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lunedì 29 febbraio 2016

Domenica di pioggia e una bella scoperta: Il MEF di Torino

Oggi ho visto per la prima volta un posto fantastico di cui conoscevo l'esistenza, ma non ci ero mai stata: il Museo Ettore Fico, o MEF. Si trova nella Spina 4, in via Cigna 114, ed è uno straordinario spazio industriale trasformato in uno straordinario spazio espositivo. Attualmente ospita la mostra Vanità/Vanitas, bella e interessante, ma ciò che mi ha incantato è il contenitore, la sua posizione e soprattutto la luce, lo spazio, il senso di pace che lo riempie. Per cui faccio pubblica confessione della mia ignoranza colpevole, e consiglio a tutti quelli che ancora non lo conoscono di correre a visitarlo. 
Oltre tutto è un ambiente molto curato, accogliente, con bei sofà in posizioni strategiche per riposare e sfogliare cataloghi, un bel bookstore, una raffinata caffetteria-ristorante, una terrazza affacciata su un interessante background di edifici industriali, case di abitazione e centri commerciali. Insomma una mini Tate Modern a misura torinese. A riprova del fatto che tante volte si va a cercare in giro quello che abbiamo sotto il naso (io per prima, of course). 

Proprio, santa ignoranza di Consolata Lanza. Che vivo sotto la Mole e se voglio far due passi vado da piazza Vittorio a piazza Castello sotto i portici di via Po. Invece anche la zona ha un fascino notevole, tra edifici industriali in abbandono e una forte attività di riqualificazione. Insomma una scoperta colpevolmente tardiva che ha illuminato una domenica di pioggia in città. E un pezzo di Torino di cui andare orgogliosi.                                                                 

giovedì 25 febbraio 2016

Le ferite nascoste del cuore: Antonietta Pastore, Mia amata Yuriko

Il terzo romanzo di Antonietta Pastore, Mia amata Yuriko, è un ritorno nei luoghi cari all'autrice, in quel Giappone dove ha vissuto sedici anni rimanendo legatissima alla cultura e all'atmosfera che vi regnano, e sviluppando una grande sensibilità soprattutto verso le donne e le loro storie. Questa volta al centro c'è una figura femminile riservata e solitaria, una zia d'aquisto, sorella della suocera Masako per la quale Antonietta Pastore ha sempre parole di grande affetto e rispetto.

Yuriko vive sola in un'antica casa tradizionale, una casa di legno e di carta, in un'isola della baia di Hiroshima. La narratrice, alter ego dell'autrice, la incontra nel 1979, quando aveva già cinquantasette anni, ma non sa molto di lei, a parte il fatto che è divorziata e i fratelli hanno nei suoi confronti un atteggiamento vagamente protettivo. Durante una visita all'isola in compagnia di Masako nel 1982, le tre donne si recano a visitare il Museo della Marina, nel campus delle Forze marittime di Autodifesa. La narratrice è incuriosita dall'atteggiamento della zia, e il genuino interesse verso tutto quello che riguarda la famiglia del marito e in generale la mentalità e la storia del Giappone, la spinge a cercare di scoprire la verità sulla storia personale di Yuriko, sposatasi per amore nel 1944 con un giovane ufficiale di Marina subito partito per il fronte. La sua vita viene pesantemente condizionata dalla storia e dai tragici fatti legati alla guerra, ma malgrado l'argomento difficile Antonietta Pastore riesce a farne un delicato thriller del cuore, sul quale non dico altro perché i fatti vanno scoperti a mano a mano che l'indagine prosegue e la narratrice riesce a ricostruirli, a rimetterli insieme con i mezzi del ricordo, delle immagini, delle parole scritte o sussurrate nella penombra tra donne, sottovoce e con compostezza. 

Si impara parecchio sul Giappone, si scoprono notizie inedite anche su un argomento noto come le bombe di Hiroshima e Nagasaki, si entra nelle case e si condividono momenti intimi e quotidiani con gli abitanti, ma il miracolo di questo libro è la scrittura lieve e essenziale, educata, come si muovesse in punta di piedi tra segreti dolorosi custoditi con dignitosa discrezione. L'elegante semplicità della prosa, perfettamente modellata sulla vicenda narrata, ci accompagna nella scoperta di un piccolo mistero e ci regala un romanzo lievemente malinconico, con un fondo delicato di romantica mestizia, sfumato come un paesaggio nella nebbia e preciso nei tratti come un dipinto giapponese.

martedì 23 febbraio 2016

La reinvenzione dell'Eden: Roberta Anau, Un'ebrea terra terra

Roberta Anau con Francesca Mogavero (Golem Edizioni)
A cinque anni di distanza da Asini, oche e rabbini, Roberta Anau ci consegna l'ideale proseguimento della sua autobiografia iniziata proprio con quel bel romanzo, affrontando i lati della sua vita più recente che erano rimasti un po' in ombra. I temi sono sempre quelli, grandi e spesso gravi, ma affrontati da Roberta Anau con piglio garibaldino che lascia trapelare appena, qua e là, un sottofondo pulsante di dolorosa inquietudine. Si parla quindi di ciò che accade dopo che l'autrice e il suo compagno di vita si traferiscono alla Miniera, ora lussureggiante e addomesticato agriturismo, ma all'inizio territorio selvaggio che si estende su un pendio scosceso e boscoso, crivellato di gallerie in abbandono, infestato da bestie e umani da cui bisogna difendersi per sopravvivere.

In questo Eden canavesano i due sono Adamo e Eva, che talvolta si trasforma in Santippe. Così se il ritratto di Adamo è impietoso, a Eva non viene risparmiato niente. Lei è la protagonista assoluta, lui un pallido e silenzioso comprimario, tutti gli altri semplici comparse. I personaggi vicini sono definiti con soprannomi, come Sorella Ela e Fratel Cucciolo, per tenere a distanza il rovente aubiografismo di cui è impastato (per usare una metafora culinaria che si addice a pennello) il testo. Ma veramente magistrale è la scrittura, frizzante, in continuo alternarsi di registro alto e basso, ruvida ma sapientissima, maestra nel dominare con mano ferma la materia scivolosissima del ricordo, veloce, nervosa, concreta, e abbondantemente speziata da termini ebraici, ferraresi, piemontesi ecc (cui è dedicato un apposito e provvidenziale glossario) ricca di un'ironia che le procura il grande merito di non cedere mai al compiacimento né agli abbandoni lirici o allo psicologismo cui l'argomento si prestava, costellata inoltre di allegri acrostici in rima. Questa scrittura barocca, debordante, amante dei sinonimi e degli elenchi, lussureggia e ribadisce con forza senza rifuggire dall'espressione dialettale né dalle parolacce estemporanee e assai gustose. 

La Miniera è il grande amore, il progetto in cui si intravede il futuro, che dà speranza e soddisfazione, e anche il motore da cui parte la seconda vita di Adamo e Eva, che vi si dedicano secondo le rispettive inclinazioni. Il lavoro manuale, il contatto con la terra, permette a Eva di farsi pioniera nel deserto, di creare un giardino là dove c'erano solo pietra, ferro e terra rossa e riappropriarsi dell'Eden da cui è stata scacciata.
E questo spiega anche il primo significato del titolo, cioè un'ebrea che la terra la tocca, la lavora, ci si sporca le mani e così facendo riscopre il suo ebraismo, se ne appropria orgogliosamente e lo approfondisce: il cambiamento dà impulso all'apprendimento, smentendo il secondo significato (un'ebrea che conosce poco la sua cultura). Ll'Eden diventato agriturismo si riempie anche degli amatissimi animali tra cui primeggiano cani e oche, mentre l'autrice si dedica a perfezionare una sua passione, cioè la cucina con cui conquista gli ospiti, diventando una nota esperta di cucina ebraica, invitata a convegni, eventi, giornate di cultura ebraica e trasmissioni televisive. Esplora la cucina della tradizione, abbandonando progressivamente le abitudini non kasher (fantastico il tormentato rapporto di Roberta Anau con il maiale, che assurge a statura quasi mitica nelle sue parole e faceva già capolino in Asini, oche e rabbini) e recuperando le ricette che facevano sua madre e sua nonna, i piatti delle feste, i rituali familiari e della comunità.

Gli inverni sono lunghi e bui alla Miniera, propizi alla lettura e soprattutto alla scrittura. Così nasce Asini, oche e rabbini che, oltre a meritare alla sua autrice allori e soddisfazioni, la riporta a Ferrara, la città dell'infanzia e della prima adolescenza, delle radici, dell'ebraismo come identità condivisa. Qui i personaggi si fanno numerosi, oltre alla formidabile mamma Fernanda e al nonno piemontese Orazio compaiono i nonni ferraresi, zii malcompresi, vecchi amici che riemergono dalla polvere dei ricordi, e si fanno inaspettate scoperte di segreti familiari. Ferrara riconquistata diventa l'altro polo della vita di Roberta Anau, alla pari con la beneamata Miniera. E non si può concludere altrimenti che con le sue parole: Mi porto appresso ingredienti, conserve, strumenti personali e un orgoglio solitario, ennesima dichiarazione di diversità, dato che sento di rappresentare una minoranza nella minoranza, e comunque una vera bestia rara. Essere più rari che unici è sempre meglio del contrario, e negli anni con qualche altra rarità sono venuta a contatto.

 
   

 
 

lunedì 22 febbraio 2016

Una vibrata protesta, un'accorata richiesta: restituite i loro nomi a Gatta, Topina e Buon Anno!

L'altro giorno ho accompagnato un'amica milanese a visitare il Museo Egizio. Erano molti anni che non ci mettevo piede, e non avevo mai visto i cambiamenti portati dal restyling che lo ha rivoluzionato rendendolo più "fruibile al pubblico". Ma qui non voglio parlare di questo aspetto, su cui peraltro ho molto riflettuto in questi anni, essendo un'amante e una frequentatrice dei musei, sia grandi che piccini e periferici. Voglio solo protestare formalmente perché ho avuto una bruttissima sorpresa: le mie care amiche Gatta, Topina e Buon Anno sono state defraudate del loro nome e compaiono solo come Tapeni, Tamit e Renpetneferet. Non vale, assolutamente. Non ci avrei mai fatto amicizia se le avessi incontrate così. Per cui innalzo alle alte sfere del Museo un'accorata richiesta: restituite alle tre ragazze i loro nomi! Stanno in Italia da tanti anni, tutti vogliamo che si trovino bene e si integrino, non rendiamogli le cose più difficili. E' molto più facile affezionarsi a Gatta, Topina e Buon Anno che a Tapeni, Tamit e Renpetneferet, ammettetelo.   

mercoledì 17 febbraio 2016

L'occhio della follia genera bellezza: Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene

Tra le molte immeritate fortune di cui ho beneficiato nella mia vita c'è anche quella di abitare a due passi dal cinema Massimo, il che mi permette di vedere bei film decidendolo all'ultimo momento e correndoci, per così dire, in pantofole. Ieri ho finalmente colmato una vergognosa lacuna: ho visto Il gabinetto del dottor Caligari (Robert Wiene, 1920) in una copia restaurata dal laboratorio italiano L'immagine ritrovata della Cineteca di Bologna. Non vi farò l'affronto di raccontare la storia che sicuramente conoscete, dirò solo che che c'è un villaggio tedesco, una fiera annuale, un ambiguo dottore che espone al pubblico un sonnambulo che risponde alle domande di chi lo interroga, un assassino in libertà, una fanciulla in pericolo, due studenti innamorati della suddetta fancuilla, eccetera eccetera.

Non sarò certo originale dicendo che ne sono rimasta stregata. Come già l'anno scorso con Metropolis, mi hanno affascinato soprattutto le scenografie e la recitazione. Scenografie geniali, fondali dipinti che sono il massimo dell'espressionismo, semplici come concezione (fondali appunto) ma capaci di ricreare un paesino con le stradine medievali, le prospettive distorte che rispecchiano l'incubo e la follia che le genera dando un senso di incertezza, di precarietà, di vertigine incontrollabili e di grandissima bellezza visiva. Anche gli interni sono meravigliosi, claustrofobici per distorsione e sempre aperti sull'esterno con grandi vetrate e spacchi di luce come lacerazioni.

La recitazione è anch'essa superespressionista, antinaturalistica, e irresistibile. Soprattutto il dottor Caligari, un Werner Kauss talmente diabolico da risultare sublime. E mi hanno preso il cuore le ragazze alla fiera, i gendarmi, gli impiegati del municipio, il tipo dell'organetto con la scimmia, i signori in cappello (cappello alto ma non proprio a cilindro cui non sono riuscita a dare un nome) pronti a intervenire per ristabilire l'ordine, e naturalmente gli incantevoli pazzi nel cortile del manicomio. Ma il rovesciamento di punto di vista narrativo alla fine, oltre a sorprendermi perché nella mia santissima ignoranza non me l'aspettavo, mi ha fatto pensare molto, ripensare al senso di tutto il film, al perché di quella straordinaria scenograzia, al potere del cinema... e mi ha anche fatto ripensare a film come Il sesto senso o The others, che evidentemente non sono così originali in fondo. Proprio vero che non c'è nulla di nuovo sotto il sole, e nemmeno nel buio della sala cinematografica.   

martedì 16 febbraio 2016

E se una vita non vi basta, niente paura: ecco "Le vite anteriori" di Massimo Tallone

Quando mi sono seduta al computer per parlare di Le vite anteriori (Golem edizioni), credevo che avrei recensito l'ultimo libro di Massimo Tallone: ma non avevo ancora toccato la tastiera che ho avuto notizia che venerdì 19 febbraio ne uscirà uno nuovo, La riva destra della Dora, seguito di Il postino di Superga, entrambi scritti a quattro mani con Biagio Fabrizio Carrillo. Il fatto è che Massimo Tallone, come sa chiunque lo conosca anche solo di striscio, è uno scrittore talmente vulcanico e prolifico che per tenergli dietro ci vogliono buone gambe e ottimo fiato. 

Le vite anteriori è la terza parte di una ideale trilogia che comprende Il fantasma di Piazza Statuto e Il diavolo ai giardini Cavour, in cui il nostro si diverte un mondo a affrontare temi legati al côté oscuro di Torino, satanismo e dintorni, o comunque in bilico tra spiritualismo e new age. Qui si tratta di ipnotismo e reincarnazione - per usare un linguaggio da ignorante, ma Massimo Tallone è molto più scientifico e leggendo questo romanzo si imparano anche un sacco di cose in proposito. Nelle sue pagine si alternano sapientemente momenti dilatati e frenetiche accelerazioni, ci fa viaggiare tra Langhe, Venezia e Sicilia, Ferrara e Torino, seguendo l'indaffarato (ma metodico) io narrante Lo, scrittore che sta preparando un libro sull'ipnosi regressiva e i ricordi delle vite anteriori frequentando ipnoterapeute e altri strani personaggi. In contemporanea Lo, per aiutare la sua amica Lea (personaggio indimenticabile!), svolge un'investigazione in Sicilia che lo porta a sfiorare la mafia e i suoi oscuri maneggi. E come bonus, Lo ci mette al corrente delle sue tecniche di scrittura e delle sue teorie sulla narrativa. È un libro pieno di sorprese, parecchio complesso anche se le vicende appaiono lineari, in cui (per usare una frusta metafora che sicuramente Lo riterrebbe indecente) Massimo Tallone mette molta carne al fuoco, e la condisce con una prosa ricca, ricercata, estremamente analitica, capace di squarci poetici nella descrizione dei paesaggi siciliani, e una spolverata della sua abituale ironia.  


Elencare qui tutte le opere dell'eclettico Massimo Tallone è impossibile, ma voglio citare L'amaro dell'immortalità e Il Cardo e la cura del sole, dove compare il mitico Cardo, protagonista di almeno sette (se ho contato bene) romanzi in cui è un insolito, schifidissimo e irresistibile risolutore di delitti e misteri. Vivamente raccomandato. Inoltre voglio ricordare che è tra i fondatori del gruppo Torinoir, gestisce insieme a Desy Icardi la scuola di scrittura Facciamo la Lingua, collabora a la Repubblica e La Stampa, e suppongo che ogni tanto mangi e dorma. Forse.        


mercoledì 10 febbraio 2016

A volte ritornano, ma Mo Yan non è un fantasma, lui vive e lotta insieme a noi: Il paese dell'alcol

Dal  momento che Einaudi ha da poco pubblicato Il paese dell'alcol di Mo Yan, mio grande amore un po' appannato dagli anni e dalla consuetudine, a cura di Maria Rita Masci e con la traduzione di Silvia Calamandrei, ripubblico la recensione del 31/01/2009 che ho scritto dopo aver letto la versione inglese, nella traduzione dal cinese di Howard Goldblatt.  

Stremata da un Mo Yan che mi è costato almeno un mese di fatica (forse esagero un po', ma mica tanto), non sono riuscita a leggere molto altro. L'ho letto in inglese, e devo dire che non mi sono rammaricata come per The garlic ballads che non sia stato tradotto in italiano. Il troppo è troppo anche per il mio amatissimo scrittore. Si chiama The republic of wine, pubblicato per la prima volta a Taiwan nel 1992. 355 pagine scritte in corpo minimo, talmente piccolo che sembra non ci sia una possibilità di farlo più piccino, invece in certe parti ci riesce. Comunque, da leggere con la lente d'ingrandimento. Poi la complicazione strutturale, che si sa a Mo Yan piace molto, vedi per esempio Grande seno, fianchi larghi: c'è un investigatore che si reca in una regione sperduta chiamata Liquorland perché si sospetta che gli alti funzionari del posto mangino i bambini come squisitezza locale. Poi c'è un aspirante scrittore di quella stessa regione che manda i suoi manoscritti a Mo Yan, che gli risponde, e i manoscritti medesimi, con storie varie che finiscono per intrecciarsi con quelle dell'ispettore e di Mo Yan stesso quando si reca in visita dal suo corrispondente. Temi: bambini stufati, asini stufati, l'alcol in tutte le sue possibili manifestazioni e conseguenze, nidi di rondine, bambini messi al mondo per essere stufati, e via andando. Veramente troppo per chiunque, neanche Dante ce l'avrebbe fatta a tenere sotto controllo tanta esuberanza, e in effetti questo libro è abbastanza illeggibile.

Allora perché l'hai letto? mi chiederebbe chiunque, se qualcuno mai leggesse questo blog solitario. Be', certo perché sono testa quadra e detesto lasciare a metà un libro quando l'ho cominciato; ma soprattutto perché, pur tradotta e in questo caso con la mediazione dell'inglese, la scrittura di Mo Yan mi incanta e mi seduce, mi sorprende, mi convince, ma soprattutto mi piace come mangiare un piatto che amo e non mi stanca mai (per i personaggi di questo libro bambini fritti, genitali di asino e asina composti nel piatto "fenice e dragone", e nidi di rondine - che non sembra niente di che ma andate a leggere che cosa sono e come si raccolgono, poi mi direte). Insomma per me Mo Yan potrebbe scrivere anche i tre moschettieri cominciando dal fondo che baderei più a come lo scrive che a quel che scrive. E qui sorge una questione cruciale. Quanto conta, in una storia, il contenuto in relazione a come è raccontato? Io propendo a dare la precedenza al come. Quando finisco di leggere un libro, il più delle volte quello che diventa permanente è un'immagine, un giro di parole, una frase, un tic stilistico. In questo periodo collaboro a un corso di scrittura creativa e mi sforzo di comunicare agli allievi questa necessità, che io stimo fondamentale, di riflettere sulla parola, ma vedo che l'interesse è scarso per l'argomento. Per loro conta molto di più la vicenda raccontata, sia come comunicazione di un contenuto che come soddisfazione per il racconto medesimo. Il che è molto frequente in chi legge, ma dovrebbe esserlo meno, secondo me, in chi scrive.

Non è che voglio fare la crociana, distinguere forma e contenuto, è solo che sovente mi rendo conto che il piacere che ricavo dalla scrittura, come nel caso di Mo Yan, agli altri non arriva per niente, e allora mi chiedo da che cosa derivi questa differenza. Per consolarmi penso che la letteratura hindi, per secoli, ha raccontato sempre le stesse storie, e ogni autore si distingue solo per come le ha raccontate. Come se qui da noi continuassimo a riscrivere la Divina Commedia e I promessi sposi all'infinito. Per la prima niente da dire, ma all'idea di rileggere il secondo mi viene male. O forse no: io trovo superindigesto lo stile di Manzoni, magari riscritto potrebbe persino piacermi (scherzo, anche la storia dei PS mi fa senso).
Comunque, malgrado tutto l'amore che gli porto per un po' non credo che leggerò un altro Mo Yan. Talvolta l'amore si nutre di assenza.

martedì 9 febbraio 2016

La tirannia del poliziesco: Håkan Nesser, L'uomo senza un cane

Un romanzo che ho letto molto volentieri, ben scritto e ben tradotto da Carmen Giorgetti Cima, che si presenta come giallo scandinavo e noi dobbiamo crederci: Håkan Nesser, L'uomo senza un cane. Tutta la prima parte, piuttosto lunga, è la bella e triste presentazione di una famiglia che più disfunzionale non si può. Padre dispotico ex insegnante e madre sottomessa, che stanno per vendere la casa in Svezia per trasferirsi in Spagna in un comprensorio soprannominato Costa Senile, tanto per capirci, lui che non vede l'ora e lei disperata; figlia maggiore chirurgo con marito evanescente e due figli adolescenti; figlio squinternato senza arte né parte, detto il Pippa perché si è masturbato in diretta televisiva; figlia minore con marito ricco e bambino piccolo; tutti riuniti per festeggiare i compleanni del padre e della figlia maggiore. Ben descritti i rapporti e le psicologie dei personaggi, situazione che acchiappa.

Prima il Pippa poi uno dei due nipoti adolescenti spariscono, e noi sappiamo bene come perché l'autore ce lo racconta. Ecco che allora entra in scena l'ispettore Gunnar Barbarotti, naturalmente divorziato e single con figlia che vive con lui, solitario, stropicciato ecc ecc secondo i soliti cliché. Di qui in poi, assistiamo alla tirannia del poliziesco. I colleghi dell'ispettore, i problemi della polizia, le difficoltà delle indagini, i vicoli ciechi, e il romanzo comincia a perdere colpi come un motore in difficoltà. Barbarotti è l'investigatore più fortunato di tutta la letteratura: non scopre niente, non intuisce niente, e se il caso non gli desse ripetutamente una mano fornendogli coincidenze decisive - in modo veramente eccessivo e incredibile - le cose resterebbero così. Aggiungiamo il vezzo di Håkan Nesser di condurre il lettore sull'orlo di una scena madre e poi lasciarlo lì senza dirgli che cosa succede esattamente (e nell'ultima scena che conclude la vicenda è veramente troppo evasivo, molti particolari non si capiscono affatto) e si capisce che come giallo è insensato. Ci sono solo coincidenze e casualità, e la trama poliziesca sembra escogitata al solo scopo di poter costruire il personaggio dell'ispettore Gunnar Barbarotti e quindi assicurarsi un passaporto per la serialità.

Perché uno scrittore che scrive bene, che sa costruire un ambiente, un groviglio di psicologie, un ritmo narrativo come Håkan Nesser abbia bisogno della struttura poliziesca, non lo so. Mi ha fatto l'impressione di quando si usa il trucchetto del cucchiaio che diventa aeroplano per fare mangiare la minestra ai bambini - vi ricordate? ecco l'aereo che vola vola, apri la bocca, aaahm! - come se fosse necessario per indurre il lettore a aprire il libro e leggerlo. Ma probabilmente sono io che sono rétro, e penso che per leggere un libro non c'è bisogno di escamotage. E l'autore comunque ha ragione: ha un gran successo, ha abbandonato l'insegnamente per dedicarsi alla scrittura di cui vive. Beato lui. Comunque se non siete troppo esigenti sull'aspetto thriller, L'uomo senza un cane vale senz'altro la pena di leggerlo, è un bel romanzo di atmosfera nordica e cupissima. 

martedì 2 febbraio 2016

Giovedì 4 febbraio 2016 alle ore 18,30 alla Libreria Bardotto in via G. Mazzini 23d a Torino sarà presentato il nuovo libro di Roberta Anau, UN'EBREA TERRA TERRA
Ne parleranno con l'autrice Bruna Laudi e Massimo Tallone.

E io approfitto di questa fausta occasione per  ripubblicare la recensione di Asini, oche e rabbini.

Fresco di stampa per le edizioni e/o questo bel libro, che la quarta di copertina definisce romanzo ma in realtà è tutt’altra cosa, anzi, molte altre cose. È innanzitutto una dichiarazione di appartenenza e identità ebraica, piena di affetto e orgoglio. È un’autobiografia che si diverte a ricostruire un teatrino famigliare pullulante di tutto ciò che è vita, dalle manifestazioni alte come la religione, la tradizione, alle sue espressioni più basse e corporee, che tanto divertono i bambini, nulla disdegnando né dimenticando; e la voce della protagonista fa rivivere davanti ai nostri occhi i personaggi della sua infanzia (alcuni larger than life come l'amata-temuta-ammirata madre Fernanda), l’amatissima Ferrara e le sue nebbie avvolgenti e tiepide, gli oggetti, i cibi, gli spazi della “casa d’angolo” in città e della Luchinata, la casa di campagna delle estati di libertà e natura, le parole (moltissime) che trasmettono la cultura ebraica e i riti familiari, quelle del dialetto ferrarese paterno e soprattutto quelle del nonno materno Orazio, piemontese e depositario di formule adatte a qualsiasi occasione. 

Man mano che Roberta cresce, lascia Ferrara per la gelida Torino in seguito alla morte del padre, al calore della famiglia d’origine si sostituisce il matrimonio, la nascita di una figlia, dolori grandi, grandissimi, e piccole difficoltà, le fatiche e le gioie della vita degli adutli, la voce diventa più dolente e il mondo un po’ più monocromo. Ma non diminuisce la sensazione di ricchezza che questo libro trasmette. Il punto di forza è la scrittura sapiente di Roberta Anau, euforica e barocca, amante dell’accumulo fin dal titolo, dei sinonimi, delle liste di paragoni e metafore, pimpante e esagerata. Una scrittura che vuol farsi notare, non teme di portare via la scena ai contenuti, soprattutto all’inizio in cui sembra che voglia rendere conto dello stupore goloso di una bambina di fronte alla vita bella e nuova, tutta da scoprire. È viscerale e carnale, cresce su se stessa, un pensiero tira l’altro, non ha bisogno di fatti cui appoggiarsi, è sovrabbondante e ellittica, espressionista. Fa un generoso uso di ironia, condimento paragonabile solo all’amato grasso d’oca. Sa operare trasformazioni favolose sulla realtà (basti come esempio l’episodio della conserva di pomodoro di pagina 125), caratterizza i numerosi personaggi con voci sempre personali, li accarezza con amore e li punzecchia senza pietà nel caso che lo meritino.


Asini, oche e rabbini è un libro intensamente originale sia nell’affrontare l’argomento mille volte trattato della ricostruzione di un mondo dell’infanzia, sia nell’appassionata dichiarazione di appartenenza ebraica, nella sensualità con cui racconta i cibi, la scoperta della sessualità, la baldanza giovanile e le prime malinconie dell’età, definite con felicissima ironia le ultime stagioni della mia “età della ragione”. Per concludere, ottima la scelta editoriale di mettere in copertina i genitori di Roberta, ritratti nello splendore del loro giorno di nozze. Un esauriente glossario riunisce i termini ebraici disseminati nel testo.

Roberta Anau ha vissuto a Ferrara e a Torino, è stata insegnante e ora gestisce un agriturismo, La Miniera, nel Canavese, dove propone cibi della tradizione ebraica e piemontese. Ha pubblicato con Elena Loewenthal Cucina ebraica (Fabbri 2000), La cucina della Bibbia (Il leone verde 2002) con Daniela Messi e Gianburrasca: ragazzo di marzapane e cervello di crema (Il leone verde 2010).