neppure su un’isola deserta.   
Lei pensa che forse preferirebbe che dietro non ci fosse niente. Abbassare la maniglia, spingere il battente e trovare uno spazio chiuso ma vuoto, quattro pareti e quattro angoli bianchi, una luce tutta uguale, senza fonti riconoscibili. Una finestra rettangolare senza infissi, chiara come il resto dello spazio. Dietro il vetro solo luce senza delimitazioni né ombre.
Le fa un po’ paura questa immagine. No, dietro la porta deve esserci calore e angoli bui con ragnatele e batuffoli di polvere. Mensole e scaffali coperti di libri e oggetti, vasi di fiori appassiti, mele morsicate, tazze con fondi di caffè rappresi e biscotti spezzati. Scarpe abbandonate sul pavimento, un golf tarlato, perle sfilate, fogli di carta unta. Un topo morto. Un profumo d’incenso vecchio, di caffelatte, di fiati, di vestiti mai lavati, e di essenza di rose. Mutandine sporche.
Mutandine! Sarà qui che sono finite tutte le mutandine che mi sono tolta, in tutta la mia vita? Volate via e ammassate in un angolo insieme ai ragni rinsecchiti, alle carte di chewing-gum e le sere passate a tirar tardi? Ma ci saranno di sicuro anche tutte le chiacchiere con le amiche, le chiacchiere tra donne, le chiacchiere davanti a un bicchiere di vino, le chiacchiere sul caffè, le chiacchiere piene di sonno e quelle disperate perché ci si aspettava una risposta diversa, e si vorrebbe rimangiarsi chili di parole in un boccone e farle andar giù con un sorso di lacrime.
La questione fondamentale, quella che bisogna affrontare per prima, è: la apro o non la apro? Voglio davvero scoprire quello che c’è dietro, o preferisco covare il piacere segreto di fantasticare, immaginando mucchi di tesori scintillanti e luce, calore, brezze profumate, rumore del mare?
Ci devo dormire sopra. I colpi di testa non portano mai da nessuna parte.

Appena scostata, la porta lascia uscire un raggio di luce che taglia in due il buio. L’aria pesante si fa subito fresca, tesa, carica di salsedine e di luccichii inquieti. Il mare. Le onde e il vento, uno sciacquio regolare, pieno di un’allegria sorpresa. Niente pareti, solo l’orizzonte azzurro e rosso del tramonto che si avvicina. Forse ci vuole qualcosa sulle spalle, per evitare che le folate che tingono di blu le onde ci facciano starnutire. Sulla sponda ci sono tante tamerici, un esercito di alberi spettinati che agitano le braccia in segno di benvenuto per me e di addio per la vela che si allontana nella bruma violacea della sera. Perché ormai è sera, il sole è sparito schiacciandosi in silenzio dietro le nuvole al largo, le tracce d’oro che si dondolano sull’acqua sono svanite a una a una, i gabbiani stanchi lanciano ancora un ultimo lamento prima di infilare la testa sotto l’ala per la notte. Nell’ombra agitata, tra le foglie magre, contro i tronchi ruvidi corrono ombre bianche di fantasmi, lasciando tracce sulla sabbia bagnata come piedi di uccelli o tracce di lucertole. Il buio a poco a poco cancella tutto, tranne le scie scintillanti dei fantasmi che danzano sotto i rami.
Tu sapresti riconoscere le forme che occupano l’orizzonte? Non sono facili da individuare. Sono isole ma anche nuvole che si disegnano appena sul cielo con sottili linee di fuoco. A me pare che quel profilo cangiante sia la montagna di Samotracia… o forse è la guglia di un castello di fate, o un grattacielo coperto di vetrate che scoppiano tutte insieme mentre le schegge feriscono la superficie del mare oscuro che rotola, rotola verso la spiaggia che forse non raggiungerà mai. Una spiaggia coperta di noci di cocco aperte e rinsecchite, di polvere tagliente di corallo, di conchiglie spaccate, di occhi di pesci e gusci di tartarughe e bottiglie di plastica che non portano nessun messaggio. Il vento fischia e spruzza in faccia la schiuma giallastra unta delle squame e delle interiora dei pesci senza occhi. Senti l’odore di salsedine e quello di putrefazione? Senti lo scricchiolio delle ossa degli annegati che si trascinano sui fondali neri come la pece?           
       

venerdì 21 luglio 2017

Una scoperta preziosa: Philip Ó Ceallaigh, Appunti da un bordello turco

Di questo libro, il primo pubblicato dalla mirabile e mai abbastanza lodata casa editrice Racconti, confesso che mi ha colpito soprattutto il titolo geniale, Appunti da un bordello turco. Avrei da dire la mia sui bordelli turchi (e in effetti ci ho scritto su un racconto, Le principesse in fiamme, uscito nell'antologia di racconti erotici HOTtell), così ho comprato senza esitazioni questo libro di esordio dello scrittore irlandese Philip Ó Ceallaigh. Dico subito che ne sono stata conquistata: una corposa raccolta di racconti ambientati per lo più a Bucarest, di cui l'autore, che ci vive da una quindicina d'anni, dà un ritratto vivissimo.   

Si tratta di storie pessimiste e desolate ma assolutamente non deprimenti, anzi, piene di senso del comico e vivaci, dinamiche, piene di sorprese. Philip Ó Ceallaigh ha il dono di saper rappresentare la vita nei suoi aspetti più agghiaccianti, nel suo squallore, senza per questo spaventare il lettore né allontanarlo dalle sue pagine che scintillano d'intelligenza e umanità, né dalle sue parole che avvincono per la grandissima perizia narrativa. Il paradosso sottende sempre le vicissitudi dei personaggi che non cadono mai nel grottesco né nel patetico, e la noia non sfiora mai chi legge. Protagonista è sovente un maschio abbastanza giovane, nullafacente o quasi, con velleità di scrittura, dedito all'alcol, sensibile al fascino femminile e spesso immischiato in situazioni complicate. Altro personaggio importantissimo e ricorrente è il "palazzo", il falansterio, eredità del regime in cui il protagonista abita invariabilmente al decimo piano. Grande pregio è anche la scrittura essenziale, priva di compiacimenti e luoghi comuni, tutta concreta e insieme tesa a mettere continuamente in comunicazione l'esterno con l'interno del personaggio.

Così si comincia alla veloce con Taxi, in cui un tassista ciarliero capisce troppo tardi che ci sono volte in cui è meglio tacere, per passare subito a Nel quartiere, il più articolato e corale dei racconti, in cui gli abitanti del palazzo vanno per i loro affari. Giovani sconclusionati e vecchi volenterosi, inquilini in bolletta e amministratore altrettanto squattrinato, tutti imbozzolati nella solitudine di chi si vive fianco a fianco, isolati ma in mezzo agli altri, riescono a creare sprazzi di solidarietà, di spalleggiamento tra solitari. Filosofia, sesso variamente mercenario, felice mancanza di inibizioni e amore per la cultura greca fanno di Who let the Dogs Out? un divertentissimo spaccato di vita spregiudicata. Dolcezza, resoconto di un formale invito a cena nei ricchi sobborghi di Phoenix, Arizona, è un agghiacciante ritratto dell'american dream visto da chi lo ha realizzato. Gli incontri che costellano la strada del protagonista di Camminando verso il Danubio scatenano complesse reazioni, mescolando generosità, minaccia, paura e la stanchezza di affrontare la vita. Denti rotti è il terribile resoconto di come Radu, un rottame di uomo, riesce a autodistruggersi distruggendo la sua unica speranza, andarsene in Canada a cominciare una nuova vita. Del tutto privo di speranza è anche La mia vita d'artista, in cui si parla della vita senza senso, del lavoro senza senso, della fatica, della mancanza di sonno, della pura sopravvivenza degli immigrati illegali nel distretto di Columbia degli USA. 

Nel divertente La bestia, due vecchi amici scoprono un animale mai visto prima e tra di loro si scatena la competizione per il possesso della rarità. La soluzione è salomonica. Surreale Un'altra storia d'amore, mentre il minatore protagonista di Mentre affondo vede svanire le sue prospettive di  cambiare vita tra l'orrore della miniera e Bucarest, città spaventosa. Una performance è quasi insostenibile nella
descrizione di un'agghiacciante spettacolo teatrale e delle reazioni di pubblico, impresario e artista.

Brutta avventura per lo sconsiderato scrittore di Appunti da un bordello turco, ambientata in una città portuale sul Mar Nero che non può essere che Trebisonda, forse non fascinosa quanto il nome suggerirebbe ma con un fronte del porto vivacissimo e straripante di bordelli a vista. Filantropia è un racconto bellissimo e di desolazione totale, forse il mio preferito, in cui un misantropo si dà un gran da fare per aggiustare le cose che lo tormentano, girando per Bucarest e facendo incontri disparati, ma alla fine era più vecchio di un giorno e la città rimaneva la stessa. La Moldavia, la Transnistria e Atene costituiscono lo scenario di Riportare i fatti, in cui dominano apatia e nichilismo, mentre la gelosia pervade Una serata d'amore e in Delitto e castigo uno squinternato alcolizzato con ricca fidanzata americana, in preda a follia, vaneggiamento e delirio maschilista, parla troppo e ne paga il fio. A New York, la sfiga perseguita il disoccupato di La vita, la morte e i miei ultimi cinque dollari, e la difficoltà di capirsi e di capire pervadono A pesca e La ritirata da Mosca. Traduzione di Stefano Friani.  

giovedì 13 luglio 2017

Se volete scoprire un mondo sconosciuto: Ivo Andrić, Racconti di Bosnia

Ivo Andrić davanti al ponte sulla Drina a Višegrad
Io sono riconoscente a Ivo Andrić, Nobel 1961, non solo per la bellezza delle cose che ha scritto e che ho letto, ma perché Il ponte sulla Drina, in cui mi sono imbattuta a poco più di vent'anni, mi ha colpita, stregata, ammaliata, lasciata sbaccalita e con un intero mondo del tutto sconosciuto spalancato davanti agli occhi della mente. Ora, forse questi racconti non sono proprio straordinari come il romanzo citato, ma sono comunque molto, molto interessanti. Con un gravissimo difetto: io li ho trovati in un'edizione economica Newton del 1995 su una bancarella, e cercandoli poi sul web in vista della recensione, non li ho trovati da nessuna parte, di sicuro non in formato digitale. Per cui, se vi viene voglia di leggerli, tenete gli occhi aperti che ormai i banchetti di libri usati si trovano dovunque. E comunque se trovate un titolo di Andrić non fatevelo scappare,vale la pena scoprirlo se non lo conoscete ancora. 

Questi dodici Racconti di Bosnia si svolgono a Travnik, Sarajevo, Višegrad e dintorni, e parlano di un paese selvaggio, montuoso, povero, abitato da gente selvaggia e abituata a soffrire, attraversato e vessato da padroni e eserciti selvaggi e crudeli. Le storie vertono su lotte tra individui che facilmente, si intuisce, diventeranno lotte fratricide tra popoli che vivono insieme ma sono separati da tutto. I padroni turchi sono lontani ma la loro longa manus è fatta di generali polacchi islamizzati, funzionari rapiti da bambini e educati a Istanbul, inviati dalla capitale come in un esilio, soldati stanchi, mentre gli indigeni sono mercanti, strozzini, banditi, schiavi, donne senza voce. Una voce importante è quella della piazza, che commenta e sostituisce l'azione degli abitanti paralizzati da paura, abitudine, rassegnazione. Un mondo affascinante perché estremamente complesso e lontano, esotico persino, che qualche anno fa si è dilaniato sotto i nostri occhi distratti e sconcertati. Leggere queste storie può aiutarci a posteriori a capire qualcosa in più.

Farà piangere gli animalisti La storia dell'elefante del visir, ma non può non incantare con la sua polifonia di personaggi che ritraggono una città vessata da un visir crudele e ottuso, dove la comparsa di un vivace elefantino è la goccia che fa traboccare il vaso. Un anno inquieto è dominato dalla figura grandiosa del ricco padron Jevrem, la cui unica, tardiva debolezza lo rende vulnerabile alla prepotenza del crudele comandante Alibeg. Il tragico amore tra un nobile croato e una bella ragazza ebrea è raccontato in L'amore nel villaggio i cui abitanti non conoscevano l'allegria. Poi ci sono i racconti di fra Petar, monaco vecchissimo ma pieno di ricordi mirabolanti da condividere (La coppa, Il tronco), il crudele comandante Zivan, la sua sventurata moglie e il feroce brigante Lazar (La sete), le ragazze pietose (Il serpente) e l'infelicissima madre Kata (Miracolo a Olovo), e i ponti: Il ponte sulla Zepa, storia della costruzione del meraviglioso ponte progettato da un architetto italiano per ordine del gran visir Jusuf in un momento di nostalgia per il villaggio della Bosnia in cui era nato e da cui era stato rapito bambino per farne un obbediente servitore dei turchi, e I ponti, incantevole inno alla natura quasi magica, alla funzione e alla sacralità dei ponti.

In realtà questi racconti formano un grande, fascinosissimo affresco di un mondo scomparso già ai
Il ponte di Mostar
tempi
Ivo Andrić, che balza vivido e pieno di senso e di umanità dalle sue pagine. Ripeto il mio consiglio spassionato: cercatelo, cercatelo, sulle bancarelle o nei negozi polverosi in cui le pagine cartacee non più indispensabili trasmigrano e dolcemente si spengono. Cercatelo in rete, dove almeno Il ponte sulla Drina si trova facilmente in cartaceo (e forse anche in pdf). Insomma, la Bosnia è vicina, e dopo avere letto i Racconti di Bosnia vi verrà voglia di correre a visitarla. Io ho già la nostalgia.  

 

sabato 8 luglio 2017

Una bella lettera di Giuseppe Giordano, autore di "Santa Ilde di Porta Palazzo", a proposito di "Gli anni al sole"

Giuseppe Giordano, autore di Santa Ilde di Porta Palazzo, mi ha mandato una bella lettera a proposito di Gli anni al sole che voglio condividere


Per  CONSOLATA  LANZA

Come vedi, sono arrivato fino a pag. 249.
Prima di tutto, complimenti!
E adesso, se posso permettermi, un mio commento.
È, però, un commento non da specialista. Non sono un critico letterario, non ne ho le capacità, è quindi il mio commento è tutto d’istinto, di testa, e anche di cuore.
Confesso che nella prima parte di lettura mi ero un po’ perso, e anche spaventato. Di fronte a ‘misteriose donne velate’, ‘confessioni in punto di morte’, ‘parenti perduti e poi ritrovati’, ‘documenti di famiglia che appaiono e ricompaiono’, e compagnia bella, ho visto aleggiare le grandi ombre di Balzac, Flaubert, Dickens ecc. e ho avuto paura.
Poi, all’improvviso, ecco che tu mi ha teso una trappola e io ci sono cascato: laddove citi il primo verso, in greco, dell’Iliade che, una volta, obbligavano a mandare a memoria.
Ti giuro, erano più di cinquant’anni che quel verso era sepolto in qualche strato profondo della mia memoria e, di colpo, mi sono trovato a scorrere le righe del tuo romanzo mormorando quelle vecchie parole: Menin aeide thea… ecc. ecc.
Da quel punto in poi, la lettura è stata più che scorrevole, piacevole, e posso dirlo?, divertente.
Svanite quelle pesanti ombre, tuffato nell’azzurro cobalto (come la copertina) di Chios, la musica è cambiata.
E, quindi, tra i pasti, le cene, i giardini, la campagna e il mare, ho cominciato a sentire in sottofondo arie rossiniane (‘L’Italiana in Algeri’), e perché no?, anche mozartiane.
E qui mi viene in mente la scena in cui sulla piccola isola di Inusses si spande la falsa notizia dell’imminente terremoto e tutti gli abitanti scappano alle barche lasciando sull’isola soli soletti Alain e Markela.
Tutta la scena è da Opera Buffa rossiniana: al posto dell’isola ho percepito soltanto un fondale dipinto, sembra di sentire il coro che canta: ‘Alle barche! Alle barche!’, un crescendo rossiniano che poi cala pian piano, mentre le barche s’allontanano; poi, i violini riattaccano quando appare Markela, tutta stordita di sonno e di libidine.
Esotismo lirico ed esotismo pittorico.
E, così, pagina dietro pagina, mi son venuti in mente Ingres, Delacroix, Bagno Turco, Donne di Algeri, le odalische, tutto l’Oriente delle ‘Turcherie’, i romanzi di Thrasso Castanakis.
E a proposito di Castanakis, la scena delle 6 coppie (+ 1 spaiato) di reclusi omosessuali sulla panca della cella l’ho trovata esilarante oltremodo e m’ha fatto venire in mente un altro romanzo (ricordo solo il titolo: Portiere di Notte, l’autore ci vinse il Premio Formentor nel 1968, altri tempi!). Trama semplice: un uomo e una donna vivono avventure esotiche e paradossali, ma tutto come strisce di fumetti, tipo Pentothal di Paz.
Una di queste strisce è ambientata a Smirne, in un locale-bordello (stile Totò le Mokò), dove c’è una certa panca con efebi in attesa di ricchi commercianti.
E verso il finale il divertimento è stato ancora più intenso.
L’arrivo nel porto di Chios del grande yacht olandese Freya è stato proprio un gran finale mozartiano (‘Il Ratto dal Serraglio’), non solo perché il tuo finale (come quello mozartiano) non è da ‘E tutti vissero felici e contenti…).
Infatti, m’è sembrato che l’esperienza per l’Amore del tuo IO Narrante sia piuttosto un conflitto tra vita vissuta e regole che ci sovrastano.
O meglio, un incontro-scontro tra ciò che nella vita è possibile e ciò che è probabile. Cioè, una ricerca di equilibrio fra questi due poli. In fondo, è ciò che fa Mr Roland alla fine, come già fa Selim Pascià nel finale mozartiano, permettendo agli amanti di lasciare il Serraglio.
Questo mi ha suggerito la tua cabaletta finale: ‘Maledetta Eva e la sua mela e benedetto il loro dolce seno…’
Nel finale del tuo romanzo si ritrova un gustoso connubio di Opera Buffa e Commedia dell’Arte. Nelle ultime pagine, infatti, dentro quella limpidezza sensuale, quasi uno sfondo di acquerelli
veneziani (o goldoniani), non c’è la presenza di un arlecchino, quanto piuttosto l’invito, sotteso ma intrigante, a saltare nel tempo, a saltare ai nostri giorni. E, quindi, la riflessione su com’era un certo Oriente e com’è diventato ai nostri giorni.
Mi si può accusare di non aver saputo cogliere il sociale, il politico, l’ideologico (inglesi, francesi, turchi, greci, i padroni del mondo e i proletari del mondo eccetera eccetera). Ma io ho gustato (passami ancora il termine) il tuo lavoro proprio come un’Opera Buffa, un film d’avventura, una fiction televisiva a puntate.
E, qui, sarebbe da fare una riflessione ancora più articolata. Fossi un produttore televisivo ti comprerei i diritti d’obbligo per un lavoro sul piccolo schermo.
Ma non vado oltre. L’argomento è molto attuale e controverso e merita tempo, disponibilità, ricerca.
Spero che al prossimo nostro incontro sia possibile riparlarne.   
 
                                                                                                   Giuseppe Giordano

P.S.:
Ultima riflessione: la stampa, la carta, i caratteri, la copertina è tutto OK, un vero piacere per la vista.
  

domenica 2 luglio 2017

Un libro che lascia il segno: Giuseppe Giordano, Santa Ilde di Porta Palazzo

Si sa che la vita a volte, bontà sua, attraverso percorsi insoliti ci riserva sorprese veramente piacevoli. E questa volta è stata la congiunzione di curiosità (dell'autore) e cortesia (dell'autore e dell'editore Enrico Cavallito di Impremix Edizioni) che mi ha portato alla scoperta di Santa Ilde di Porta Palazzo di Giuseppe Giordano.

Dico subito che si tratta di un romanzo davvero fuori dall'ordinario. La storia di Ilde, trans sui generis, si svolge a Torino, a Porta Palazzo e dintorni. Ilde è giovane, bella, sola e vulnerabile, in un mondo difficile e cattivo. Sa muoversi ma le difficoltà sono davvero tante, in un pullulare di personaggi straordinari. Per fortuna c'è l'amore, non solo quello mercenario (che può servire nei momenti di necessità) ma l'amore vero, a volte solo sognato a volte concreto e salvifico. Il valore aggiunto, ciò che trasforma quella che potrebbe essere solo una storia a forti tinte, patetica, quasi cristologica, in uno straordinario pezzo di bravura è la scrittura sincopata, spezzettata, spesso modellata sulla stringatezza degli sms, e la sterminata capacità immaginativa e creativa, ricca di neologismi e libera da qualsiasi vincolo strutturale. In un crescendo esuberante, frenetico, direi incontenibile, di inventiva linguistica, la storia corre con Ilde tra violenza paradossale, masochismo, sesso come sopraffazione e umiliazione, in uno slalom continuo nei rapporti molto complessi tra i personaggi, fino all'ironica logicità della conclusione. Giuseppe Giordano ha un'incredibile capacità d'immedesimazione nei processi mentali più diversi, dalle trans alle maman africane che praticano il vudù e venerano la dea Yurugu, dai tossici alle donne delle pulizie, dalla zingara ai criminali di ogni nazionalità, e sono solo esempi. 

Santa Ilde di Porta Palazzo è un romanzo intensamente nuovo e insieme spontaneo, più che naturale nell'effetto. Non sto dicendo che è un libro facile, sto dicendo che è un libro bello e fuori dall'ordinario, che unisce l'interesse dell'ambientazione alla sperimentazione linguistica e strutturale, all'umanità dei personaggi e alla straordinaria conoscenza di una Torino esotica e sotterranea, in cui leggi e regole sono stravolte, e la vita è un rischio pieno di sorprese. Non si può che concordare con l'osservazione dell'editore nella nota introduttiva, Giuseppe Giordano è un autore sicuramente sopra la media e in tempi e luoghi più giusti e sensati avrebbe fama (almeno) nazionale.