Lo scrittore e l’arcangelo Gabriele
“Questo
libro” disse lo scrittore Sebastiano Orlandi al sussiegoso intervistatore che
gli agitava contro una matita appuntita “è la rappresentazione di una vicenda
immaginaria ma possibile in un mondo impossibile ma reale, o, se vuole, di una
vicenda realmente accaduta in un altro mondo”.
“Ah,
vuole dire che si è ispirato alla realtà per metterne in evidenza l’impossibilità?”
“In
un certo senso, questa è proprio l’operazione che ho fatto. In ogni caso, la
realtà è sempre irreale, come d’altra parte, nulla è impossibile nel reale, non
è vero?” Scoccò un sorriso accattivante alla telecamera. “Purtroppo, di questo
libro non si può parlare con chi non lo ha letto, è difficile non banalizzarne
il contenuto spiegandolo”.
Dalla
cabina di regia segnalarono che stava per partire la sigla. Il giornalista lo
ringraziò della partecipazione al programma e dette appuntamento ai
telespettatori per la puntata successiva.
Uscendo dagli studi televisivi, Sebastiano si rallegrò di non aver preso la macchina, perché era una bellissima serata e avrebbe potuto tornare a casa a piedi, guardando le vetrine del centro e godendo della sensazione di partecipare alla vita della città. Guardava soprattutto le vetrine dei librai, per vedere se esponevano il suo romanzo, il quinto ormai. Ne era particolarmente fiero. Le critiche erano state tutte positive, se ne era parlato molto come di uno dei libri più interessanti degli ultimi sei mesi, erano già in corso parecchie traduzioni. Lui era convinto che lo meritasse, sentiva di averci messo cose che gli stavano a cuore da anni e che fino a quel momento non avevano trovato l’espressione adatta. Adesso la cattedrale di parole costruita con fatica e entusiasmo era lì, esposta in tutte le vetrine, con la sua bella copertina blu scuro e oro, senza fronzoli, solo il nome dell’autore e il titolo, ‘La voce dell’angelo’. Nella dolce serata di fine maggio il suo cuore esultava a vedere che la gente entrava in libreria, pronta a spendere trentamila lire per sapere quale fosse il messaggio portato dalla voce angelica.
Ridacchiava
tra sé al pensiero di qualche passo particolarmente riuscito, sicuro che
sarebbe piaciuto ai lettori, perché era così bello e significativo che nessuno
poteva leggerlo senza rimanere colpito. La storia, insieme semplice e
complicata, coinvolgeva esseri umani e soprannaturali in una ricerca delle
stesse risposte introvabili. Un’opera, modestia a parte, geniale.
A casa Elena, sua moglie, lo aspettava per cenare.
“Sei
in ritardo, stavo per cominciare da sola. I bambini hanno già mangiato, stanno
guardando la televisione nella loro stanza”.
La
baciò su una guancia e si tolse la giacca. Provava sovente insofferenza verso
di lei, ma la soffocava perché in quel momento, tutto proiettato su altri interessi,
non poteva nemmeno pensare di rimettere in discussione qualcosa della sua vita
privata. A tavola si dilungò sulla trasmissione televisiva. Elena non parlava
mai del proprio lavoro, si faceva un dovere di dimostrarsi interessata al suo,
ma forse sotto sotto covava dei rancori. Lui non si sforzò di fare domande a
sua volta. Salutò i bambini dalla porta e andò a dormire presto con un paio di
riviste che parlavano del suo libro. Dormì bene, fece dei sogni gradevoli.
La mattina dopo non aveva impegni, andò dal barbiere e si fece fare anche una manicure. Al ritorno la segreteria telefonica gli comunicò che l’editore l’aveva chiamato.
“Hai
visto il programma ieri sera, Edoardo?” gli chiese quando finalmente riuscì a
raggiungerlo al telefono. Gli dava ancora un brivido di soddisfazione chiamarlo
per nome, da poco tempo era stato ammesso nel circolo ristretto degli amici
personali. “Non ho esagerato nelle fumoserie? Quel Piras mi dà sui nervi. Forse
mi sono lasciato un po’ prendere la mano, ma non reggo la sua prosopopea”.
“L’ho
fatto registrare, appena ho un attimo di tempo lo guardo. Spero che tu non
abbia irritato Piras, è potente e vendicativo e non gli piace essere preso in
giro”.
Il
tono era un po’ seccato. Preoccupato di avere fatto un passo falso, si affrettò
a cambiare discorso.
“Perché
mi volevi parlare?”
L’editore
parve esitare.
“Hai
ricevuto qualche lettera, o telefonata, diciamo così... strana, negli ultimi
giorni?”
“Strana?”
Sebastiano era interdetto. “Che cosa intendi per strana?”
La
voce dall’altra parte dell’apparecchio era sempre più esitante.
“Non
vorrei farti preoccupare, ma oggi mi è arrivata una lettera minatoria in cui un
certo ‘Gruppo d’azione per il ripristino della moralità’ ti accusa di blasfemia
e sabotaggio della morale per le tesi che sostieni nel romanzo, in particolare
per alcune frasi che l’angelo pronuncia nel capitolo nove e nel capitolo sedici”.
Sebastiano,
fino a quel momento in piedi accanto alla scrivania, si sedette di schianto
nella poltrona girevole. Scoppiò in una risata.
“In
che cosa consistono le minacce? Mi vogliono far fare un bagno nell’acqua santa?”
“Minacciano
di ucciderti se non farai una pubblica ammenda. Anche di fare attentati alla
casa editrice, a tutte le librerie che esporranno il tuo libro. Sono contento
che tu la prenda così. Avevo paura che ti spaventassi, avessi qualche reazione
isterica. Se la cosa ti fa ridere, benissimo. Penso che potremo sfruttare
questo fatto pubblicitariamente, se sei disposto a collaborare. Telefono subito
a Vannucci del ‘Giornale d’informazione’, e domani mattina ci troveremo un bell’articolo.
Tu intanto fai attenzione alla posta e alle telefonate. Informami se ci sono
delle novità”.
A pranzo non c’erano né Elena né i bambini. Mangiare da solo gli piaceva, si riscaldò un piatto di spezzatino avanzato che mangiò guardando il telegiornale. Dopo pranzo si sedette in poltrona con un giornale. Era completamente immerso nella lettura quando il telefono squillò.
“Lo
scrittore Sebastiano Orlandi?” disse una voce femminile con un leggero accento
settentrionale. Sembrava una ragazza giovane, quasi adolescente, ma il tono era
determinato. “Sono un portavoce del ‘Gruppo d’azione per il ripristino della
moralità’. Penso che abbia già parlato con l’editore Edoardo Mostaccio e sia
stato messo al corrente del nostro comunicato. Comunque, le ripeto il
contenuto: lei deve immediatamente far ritirare il suo libro ‘La voce dell’angelo’,
fare una pubblica autocritica delle sue parole bugiarde e offensive, se no la
giusta punizione per il suo orgoglio la colpirà senza possibilità di scampo”.
Riattaccò
senza aspettare risposta. Sebastiano si trovò in mano il ricevitore muto.
Rimase perplesso a guardare fuori dalla finestra. Stava per scoppiare un
temporale, il cielo era diventato nero, nella piazza sotto casa sua si vedeva
la gente correre spinta dalle raffiche per sfuggire alle prime gocce che
cominciavano a spiaccicarsi con violenza sull’asfalto caldo. Si alzò per
chiudere la finestra e rimase in piedi dietro ai vetri fino a quando la pioggia
si riversò furiosa nella piazza.
Il pomeriggio trascorse lento tra qualche tentativo di lavorare a un articolo che doveva consegnare entro due giorni e lunghe pause passate a meditare guardando dalla finestra. L’acquazzone era terminato, il sole splendeva di nuovo benigno sul selciato pulito e sui passanti che attraversavano con calma la piazza intasata di macchine e autobus. Non riusciva a concentrarsi, alla fine strappò tutto quello che aveva scritto. Quando Elena tornò con i bambini si sforzò di apparire di umore normale, chiacchierò con loro davanti a un pollo comprato in rosticceria. I bambini erano garruli, Elena nervosa. Sebastiano aveva una mezza idea di parlarle della telefonata, poi cambiò idea e si mise a guardare un dibattito sull’immigrazione illegale alla televisione. Elena fece una telefonata di ore. Era già addormentata quando lui la raggiunse a letto.
Il pomeriggio trascorse lento tra qualche tentativo di lavorare a un articolo che doveva consegnare entro due giorni e lunghe pause passate a meditare guardando dalla finestra. L’acquazzone era terminato, il sole splendeva di nuovo benigno sul selciato pulito e sui passanti che attraversavano con calma la piazza intasata di macchine e autobus. Non riusciva a concentrarsi, alla fine strappò tutto quello che aveva scritto. Quando Elena tornò con i bambini si sforzò di apparire di umore normale, chiacchierò con loro davanti a un pollo comprato in rosticceria. I bambini erano garruli, Elena nervosa. Sebastiano aveva una mezza idea di parlarle della telefonata, poi cambiò idea e si mise a guardare un dibattito sull’immigrazione illegale alla televisione. Elena fece una telefonata di ore. Era già addormentata quando lui la raggiunse a letto.
Il ‘Giornale d’informazione’ del giorno dopo taceva sull’argomento. Sebastiano telefonò a
Mostaccio, ma non era in ufficio e nessuno sapeva dove trovarlo. Solo l’indomani riuscì a parlargli. Sembrava molto preoccupato.
“Anch’io
ho ricevuto una telefonata. Richiamo subito Vannucci. Non c’è nessun pericolo
reale, è ovvio, ma è meglio dare pubblicità alla cosa”.
Sebastiano
doveva finire l’articolo a tutti i costi. Si chiuse nello studio proibendo a
Elena e ai bambini di disturbarlo. Ne riemerse più tranquillo, disposto a
dedicare la sua attenzione alla famiglia. Andò a dormire presto, e sognò sogni
affannati.
Finalmente
l’articolo era sulla pagina della cronaca, con una sua fotografia sorridente
accanto a un’attrice americana, che risaliva a qualche anno prima e lo faceva
più bello che in realtà. Non era un grosso articolo, ma la fotografia lo
rendeva cospicuo. Sebastiano non si era ricordato di avvertire Elena, così
quando a metà mattinata lei gli telefonò dall’ufficio agitatissima si sentì
subito in colpa e le rispose più bruscamente di quanto avrebbe voluto.
Minimizzò, le fece intendere che si trattava di una manovra pubblicitaria. Alla
fine Elena era traquillizzata, ma in compenso lui dovette uscire a fare due
passi per calmarsi.
Camminando nelle strade poco affollate del quartiere residenziale, prese scrutare i volti delle persone che incrociava. Nella piazza sotto casa sua c’era una grande cartolibreria dove il suo libro aveva occupato per settimane la posizione d’onore. Di solito lanciava un’occhiata compiaciuta ogni volta che passava davanti, ma quella mattina volse il viso dall’altra parte. Immaginò un attentato al negozio: un gran boato, la vetrina sventrata, i commessi che uscivano urlando, sanguinanti, accecati dalle schegge, qualche corpo abbandonato in terra tra il fumo e i detriti, le sirene delle ambulanze e della polizia, la gente che faceva ressa sul marciapiede e poi tutti che si voltavano verso le finestre del suo appartamento in silenzio, un’espressione di rimprovero su centinaia di volti, dita tese a indicare i corpi sul pavimento e lui lì sul balcone, in piena vista, nudo, colpevole, assassino...
Per
strapparsi a quella fantasia entrò in un bar. Mentre sorseggiava un succo di
pomodoro al bancone il suo sguardo incrociò casualmente nello specchio quello
di una ragazza seduta a un tavolino. Non finì di bere e pagò in fretta. Prima
di uscire le gettò ancora un’occhiata che lei ricambiò fissandolo dritto negli
occhi.
A
casa lo aspettava una brutta sorpresa. La porta d’entrata era forzata, l’appartamento
un caos, il contenuto di cassetti e armadi gettato a terra, le librerie
rovesciate, molti soprammobili rotti, persino l’imbottitura di poltrone e
divani sventrata. Solo il suo studio non era stato toccato, ma sulla scrivania
c’era una copia del suo libro, bruciata e ancora calda, le pagine completamente
divorate dal fuoco, la copertina quasi intatta. Accanto, una grande busta gialla
senza intestazione. Ne trasse un messaggio composto con ritagli di quotidiani: ‘Questo
è solo l’inizio per dimostrarti che facciamo sul serio. Sei ancora in tempo per
fare come ti abbiamo detto, ma fai in fretta’.
Telefonò
al pronto intervento dei carabinieri, poi avvisò il portinaio che arrivò
trafelato. Né lui né i vicini avevano visto niente di insolito. Mentre
aspettava controllò se era stato rubato qualcosa. Non mancava nulla, ma i danni
erano ingenti. Ai carabinieri dovette raccontare del messaggio sulla scrivania
e anche di quelli precedenti, perché dopo l’articolo della mattina non poteva
più evitarlo.
Sul
più bello i bambini tornarono da scuola e subito dopo rientrò Elena. La
situazione si fece caotica. Solo nel pomeriggio, con gli sforzi uniti di tutta
la famiglia, si riuscì a rimettere un po’ di ordine, ma i divani e le poltrone
sfondati, le pareti macchiate, i vetri dei quadri rotti davano alla casa un’aria
desolata. Arrivarono un paio di giornalisti e Sebastiano dovette rispondere
alle loro domande. Cercò di avvisare l’editore, ma non lo trovò. Stanchissimi,
cenarono in pizzeria. I bambini erano molto eccitati per l’avventura, per
niente preoccupati né dispiaciuti delle distruzioni che non avevano risparmiato
nemmeno la loro stanza. Elena, spaventata, aveva l’aria di pensare che la colpa
era tutta di Sebastiano, il quale per parte sua prese un sonnifero e finse di
addormentarsi nel momento stesso in cui posò la testa sul cuscino.
Il risveglio non fu piacevole per nessuno, ma i bambini se ne andarono a scuola contenti di avere qualcosa da raccontare ai compagni e ai genitori rimase da affrontare la squallida realtà del giorno dopo. Elena decise di andare a lavorare, Sebastiano restò a attendere il fabbro, il tappezziere e il decoratore. La mattina passò a rimediare i danni, in una ridda di telefonate e interviste. A mezzogiorno uscì a mangiare un panino al bar. Di nuovo incontrò lo sguardo scuro e intenso della ragazza del giorno prima, seduta a un tavolino davanti a una bottiglia di acqua minerale. Per un attimo pensò di affrontarla, chiederle chi fosse, ma poi ingoiò in fretta il panino e tornò a casa per riprendere il lavoro.
La
stampa si allertò in massa, Sebastiano fu assediato per qualche giorno dai
giornalisti. Le vendite del libro salirono alle stelle, la prima edizione andò
esaurita. Dopo una settimana di quella vita, Elena prese i figli e si trasferì
dalla madre che aveva una casa grande e tranquilla.
“Non
possiamo far vivere i bambini in mezzo a questa confusione, e poi ho paura. Tra
un po’ di tempo, con calma, decideremo il da farsi”.
Non
gli propose di trasferirsi anche lui. Sebastiano non protestò, era d’accordo
sul fatto che l’atmosfera non era adatta per i bambini. Non gli dispiacque
rimanere solo. La prima sera andò a cena dalla suocera, poi si limitò a fare
una visita veloce di tanto in tanto. I bambini gli mancavano, ma nello stesso
tempo era un sollievo sentirsi intorno il silenzio e la calma.
Per qualche giorno non successe nulla. C’era una gazzella dei carabinieri parcheggiata in permanenza sotto casa sua, e non giunsero altri messaggi. Sebastiano si aggirava per la casa irrequieto, lavorava un po’, passava delle mezze ore sul balcone a guardare giù nella piazza il traffico e i pedoni. Cominciava a dimenticare i motivi della partenza di Elena e dei bambini, ma continuava a non desiderarne il ritorno. L’editore, tranquillo perché nulla era successo nella casa editrice né nelle librerie, era incline a minimizzare il pericolo.
“Si
saranno spaventati delle reazioni della stampa” disse in una delle numerose
telefonate. “I carabinieri stanno indagando nell’ambiente dei gruppi politici
estremisti, certamente per un po’ non possono agire. Probabilmente, anzi, è
tutto finito, hanno fatto il massimo che potevano fare, e solo perché ti hanno
colto impreparato. Adesso non osano più fare nessuna mossa”.
Sebastiano
era d’accordo.
Una domenica mattina, mentre si stava preparando a andare a pranzo dalla suocera, il telefono squillò. Al suo ‘pronto’ rispose una voce maschile giovane, con marcato accento lombardo.
“Caro
Sebastiano, non hai proprio intenzione di pentirti, eh? Ho visto che è uscita
la seconda edizione di quella porcheria che chiami romanzo. E’ un vero insulto
al buon senso e alla nostra pazienza. Mi spiace dirti che siamo costretti a
mantenere le promesse. Parlo a nome del ‘Gruppo d’azione per il ripristino
della moralità’, naturalmente”.
Il
messaggio terminò con una risatina amichevole. Sebastiano rimase con la
cornetta in mano, sorpreso e incredulo.
La
gloriosa giornata primaverile trascorse serena tra il pranzo festivo e una
passeggiata. La sera andarono tutti a mangiare una pizza. Il rientro nell’appartamento
vuoto fu un sollievo, tutto era ordinato e silenzioso. Non aveva detto niente
ai familiari della telefonata del mattino, né l’aveva comunicata ai
carabinieri, non sapeva perché.
Però
c’era qualcosa di stonato che non riusciva a individuare. Si accorse all’improvviso
di una lama di luce che filtrava sotto alla porta dello studio. Per un attimo
pensò di andare a chiedere aiuto ai vicini, poi si vergognò all’idea che
probabilmente aveva lasciato la luce accesa la sera prima. Aprì la porta e
rimase sulla soglia fermo come un sasso.
Seduto sulla sua poltrona, dietro alla sua scrivania, intento a smanettare sul suo computer c’era uno sconosciuto, un giovanotto muscoloso dal collo bianco e tondo che usciva dal colletto di una camicia azzurra, con una gran testa di riccioli biondi che alla luce della lampada a braccio apparivano circonfusi da un alone luminoso. Il giovanotto alzò gli occhi dallo schermo e gli scoccò un sorriso smagliante, mostrando una dentatura invidiabile per candore e regolarità.
“Salve,
Sebastiano,” disse con voce calda e profonda, perfettamente impostata, priva di
inflessioni dialettali, “stavo dando un’occhiata alle tue ultime fatiche. Gran
bel lavoro, veramente. Devo ammettere che sai fare il tuo mestiere. E’ proprio
un peccato che ogni tanto tu ti lasci andare a... diciamo, scrivere delle
sciocchezze che non ti fanno onore”.
Sebastiano
non trovò niente da dire. Il sorriso del biondo era così contagioso e aperto
che quasi sorrise anche lui. Dovette fare uno sforzo per trovare un tono
arrabbiato.
“Che
cosa significa questa intrusione? Chi è lei? Che cosa fa nel mio studio, nella
mia casa, perché spia nel mio computer?”
Ma
in un certo senso la sua rabbia era finta, si sentiva stupido davanti a quel
ragazzone bianco e roseo dall’espressione onesta e amichevole.
“Chi
è lei?” ripeté, timido.
Il
giovanotto scosse il capo. I riccioli lucenti gli ondeggiarono sul collo. Fissò
Sebastiano con un intenso sguardo azzurro, senza più sorridere.
“Sono
un tuo amico, sono quell’angelo di cui nel tuo romanzo parli come se lo
conoscessi bene. Sono Gabriele”.
Tutta
la timidezza di Sebastiano sparì. Si avvicinò bellicoso. La rabbia lo faceva
balbettare.
“Le
do la scelta, o se ne va subito con le buone o chiamo la polizia”.
Non
se la sentiva di fare minacce più precise perché, anche da seduto, il tizio
sembrava avere una stazza più da pugile che da angelo.
“E
dica ai suoi amici del ‘Gruppo d’azione per il ripristino della moralità’ che
ne ho abbastanza delle vostre mafiosate. Rischiate grosso a farvi vedere ancora
da queste parti. La casa è sorvegliata, non so proprio come farà a uscire senza
incappare nei carabinieri”.
Si
rendeva conto che le sue parole erano inadeguate, sembravano più il lamento di
un bambino che ha subito una prepotenza che la legittima protesta del cittadino
vittima di un sopruso. Per un attimo tremendo ebbe paura di mettersi a
piangere.
“Non
crederai mica che io abbia bisogno di passare per la porta d’ingresso! Non si è
arcangeli per niente, no?” Fece un sorriso un po’ fatuo e un po’ modesto. “Figurati
se ho a che fare con le iniziative di quei ragazzacci! Sono animati da buone
intenzioni, devo ammettere che ci rendono qualche servizio, ma i loro metodi
non riesco a mandarli giù. D’altra parte, fanno tante minacce, la voce grossa,
ma i fatti sono modesti, devi ammetterlo. Un po’ di disordine, qualche quadro
rotto, non mi dirai che te la sei presa per così poco? Poi non ho visto
risultati della loro piccola spedizione. Il tuo brutto libro è ancora in tutte
le vetrine e tu non mi sembri affatto pentito”.
Non
sorrideva più, gli occhi azzurri non erano più profondi, solo freddi e severi
come la voce.
Lì
per lì si sentì in colpa, poi si scosse, soffocato dalla rabbia.
“Fila
via brutto untuoso ladro d’appartamenti! Con che becco entri in casa mia mentre
non ci sono, ficchi il naso nelle mie cose e ti permetti di dare giudizi sui
miei libri? Fila via! Fila via!”
Si
rendeva conto che dalla rabbia stava passando all’isteria mentre il suo
interlocutore era calmissimo nella sua poltrona, il gomito destro appoggiato
con grazia a un bracciolo, la guancia sulla mano. E lo guardava, serio, una
smorfia d’indulgenza appena abbozzata sulle labbra carnose, senza battere le
palpebre. Sembrava rattristato.
“So
che non intendi veramente le brutte cose che dici, Sebastiano, ma mi dispiace
vedere che proprio non vuoi diventare ragionevole. Io volevo solo darti una
mano, darti la possibilità di toglierti da quest’impiccio di modo che i ragazzi
del Gruppo potessero smettere con i loro scherzetti, però tu sei proprio
testone. Non so più che cosa dirti”.
Incrociò
le braccia con aria definitiva.
“Ma
che cosa mi ha detto finora?” Sebastiano tornò al lei per non instaurare una
familiarità che potesse diminuire la sua ostilità. “Non ho sentito una sola
parola sensata, un motivo per cui dovrei pentirmi né di che cosa dovrei
pentirmi né un qualsiasi argomento che meriti questo nome, solo parole vuote,
minacce velate, stupide ciance... Che cosa vuole da me, insomma?”
Il
sedicente Gabriele agitò di nuovo i riccioli lucenti sorridendo amichevole.
“Voglio
che tu faccia ritirare quel cumulo di blasfemie che hai scritto, che tu prometta
che non scriverai mai più cose simili, che tu faccia pubblica ammenda su tutti
i giornali e alla televisione, ammettendo che le cose che hai scritto sono solo
indecenti e stupide bugie, che ti vergogni di essere arrivato a un tale livello
di indegnità”.
Sebastiano
rimase a bocca aperta. Il giovanotto sembrava essere ancora cresciuto di
statura e dimensioni, i suoi occhi sfavillavano, sul viso aveva un’espressione
dura che trasformava in una maschera immobile i suoi tratti fin troppo
belli.
“Lei
è completamente matto. La prego di andarsene subito, o dovrò veramente chiamare
la polizia. A proposito, come ha fatto a entrare senza forzare la serratura?”
“Esattamente
come farò a uscire” rispose l’altro.
Spiegato
un paio di ali immense e scintillanti si avvicinò alla finestra che si spalancò
e volò via nella notte con un fruscio.
Sebastiano andò a dormire immediatamente con un sonnifero. La mattina dopo fu svegliato verso le sette da una telefonata dei carabinieri.
“Abbiamo
preso due ragazzi che stavano per dare fuoco alla libreria Vettori nel Corso.”
Le parole lo raggiungevano appena attraverso la nebbia del dormiveglia. “Avevano
versato una tanica di benzina sulla porta e sulle vetrine e stavano per
accenderla. Le spiace venire al commissariato?”
Si
lavò e si vestì in stato di semincoscienza. Arrivò al commissariato trafelato,
senza cravatta, non c’era tempo per la cura che dedicava solitamente alla sua
immagine. Si trovò di fronte due giovanissimi studenti che avevano tagliato la
scuola per combinare un guaio più grosso di quello che potevano immaginare, e
cercavano di nascondere la paura mostrandosi sprezzanti.
Il
maresciallo che li aveva interrogati, irritato, lo accolse con un grugnito.
“Mai
visto simili teste quadre. Dicono che volevano fare uno scherzo, che non sanno
niente né di lei né del suo libro, che non sanno perché l’hanno fatto. E poi
sono minorenni, non possiamo trattenerli”.
“Allora
perché mi ha fatto venire fin qui di corsa?”
Anche
Sebastiano era irritato.
“Volevo
sapere se per caso li conosceva”.
Non
li aveva mai visti.
A casa, sedette al computer infuriato. Compose un veemente articolo contro l’intolleranza e l’integralismo religioso, rivendicando il suo diritto a scrivere quello che voleva finché le sue parole non nuocevano a nessuno e rispecchiavano il suo pensiero. Invitò i lettori e i suoi misteriosi nemici a entrare con un po’ di elasticità mentale nella metafora letteraria. Ribadì la ferma volontà di non ritirare affatto il romanzo, confermando la sua totale adesione al contenuto e alla forma di quello che aveva scritto. Portò immediatamente l’articolo al ‘Giornale d’informazione’, che lo pubblicò il giorno successivo con la dicitura ‘riceviamo e volentieri pubblichiamo’. Solo allora si ricordò di non avere consultato l’editore.
Intanto
cominciarono a arrivare segnalazioni di incendi in varie librerie, ma gli
autori si erano fatti più abili, non si facevano più pescare. La casa editrice
era in stato di allerta, Mostaccio aveva preso delle misure eccezionali per la
sorveglianza degli uffici. La tipografia minacciava di rompere il contratto, i
carabinieri facevano capire che ne avevano abbastanza di registrare denunce
contro ignoti, non vedendo il motivo per cui fosse così importante continuare a
esporre un libro che causava tanti guai. Sebastiano non aveva raccontato a
nessuno della visita del giovanotto robusto. Stupito di non essere più stato
preso di mira direttamente, si aspettava qualche brutto scherzo da un momento
all’altro.
Ormai l’estate era arrivata, la piazza sotto casa era densa di ombre frondose, oltre che di gas di
scarico e suoni di clacson e frenate. C’erano un paio di panchine e una fontana nell’aiuola centrale, la sera gruppi di ragazzini con rumorosi motorini e puzzolenti motociclette si riunivano a ciarlare e mangiare gelati. Sebastiano li osservava dal balcone del salotto chiedendosi se tra quelle faccette brufolose si nascondesse qualche militante del ‘Gruppo d’azione’. Cercava di decifrare i loro discorsi che talvolta, in un momento di requie del traffico, gli arrivavano sotto forma di numerosi ‘minchia’ e ‘cazzo’ inframmezzati da richiami di ‘Eli! Ale! Vale! Sami! Simo!’. Si chiedeva, con blando interesse, se fossero in grado di pronunciare frasi intere. Certo, se tra loro c’era qualcuno dei vendicatori della moralità, non aveva letto il suo libro, che conteneva subordinate, congiuntivi e numerosi pronomi. A una certa ora sciamavano via con gran sgommate e saluti, le ragazze aggrappate alla schiena dei loro maschietti, le capigliature selvatiche, che avevano agitato con gran perizia fino a quel momento, chiuse nei caschi regolamentari. Dove andavano? Sebastiano, che aveva avuto un’adolescenza tranquilla in una cittadina di provincia e genitori severi, non riusciva a immaginarlo. Anche i suoi figli, tra qualche anno, sarebbero diventati così, capaci di esprimersi solo con urla e abbreviazioni, incomprensibili, stranieri, marziani nella loro vita di gruppo nomade e chiassosa? In quei momenti gli veniva una gran nostalgia e si precipitava a telefonare, immediatamente tranquillizzato dalla notizia che erano impegnati in una ricerca di scienze o a guardare una videocassetta dei Pokemon. Non parlava mai con Elena di un suo eventuale ritorno a casa e nemmeno facevano progetti per le vacanze imminenti. Aveva cominciato a lavorare a un nuovo romanzo, una storia di passione e di mare, che Mostaccio guardava crescere con avido interessamento. Ormai il nome di Sebastiano Orlandi era famoso anche tra chi non leggeva mai un libro, era facile prevedere che il suo prossimo romanzo sarebbe stato un successo di vendite, anche se fosse stato un insuccesso letterario.
Una mattina, mentre entrava in cucina per farsi un caffè, ancora in pigiama e di malumore per un brutto sogno, Sebastiano vide il biondo Gabriele seduto davanti al giornale che il portinaio gli lasciava sullo stuoino, intento a leggere un articolo in prima pagina. Quella vista, più che spaventarlo, lo irritò moltissimo perché odiava leggere un giornale spiegazzato e ci teneva a essere il primo a maneggiarlo.
“Che
cazzo fai di nuovo qui!” esclamò, passando senza accorgersene al tu che aveva
evitato con tanta cura nel primo incontro. “Sei veramente insopportabile.
Questa è casa mia, Cristo, non tollero che tu la usi come sala di lettura”.
Il
giovanotto alzò lo sguardo dal giornale. Gli lanciò un’occhiata
freddissima.
“Ti
prego di evitare le parolacce e soprattutto le bestemmie” disse severo. “Non
posso assolutamente accettarle, nemmeno nella tua casa e nella tua cucina. Se
non sei in grado di parlare come una persona educata, stai zitto”.
Sebastiano
tacque, sbalordito da tanta arroganza.
Gabriele
si alzò e lo guardò dall’alto. Si teneva ben eretto, le spalle e il petto largo
coperti da una camicia a righine bianche e azzurre dalle maniche rimboccate, i
jeans scuri tesi sulla muscolatura delle cosce. Sebastiano rifletté che se era
davvero un angelo, il suo sesso era però evidente.
“Ancora
pensieri sconvenienti.” Non sembrava seccato, sorrideva. “Su, vai a lavarti e
vestirti, dobbiamo uscire subito”.
“Non
ho nessuna intenzione di uscire. Rendimi il mio giornale e vattene dalla porta
o dalla finestra, come preferisci, ma vattene in fretta. Ho un sacco da
lavorare”.
Aveva
rinunciato al tono indignato e si vergognò un poco perché le sue parole
suonavano quasi imploranti.
“Sì,
ho dato un’occhiata al tuo lavoro. Molto meglio dell’altro romanzo, ma il tuo
articolo sul ‘Giornale d’informazione’ non mi è piaciuto affatto”.
Intanto
lo spingeva fuori dalla cucina, dentro il bagno. Mentre Sebastiano faceva una
doccia e si vestiva, gli preparò un caffè e glielo portò in camera.
“Muoviti,
non abbiamo tanto tempo”.
Sebastiano
rifletté un attimo se tirargli il caffè in faccia, poi finì per berlo e
ringraziò anche.
Il
giovanotto aveva spalancato la portafinestra della camera da letto, la riempiva
tutta con la sua mole. Si sentivano i rumori della piazza intasata dal traffico
della prima mattina. Gabriele osservava con interesse qualche cosa giù in
strada. Gli fece cenno di sbrigarsi. Sebastiano si avvicinò per vedere che cosa
stesse succedendo, e di colpo si sentì avvolgere in un abbraccio stretto come
una prigione e altrettanto sicuro. In un attimo si ritrovò in alto, sopra la
piazza e i tigli, sopra il fiume di macchine che scorreva lento nelle strade,
sopra i tetti irti di antenne televisive.
“Ecco,”
la voce di Gabriele gli risuonò forte all’orecchio “guarda che cosa hanno
combinato quegli sciagurati del ‘Gruppo d’azione’ per colpa tua!”
Si sentì un gran boato e una colonna di fumo e fiamme si alzò dal palazzo in cui abitava. Intorno a loro schizzavano a forte velocità tegole, pezzi di cornicione, vetri rotti e sedie, una scarpa, libri squinternati e bruciacchiati, tazze e cucchiaini sporchi di caffè. L’angelo si scostò un poco. Rimasero fermi nell’aria appena agitata dalle grandi ali iridescenti a osservare tutti quegli oggetti eterogenei che, terminata la loro traiettoria, ricadevano verso terra, andando a finire nel rogo del palazzo o sui tigli, sui tetti delle macchine, sui balconi delle case circostanti. Si sentivano urla e sirene che lì, nell’aria tranquilla offuscata dal fumo che si espandeva, giungevano smorzate, quasi irreali. Nelle strade che sboccavano nella piazza si era creato un ingorgo enorme, le macchine della polizia e camion dei pompieri si facevano strada faticosamente zigzagando sui marciapiedi.
Sebastiano
si lasciò scappare un paio di bestemmie che l’angelo commentò solo aumentando
la stretta fin quasi a soffocarlo.
“Zitto,
ricordati che mi basta allargare le braccia perché tu torni direttamente in
mezzo a quell’inferno causato solo dalla tua ottusa mancanza di fede e buon
senso”.
Soffocato
dalla rabbia e dall’orrore, Sebastiano cercò di colpire gli stinchi polposi
dell’angelo con un calcio, ma riuscì solo a oscillare pericolosamente e
sentirsi ridicolo.
“La
mia mancanza di buon senso? Ma sono quei criminali dei tuoi amici che hanno
combinato questo disastro! Ti rendo conto di quanta gente c’era nel palazzo a
quest’ora del mattino? E poi parlate di Dio e di fede e...”
Gli
si spense la voce in un singhiozzo, perché non solo lui avrebbe potuto trovarsi
nel rogo, ma anche Elena e i bambini. Gli apparvero davanti agli occhi come in
fotogrammi spezzati le facce degli abitanti del palazzo, amici e facce appena
note, e si chiese quante di quelle facce fossero ormai maschere bruciaticce.
Gabriele
aveva ripreso a battere con calma le ali. Si allontanarono dal luogo dello
scoppio.
“Te
l’ho detto che sono ragazzi, ogni tanto ci combinano dei guai. Ma le intenzioni
sono buone. Comunque io non ho mai parlato di ... , ti prego di non nominarlo
invano”.
La
città si agitava, macchine e autobus si muovevano lenti o veloci a seconda
delle strade, i passanti non si distinguevano quasi, ogni tanto si vedeva
qualche isoletta verde in mezzo alle costruzioni. Sebastiano trasalì nel
riconoscere il quartiere in cui abitava sua suocera, poi la strada, e il
palazzo.
“Fammi
scendere qui ! Per piacere, voglio vedere i miei bambini!”
“No,
mi spiace, la nostra meta è un’altra” rispose Gabriele in tono gaio, e accelerò
il volo.
Sotto
di loro si stendeva il fiume, verde e diritto come un viale, tra le sponde
coperte d’alberi e un gran svolazzare di gabbiani. L’angelo si abbassò sulle
acque fin quasi a sfiorarle, e le anatre che nuotavano vicino alle rive si
levarono a volo spaventate. Due cigni continuarono a nuotare con dignità, ma
per prudenza si diressero verso la parte opposta.
“Ti
piace il fiume?” disse Gabriele dirigendosi di nuovo verso l’alto. “Ho avuto l’incarico
di portarti qua. Meglio l’acqua che il fuoco, non trovi? Pensare che se ti
fossi pentito, se avessi dato retta ai buoni consigli... Non si può dire che tu
non sia stato avvertito, Sebastiano, ma sei proprio una testa dura”.
Un
ago di panico gli trafisse la schiena.
“Che
cosa vuoi dire?”
Provò
a guardare in faccia l’angelo, ma il sole abbagliante lo costrinse a girarsi di
nuovo verso il basso. Il fiume scintillava calmo sotto il sole, il fumo non era
arrivato fin lì.
“Sebastiano,
Sebastiano... tu ci hai creato un sacco di problemi, ma ti assicuro che non lo
faccio volentieri”.
Allargò
le braccia. Sebastiano precipitò giù, talmente sorpreso che dalla bocca
spalancata non gli uscì neanche un grido.
L’acqua del fiume era fredda malgrado la stagione, la superficie sembrava dura come un pavimento di cemento, ma si ricompose subito e sulla corrente lenta si sparsero dei cerchi concentrici come su uno stagno. Per un attimo le acque in quel punto furono oscurate da un’ombra che spandeva riflessi iridescenti, poi il sole tornò a farle scintillare.