Insomma, quello con le edizioni Calabuig è stato veramente un incontro benedetto. Dopo lo struggente Hotel Madrepatria di Yusuf Atılgan ho acquistato La signora melograno di Goli Taraghi, e non potevo fare cosa migliore. Non conoscevo Goli Tarachi, non l'avevo mai sentita nominare anche se le Edizioni Lavoro hanno pubblicato il suo Tre donne con la traduzione di Anna Vanzan nel 2009. E' tradotta in inglese e francese, ma in italiano al momento l'unico titolo disponibile è questa bellissima raccolta di sette racconti, anch'essa tradotta da Anna Vanzan.
Goli Taraghi si è trasferita in Francia nel 1979, ma lei stessa dice (cito una sua intervista) Ho trascorso gli ultimi trentaquattro anni in un viaggio perpetuo tra Occidente e Oriente, spostandomi tra Parigi e Teheran. Scrive in persiano, e l'Iran, Teheran, sono sempre presenti nelle sue pagine con una vivezza, una precisione e una concretezza che mi hanno fatto capire più cose di anni di articoli giornalistici. Con una tecnica narrativa che consiste nello scrivere in prima persona ma tenersi, come narratrice e come personaggio, ai margini, più o meno nell'ombra, mettendo al centro le figure davvero indimenticabili di persone che incontra o ricorda, ci racconta storie autobiografiche di una donna che sa guardarsi attorno con curiosità, con gli occhi spalancati sul mondo, senza sentimentalismi nè psicologismi, attenta ai particolari concreti e capace di sintesi folgoranti.
La signora melograno è il commovente ritratto di una donna di campagna sperduta e ciarliera in viaggio per raggiungere i figli in Svezia, davvero incredibile per la tenerezza e la precisione dei particolari che costruiscono un personaggio che fa un po' stringere il cuore e tremare per la sua sorte, come succede alla narratrice; Gentile, ma ladro getta luce sulle condizioni della borghesia urbana dopo la rivoluzione komeinista, attraverso un grottesco tentativo di furto e una fantastica figura di ladro educatissimo e pronto al pentimento; Quell'altro disegna la figura di una strana madre e di due gemelli separati che dialogano a distanza con un flauto, mentre La gara non finita intesse ricordi d'infanzia con la meravigliosa descrizione di un viaggio con l'Iran Air tra Parigi e Teheran, l'imperatrice Soraia e il ping pong, la paura dei funzionari della dogana irrazionali e corrotti, finché tutto si acquieta nella pace del ritorno a casa. Se Madame Lupo parla delle difficoltà di inserimento a Parigi e sa riconoscere il dolore che talvolta si nasconde sotto l'ostilità, nel fascinoso I fiori di Shiraz si ritorna all'adolescenza felice e spensierata a Teheran, liberissima e divertente, tra lezioni di ballo e corse in bicicletta, la gelateria Vigo e il ponte di Tajrish dove la narratrice e i suoi amici si radunavano vivendo i primi amori, e si prende il tempo di tratteggiare le figure di un padre e una figlia uniti dalla tragedia in una strana e pacifica follia.
Infine, il lungo In un altro posto richiede un discorso a parte. Qui viene meno la freschezza, l'immediatezza dell'osservazione della realtà a favore di quella che si può immaginare come una grande, dettagliata metafora non facilissima da interpretare. La storia di Amir Ali che perde il controllo del proprio corpo e lo riacquista solo abbandonando la sua vita ricca e sostanzialmente falsa (come ci dice l'immagine delle persone con la faccia di cartone) per vagabondare in macchina nella natura, libero da tutto, dalle convenzioni sociali, dagli obblighi, dalle pressioni, dalle aspettative degli altri, tornato a uno stato di natura, a una quasi infanzia in cui tutto è ancora possibile, è incentrata sul punto di vista del protagonista e della moglie, anche se qua e là compare una figurina di quelle cui ci ha abituato l'autrice, per esempio lo zio colonnello. L'artificio della voce narrante in prima persona rimane sullo sfondo in maniera un po' pretestuosa e molto reticente. Viene da chiedersi se il riferimento sia alla situazione dell'Iran, alla sua tormentata vicenda politica, ma è solo un'ipotesi, perché l'intento, se c'è, è molto ben mimetizzato. A questo proposito piacerebbe che il già lodevole paratesto (Notizie su Goli Taraghi e un Glossario) desse qualche indicazione sui racconti presenti, la data di composizione o almeno di pubblicazione, per potere capire se la differenza è solo una scelta autoriale o rappresenza un'evoluzione nella scrittura di Goli Taraghi.
Quello che viene fuori da La signora melograno è un ritratto della vita in Iran davvero inedito per me, e vivissimo è il contrasto tra la libertà sognata nei ricordi di prima della rivoluzione e gli stratagemmi per sopravvivere conservando qualche piacere nel cupo clima del dopo, per aggirare le leggi repressive senza essere beccati dalla polizia religiosa, il vino fatto in casa di nascosto, l'oppio per dimenticare, le feste a porte e finestre chiuse e la corruzione onnipresente, sia spicciola che a alto livello. Goli Taraghi è una grande scrittrice che in storie dove la trama è quasi impalpabile riesce a costruire un mondo di una vivezza incredibile, creando davanti ai nostri occhi personaggi a tutto tondo, una città, una società, senza mai dare giudizi espliciti né mostrare nostalgia o rimpianti.
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domenica 22 novembre 2015
domenica 15 novembre 2015
La buona novella: è nata Buckfast Edizioni, giovane, colorata, allegra e grintosa
Allora, ogni tanto ci sono notizie che fanno scendere una lacrima di commozione sul ciglio anche a vecchie pellacce come me, notoriamente arcinemica delle emozioni. Una di queste è ovviamente l'annuncio di una nascita: se poi la neonata è una casa editrice, le lacrime saranno almeno due. E diventano pianto dirotto quando si scopre che a averla fondata è una donna, anzi una ragazza, una giovanissima coraggiosa editrice: Elisa Labanca.
Qui di seguito alcune notizie, prese dalla pagina facebook di Buckfast Edizioni, nata nel settembre 2015 a Pecetto Torinese.
La giovane casa editrice Buckfast Edizioni ha la finalità di pubblicare libri e creare prodotti editoriali. Prende il nome da una tipologia di ape regina, selezionata all'inizio del XX secolo da padre Adam, un monaco dell'abbazia benedettina di Buckfast, nel Devon (Inghilterra), che si occupava di apicoltura all'interno del monastero. Quest'ape, frutto dell'incrocio tra una regina italiana e fuchi di ceppo inglese, richiede un controllo permanente per rimanere una razza selezionata nelle sue caratteristiche positive.
L'analogia tra l'operosità di questa tipologia di ape regina e la meticolosità e la cura con cui cerchiamo di produrre il nostro "oro degli dei" è alla base della mission di questa piccola casa editrice. Convinti che il libro, come forma cartacea di cultura e luogo di interessi, resterà ancora in auge per molti anni e diverrà nel tempo sempre più un oggetto prezioso, la Buckfast Edizioni si propone di pubblicare prodotti di nicchia ma di grande qualità, selezionati e lavorati proprio come un'ape regina meticolosamente lavora all'interno della sua famiglia. Ricerchiamo autori che condividano con noi la nostra mission, ma che al contempo credano ancora nell'importanza della divulgazione di contenuti ad alto valore culturale. Un ambiente giovane e dinamico che vuole dar spazio ad una pluralità di voci, ricercando gli autori più meritevoli e riversando nell'attività passione, idee e creatività e soprattutto... sogni, perché il sogno è alla base del libro: amato, desiderato, ricercato, consumato, portato con sé nelle avventure della propria esistenza, compagno di un viaggio infinito che è la vita di ciascuno di noi. Vogliamo dare voce agli autori, più o meno conosciuti, curando il rapporto personale con ciascuno di loro e creando un prodotto di alta qualità.
I titoli già usciti sono: Franco Luigi Carena, Cavallermaggiore. Personaggi e dintorni
AA VV, Cajorata 3, raccolta di poesie brevi (nove versi) di dodici autori provenienti da tutt'Italia
AA VV, Cajorata 3, raccolta di poesie brevi (nove versi) di dodici autori provenienti da tutt'Italia
Gli uomini soli combinano un sacco di guai: "Hotel Madrepatria" di Yusuf Atilgan, e "Rams - Storia di due fratelli e otto pecore" di Grímur Hákonarson
Non conoscevo la casa editrice Calabuig ed è una grave colpa, perché ha già un anno (appena compiuto) e un catalogo dei più appetitosi che si possano immaginare; inoltre il nostro primo incontro mi ha incuriosita al punto da indurmi a comprare un libro cartaceo, cosa che ormai mi capita molto raramente. Be', ne valeva davvero la pena. Hotel Madrepatria di Yusuf Atılgan, per la prima volta in italiano nella bella traduzione di Rosita D’Amora e Şemsa Gezgin, è uno di quei libri che lasciano il segno, avvolgendo il lettore in una storia e un'atmosfera che non permettono più di abbandonarli, anche se non c'è quasi azione a movimentare la vicenda.
Siamo in una cittadina senza nome in Turchia (ma è Manisa, la città natale dell'autore, riconoscibilissima da molte indicazioni - prima di tutte la memoria continua del grande incendio che l'ha distrutta quasi completamente, per mano dei greci in ritirata alla fine della guerra greco turca del 1919-1923), negli anni Sessanta del secolo scorso. Protagonista unico, dal cui punto di vista seguiamo i fatti in un flusso di coscienza continuo e aggrovigliato, è Zebercet, trentenne scapolo che gestisce un albergo vicino alla stazione ferroviaria. L'Hotel Madrepatria non è grande, una decina di camere su tre piani in un antico konak, un palazzo ottomano scampato all'incendio, di proprietà di una famiglia che ha lasciato Manisa per Istanbul cui Zebercet è legato da complessi legami di sangue. Zebercet è un solitario, metodico e quasi recluso dietro al bancone della reception da dove controlla arrivi e partenze dei clienti. Ogni tanto usa sessualmente la donna di servizio che si occupa delle stanze e della cucina, ma lei quasi non se ne accorge, continua a dormire senza mostrare piacere né disgusto. In questa routine ovattata e priva d'aria qualcosa si spezza improvvisamente, quando una cliente senza nome né carta d'identità, "la donna arrivata con il treno in ritardo proveniente da Ankara", trascorre un'unica notte in una stanza che da quel momento diventa una specie di tempio del ricordo e dell'attesa, in cui Zebercet si rifugia a annusare le tracce lasciate da lei. Da quel momento in poi è un crescendo via via più febbrile e aggrovigliato di pensieri che si avvoltolano tornando sempre all'ambiguità dei ricordi di un passato complesso e impossibile da ricostruire, mentre lui aspetta che la porta si apra e la donna ritorni.
Il flusso di coscienza di Zebercet è inaffidabile, lo capiamo da particolari all'inizio trascurabili, come quello di baffi: neppure lui è sicuro se li ha oppure no, non bastano lo specchio, il barbiere o lo sguardo altrui a garantire la realtà. I suoi occhi chiusi guardano all'interno di sé. Ma questo non impedisce a Yusuf Atılgan di costruire attorno a Zebercet un mondo concretissimo e sfaccettato, di rappresentare la vita di una cittadina turca minore e sonnolenta ma formicolante di personaggi indimenticabili, visti attraverso gli occhi opachi di Zebercet o filtrati dai suoi ricordi, dalla torpida e sventurata donna di servizio all'ufficiale in pensione, dal ragazzo incontrato al combattimento di galli al barbiere, dalle prostitute che emergono dalla foschia del passato ai compagni di naia e amici d'infanzia, l'uomo incontrato al cimitero trasformato in parco e i confusi antenati dai comportamenti mitologici, la famiglia padronale cui Zebercet forse appartiene per vie oscure, gli avventori delle modeste trattorie che frequenta, gli osti, i clienti dell'albergo...
Veniamo così attirati in una spirale irresistibile come un incantesimo, in cui si desidera solo accovacciarsi su un divano nell'aria viziata della hall dell'Hotel Madrepatria, a fantasticare su chi sarà il prossimo a spingere la porta con la lunetta di vetri smerigliati, lasciando passare il tempo in silenzio, seguendo le circonvoluzioni del cervello ondivago del gestore, arrovellandosi e attorcigliandosi sul passato e sul quel poco di realtà che filtra dalle finestre opache e tra il fumo di sigaretta. E quando la tragedia, incomprensibile ma non inaspettata, si intrufola nello scricchiolante konak non possiamo che continuare a seguire Zebercet tra bettole fumose e i caffè dove si tengono i combattimenti di galli, o su e giù per le scale dell'albergo. Alla seconda tragedia lo accompagniamo senza stupore, sapendo che è inevitabile.
Sia nelle Notizie su Yusuf Atılgan poste in fondo al volume che spigolando in rete, ho trovato il nome di questo autore accostato a quello di William Faulkner. Ora, io Faulkner non l'ho mai frequentato quindi non posso dire assolutamente nulla sulla questione, non so se l'accostamento significa subordinazione, imitazione. Posso dire solo che Hotel Madrepatria mi ha colpita al cuore e aspetto con fiducia (e gran curiosità) che Calabuig continui l'opera meritoria traducendo anche Aylak Adam (Il fannullone) di cui sono riuscita a individuare solo le versioni francese e spagnola oltre a quella turca.
E se volete scoprire quali altri guai possono combinare gli uomini soli, andate a vedere il bel film Rams - Storia di due fratelli e otto pecore dell'islandese Grímur Hákonarson. Qui gli uomini soli sono due, fratelli appunto, Gummi, più integrato nella minima società locale e Kiddi, ubriacone e scorbutico, che pur vivendo fianco a fianco in due isolatissime fattorie nel nord dell'Islanda, non si parlano da quarant'anni. Quando Gummi scopre che il montone di Kiddi, anche se ha vinto il concorso per la migliore bestia dell'anno, ha una malattia tremenda, la scrapie, non gli par vero di potersi vendicare del successo del fratello. Ma la tragedia si scatena contro tutti, e tutte le pecore della valle devono essere abbattute. Per i due il colpo è tremendo, e ciascuno reagisce cercando una strategia per sopravvivere diversa e opposta, tutta esteriore quella di Kiddi e tutta nascosta, quasi seppellita, quella di Gummi. Quando non sarà più possibile continuare così, anche i rapporti tra di loro saranno ribaltati e in un crescendo finale di quasi intollerabile potenza emotiva, torneranno a una vicinanza infantile, primigenia. La parte finale di questo film è una delle cose più belle e più forti che io abbia mai visto al cinema. Certo, Rams è un film che non dirà niente a chi non è disposto per una volta a rinunciare a facce note, a kiss kiss bang bang, a effetti speciali e ambientazioni lussuose. Qui troverete la solitudine e il silenzio dell'Islanda, ma anche due personaggi che sarà difficile dimenticare. E che mi hanno fatto ricordare, naturalmente, il meraviglioso Bjartur di Gente indipendente di Halldor Laxness.
Siamo in una cittadina senza nome in Turchia (ma è Manisa, la città natale dell'autore, riconoscibilissima da molte indicazioni - prima di tutte la memoria continua del grande incendio che l'ha distrutta quasi completamente, per mano dei greci in ritirata alla fine della guerra greco turca del 1919-1923), negli anni Sessanta del secolo scorso. Protagonista unico, dal cui punto di vista seguiamo i fatti in un flusso di coscienza continuo e aggrovigliato, è Zebercet, trentenne scapolo che gestisce un albergo vicino alla stazione ferroviaria. L'Hotel Madrepatria non è grande, una decina di camere su tre piani in un antico konak, un palazzo ottomano scampato all'incendio, di proprietà di una famiglia che ha lasciato Manisa per Istanbul cui Zebercet è legato da complessi legami di sangue. Zebercet è un solitario, metodico e quasi recluso dietro al bancone della reception da dove controlla arrivi e partenze dei clienti. Ogni tanto usa sessualmente la donna di servizio che si occupa delle stanze e della cucina, ma lei quasi non se ne accorge, continua a dormire senza mostrare piacere né disgusto. In questa routine ovattata e priva d'aria qualcosa si spezza improvvisamente, quando una cliente senza nome né carta d'identità, "la donna arrivata con il treno in ritardo proveniente da Ankara", trascorre un'unica notte in una stanza che da quel momento diventa una specie di tempio del ricordo e dell'attesa, in cui Zebercet si rifugia a annusare le tracce lasciate da lei. Da quel momento in poi è un crescendo via via più febbrile e aggrovigliato di pensieri che si avvoltolano tornando sempre all'ambiguità dei ricordi di un passato complesso e impossibile da ricostruire, mentre lui aspetta che la porta si apra e la donna ritorni.
Il flusso di coscienza di Zebercet è inaffidabile, lo capiamo da particolari all'inizio trascurabili, come quello di baffi: neppure lui è sicuro se li ha oppure no, non bastano lo specchio, il barbiere o lo sguardo altrui a garantire la realtà. I suoi occhi chiusi guardano all'interno di sé. Ma questo non impedisce a Yusuf Atılgan di costruire attorno a Zebercet un mondo concretissimo e sfaccettato, di rappresentare la vita di una cittadina turca minore e sonnolenta ma formicolante di personaggi indimenticabili, visti attraverso gli occhi opachi di Zebercet o filtrati dai suoi ricordi, dalla torpida e sventurata donna di servizio all'ufficiale in pensione, dal ragazzo incontrato al combattimento di galli al barbiere, dalle prostitute che emergono dalla foschia del passato ai compagni di naia e amici d'infanzia, l'uomo incontrato al cimitero trasformato in parco e i confusi antenati dai comportamenti mitologici, la famiglia padronale cui Zebercet forse appartiene per vie oscure, gli avventori delle modeste trattorie che frequenta, gli osti, i clienti dell'albergo...
Veniamo così attirati in una spirale irresistibile come un incantesimo, in cui si desidera solo accovacciarsi su un divano nell'aria viziata della hall dell'Hotel Madrepatria, a fantasticare su chi sarà il prossimo a spingere la porta con la lunetta di vetri smerigliati, lasciando passare il tempo in silenzio, seguendo le circonvoluzioni del cervello ondivago del gestore, arrovellandosi e attorcigliandosi sul passato e sul quel poco di realtà che filtra dalle finestre opache e tra il fumo di sigaretta. E quando la tragedia, incomprensibile ma non inaspettata, si intrufola nello scricchiolante konak non possiamo che continuare a seguire Zebercet tra bettole fumose e i caffè dove si tengono i combattimenti di galli, o su e giù per le scale dell'albergo. Alla seconda tragedia lo accompagniamo senza stupore, sapendo che è inevitabile.
Sia nelle Notizie su Yusuf Atılgan poste in fondo al volume che spigolando in rete, ho trovato il nome di questo autore accostato a quello di William Faulkner. Ora, io Faulkner non l'ho mai frequentato quindi non posso dire assolutamente nulla sulla questione, non so se l'accostamento significa subordinazione, imitazione. Posso dire solo che Hotel Madrepatria mi ha colpita al cuore e aspetto con fiducia (e gran curiosità) che Calabuig continui l'opera meritoria traducendo anche Aylak Adam (Il fannullone) di cui sono riuscita a individuare solo le versioni francese e spagnola oltre a quella turca.
E se volete scoprire quali altri guai possono combinare gli uomini soli, andate a vedere il bel film Rams - Storia di due fratelli e otto pecore dell'islandese Grímur Hákonarson. Qui gli uomini soli sono due, fratelli appunto, Gummi, più integrato nella minima società locale e Kiddi, ubriacone e scorbutico, che pur vivendo fianco a fianco in due isolatissime fattorie nel nord dell'Islanda, non si parlano da quarant'anni. Quando Gummi scopre che il montone di Kiddi, anche se ha vinto il concorso per la migliore bestia dell'anno, ha una malattia tremenda, la scrapie, non gli par vero di potersi vendicare del successo del fratello. Ma la tragedia si scatena contro tutti, e tutte le pecore della valle devono essere abbattute. Per i due il colpo è tremendo, e ciascuno reagisce cercando una strategia per sopravvivere diversa e opposta, tutta esteriore quella di Kiddi e tutta nascosta, quasi seppellita, quella di Gummi. Quando non sarà più possibile continuare così, anche i rapporti tra di loro saranno ribaltati e in un crescendo finale di quasi intollerabile potenza emotiva, torneranno a una vicinanza infantile, primigenia. La parte finale di questo film è una delle cose più belle e più forti che io abbia mai visto al cinema. Certo, Rams è un film che non dirà niente a chi non è disposto per una volta a rinunciare a facce note, a kiss kiss bang bang, a effetti speciali e ambientazioni lussuose. Qui troverete la solitudine e il silenzio dell'Islanda, ma anche due personaggi che sarà difficile dimenticare. E che mi hanno fatto ricordare, naturalmente, il meraviglioso Bjartur di Gente indipendente di Halldor Laxness.
martedì 3 novembre 2015
Il ragazzo che si pavoneggiava in uniforme e gli orrori della guerra civile in Nigeria: "Sozaboy, il soldato bambino" di Ken Saro-Wiwa
Quanto ne sappiamo della Nigeria? Io, confesso, pochissimo. Per questo Sozaboy. Il bambino soldato, di Ken Saro-Wiwa, è un libro di cui vorrei poter dire tutto il bene possibile, perché è ambientato in Nigeria negli anni della guerra civile (1967-1970) seguita al tentativo di secessione del Biafra, è scritto da un personaggio straordinario e tratta temi di importanza universale. Ma non ci riesco, e spiego perché.
Pubblicato nel 1985, si tratta del racconto in prima persona dell'odissea di Mene, ragazzo ingenuo del villaggio di Dukana presso Pitakwa (Port Harcourt, sul delta del Niger), pieno di vita, di prospettive (lavora come apprendista di un trasportatore in attesa di prendere la patente), di sogni anche d'amore come tutti i ragazzi della sua età. Dukana appare un tranquillo eden di campagna abitato da agricoltori che coltivano igname, banane, plantain dando retta al capo e al prete, bevendo e ballando. La storia è semplice e terribile: sedotto dal fascino dell'uniforme, spinto dal desiderio di fare colpo sulla bella Agnes che ha appena sposato, convinto dai discorsi degli abitanti di Dukana che chi non è soldato non è un vero uomo, senza sapere che guerra si sta combattendo, chi sono i nemici e perché lo sono, attraversa fronti, eserciti e ogni sorta di orrori senza capire, così come non capiva quando ha pagato per potersi arruolare, portare una bella divisa, essere ammirato e amato. La sua è una storia di formazione, un'educazione al dolore che non lo porta da nessuna parte se non a riconoscere l'inutilità, l'assurdità e la crudeltà senza limiti della guerra.
Sozaboy lo dovrebbero leggere tutti perché come ho già detto, delle guerre in Africa non sappiamo (non so) niente, leggendo i titoli dei giornali proviamo un brivido di virtuosa compassione poi passiamo a articoli più comprensibili. Ma è una storia in prima persona e proprio quello secondo me è il punto: l'autore l'ha scritto in un particolare pidgin english, l'inglese che i popoli sottomessi usano per comunicare con i padroni, (il titolo originale è Sozaboy, A Novel in Rotten English), estremamente creativo, una lingua inventata l'hanno definita. Il bravo, anzi l'eroico, traduttore Poberto Piangatelli si è trovato davanti a un compito quasi impossibile che ha affrontato con coraggio, ma il risultato è una lingua che non esiste. Nessuno parla come Mene, e questo alla lunga oltre a sconcertare diventa irritante. A questo proposito consiglio di leggere prima l'interessantissima e esauriente postfazione della curatrice Stella Vivan, Nota critica, che chiarisce molti interrogativi. Naturalmente man mano che si va avanti si dimentica un po' il fastidioso accumulo di mica, ben bene ecc che si alternano a congiuntivi e condizionali improbabili nel contesto. Insomma il realismo disperato della vicenda è pesantemente disturbato, mentre la poetica ingenuità e la spontaneità del personaggio diventano ridicole. Capisco che il compito, ripeto, era davvero immane.
La prima parte risulta un po' lunga e insulsa, molto virata al comico nel riportare gli oziosi discorsi degli abitanti di Dukana mentre alcuni personaggi si distinguono per originalità e verità, poi la vicenda decolla quando Mene entra in contatto con la vita militare e si addentra negli orrori della guerra. Non ci sono mai indicazioni precise, fatti storici, il nemico non viene mai definito né i nomi delle tribù esplicitati, ma in filigrana si comprende l'insensatezza, la corruzione a ogni livello, si intravede il piccolo gruppo di individui che decide di approfittarne mentre la popolazione viene distrutta. Nell'incomprensibilità della spirale di crudeltà e degrado, la persistenza di un sostrato magico viene alla luce e diventa un elemento di orrore in più.
L'autore Ken Saro-Wiwa (1941-1995) è stato un personaggio davvero straordinario. Molto noto in patria e all'estero, fu scrittore, commediografo, uomo di televisione (scrisse la prima sit-com africana, che ebbe grandissimo successo), ricoprì incarichi istituzionali e fin dagli anni '80 si fece portavoce del Movimento per la Sopravvivenza del Popolo Ogoni da lui fondato, interpretando le rivendicazioni del popolo ogoni il cui territorio fu devastado dalla scoperta e dallo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel delta del Niger. Tra le multinazionali interessate, la Shell deteneva il 20% e l'Agip il 10%. Nel 1995 fu arrestato, sommariamente processato e impiccato l'11 novembre insieme a altri otto attivisti per ordine del dittatore Abacha. Recentemente la Shell è stata chiamata in giudizio in USA per la morte di Saro-Wiwa e di altri sei intellettuali, e pur negando le proprie responsabilità ha patteggiato pagando 15 milioni di dollari.
Oltre alla già citata, fondamentale postfazione di Stella Vivan, l'edizione Baldini & Castoldi offre un Glossario (da cui si apprende che soza è una corruzione dell'inglese soldier) e una prefazione di Roberto Saviano vagamente retorica, ma è difficile evitare la retorica su un testo simile e una vicenda umana come quella del suo autore. Un testo, ripeto, di non facile lettura ma che restituisce molto di più della fatica che si affronta per leggerlo, e vivamente consigliato, con le avvertenze del caso.
Pubblicato nel 1985, si tratta del racconto in prima persona dell'odissea di Mene, ragazzo ingenuo del villaggio di Dukana presso Pitakwa (Port Harcourt, sul delta del Niger), pieno di vita, di prospettive (lavora come apprendista di un trasportatore in attesa di prendere la patente), di sogni anche d'amore come tutti i ragazzi della sua età. Dukana appare un tranquillo eden di campagna abitato da agricoltori che coltivano igname, banane, plantain dando retta al capo e al prete, bevendo e ballando. La storia è semplice e terribile: sedotto dal fascino dell'uniforme, spinto dal desiderio di fare colpo sulla bella Agnes che ha appena sposato, convinto dai discorsi degli abitanti di Dukana che chi non è soldato non è un vero uomo, senza sapere che guerra si sta combattendo, chi sono i nemici e perché lo sono, attraversa fronti, eserciti e ogni sorta di orrori senza capire, così come non capiva quando ha pagato per potersi arruolare, portare una bella divisa, essere ammirato e amato. La sua è una storia di formazione, un'educazione al dolore che non lo porta da nessuna parte se non a riconoscere l'inutilità, l'assurdità e la crudeltà senza limiti della guerra.
Sozaboy lo dovrebbero leggere tutti perché come ho già detto, delle guerre in Africa non sappiamo (non so) niente, leggendo i titoli dei giornali proviamo un brivido di virtuosa compassione poi passiamo a articoli più comprensibili. Ma è una storia in prima persona e proprio quello secondo me è il punto: l'autore l'ha scritto in un particolare pidgin english, l'inglese che i popoli sottomessi usano per comunicare con i padroni, (il titolo originale è Sozaboy, A Novel in Rotten English), estremamente creativo, una lingua inventata l'hanno definita. Il bravo, anzi l'eroico, traduttore Poberto Piangatelli si è trovato davanti a un compito quasi impossibile che ha affrontato con coraggio, ma il risultato è una lingua che non esiste. Nessuno parla come Mene, e questo alla lunga oltre a sconcertare diventa irritante. A questo proposito consiglio di leggere prima l'interessantissima e esauriente postfazione della curatrice Stella Vivan, Nota critica, che chiarisce molti interrogativi. Naturalmente man mano che si va avanti si dimentica un po' il fastidioso accumulo di mica, ben bene ecc che si alternano a congiuntivi e condizionali improbabili nel contesto. Insomma il realismo disperato della vicenda è pesantemente disturbato, mentre la poetica ingenuità e la spontaneità del personaggio diventano ridicole. Capisco che il compito, ripeto, era davvero immane.
La prima parte risulta un po' lunga e insulsa, molto virata al comico nel riportare gli oziosi discorsi degli abitanti di Dukana mentre alcuni personaggi si distinguono per originalità e verità, poi la vicenda decolla quando Mene entra in contatto con la vita militare e si addentra negli orrori della guerra. Non ci sono mai indicazioni precise, fatti storici, il nemico non viene mai definito né i nomi delle tribù esplicitati, ma in filigrana si comprende l'insensatezza, la corruzione a ogni livello, si intravede il piccolo gruppo di individui che decide di approfittarne mentre la popolazione viene distrutta. Nell'incomprensibilità della spirale di crudeltà e degrado, la persistenza di un sostrato magico viene alla luce e diventa un elemento di orrore in più.
L'autore Ken Saro-Wiwa (1941-1995) è stato un personaggio davvero straordinario. Molto noto in patria e all'estero, fu scrittore, commediografo, uomo di televisione (scrisse la prima sit-com africana, che ebbe grandissimo successo), ricoprì incarichi istituzionali e fin dagli anni '80 si fece portavoce del Movimento per la Sopravvivenza del Popolo Ogoni da lui fondato, interpretando le rivendicazioni del popolo ogoni il cui territorio fu devastado dalla scoperta e dallo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel delta del Niger. Tra le multinazionali interessate, la Shell deteneva il 20% e l'Agip il 10%. Nel 1995 fu arrestato, sommariamente processato e impiccato l'11 novembre insieme a altri otto attivisti per ordine del dittatore Abacha. Recentemente la Shell è stata chiamata in giudizio in USA per la morte di Saro-Wiwa e di altri sei intellettuali, e pur negando le proprie responsabilità ha patteggiato pagando 15 milioni di dollari.
Oltre alla già citata, fondamentale postfazione di Stella Vivan, l'edizione Baldini & Castoldi offre un Glossario (da cui si apprende che soza è una corruzione dell'inglese soldier) e una prefazione di Roberto Saviano vagamente retorica, ma è difficile evitare la retorica su un testo simile e una vicenda umana come quella del suo autore. Un testo, ripeto, di non facile lettura ma che restituisce molto di più della fatica che si affronta per leggerlo, e vivamente consigliato, con le avvertenze del caso.
lunedì 2 novembre 2015
Il viaggiatore solitario che sa ascoltare le storie: Luiz Ruffato, Fiori artificiali
E dopo tante ragazze parliamo del bellissimo libro di un cinquantaseienne brasiliano, Luiz Ruffato, Fiori artificiali. Usando una struttura complessa in cui compare un manoscritto inviato a Ruffato da un lettore anche lui brasiliano, Dorio Finetto, che diviene contemporaneamente scrittore e personaggio, l'autore riesce a compiere il miracolo di consegnarci una serie di ritratti di persone di varie nazionalità incontrate in giro per il mondo e narrate con una lingua viva, concreta, semplice e insieme estremamente efficace e piena di immagini splendenti. E' come una collana di racconti che attraggono e appassionano, ognuno dei quali riassume un pezzo della storia del Novecento senza nessuna pretesa didascalica, ma esemplificando l'intreccio tra la vita dell'individuo e quella della società e del momento storico in cui si muove, ognuno incentrato su un incontro tra un personaggio e Dorio Finetto e rielaborato da Luiz Ruffato, che attribuisce all'autore originario uno stile burocratico di cui talora si avverte il retrogusto.
Si incomincia con Una storia inverosimile, l'episodio più lungo, in cui si racconta la vita di Bobby William Clarke, inglese di origine scozzese, soldato contro i Mau Mau, mercenario, vissuto tra Africa e Brasile tra inenarrabili peripezie che lo portano sempre più in basso, fino a incontrare il narratore alla "zuppa di mezzanotte" che un ristoratore compassionevole prepara con tutti gli avanzi del giorno per i più poveri di una cittadina brasiliana di Minas Gerais. Il presente assoluto si svolge a Buenos Aires, protagonista una professoressa francese alla ricerca dell'esperienza assoluta; Il gordo è un brasiliano incontrato a Dolores, in Uruguay, che invita Dorio Finetto a casa, gli fa conoscere la famiglia, lo accoglie con incredibile ospitalità, lo porta a trascorrere una domenica sul fiume. Sotto la cordialità nasconde un dolorosissimo passato, sofferenza e solitudine, all'inseguimento di un'idea del padre sparito quando era bambino e mai più trovato - ma la realtà non è mai quella che appare. In Un pomeriggio all'Avana appare la tristissima Nadia, ragazza mezzosangue russo-cubana, sola e struggente nel suo volonteroso tentativo di fare la puttana. Poi ancora Mangiare sushi a Beirut, protagonista un argentino solitario, professore di sociologia a Tolosa, figlio di emigrati italiani a Buenos Aires, grassone ridanciano che racconta a Dorio la storia della sua famiglia, dal nonno anarchico sparito in un golpe all'agiatezza raggiunta dai genitori, coppia anaffettiva che lo condanna alla solitudine e che rappresenta un nodo con cui non si è mai riconciliato, mentre la sua vita si intreccia strettamente con le turbolenze politiche che attraversano l'Argentina finché si rifugia in Brasile e infine va a Parigi. Susana si svolge a Timor, dove la bellezza maledetta di una ragazza portoghese ha lasciato una traccia d'amore e rimpianto quasi mitologici. E Porto Rico per L'uomo che non sapeva dove morire, un americano veterano del Vietnam, è solo una sosta nel viaggio senza fine in attesa di morire, perché non appartiene a nessun paese.
Infine nel Memoriale descrittivo tutte le tappe della vita da giramondo di Dorio Finetto raccontate fino a quel momento si ricompattano nella biografia di un figlio di emigrati italiani bigotti, con la filosofia del lavoro, che assiste allo sfasciarsi della famiglia, studia, si laurea, va a lavorare Banca Mondiale, gira per il mondo ascoltando la voce dei solitari che dappertutto sembrano aspettarlo per raccontargli le proprie vite, che lui infine offre all'autore perché ne faccia quello che vuole. Il suo viaggiare e lavorare gli appaiono come un lungo sonno, e quando si svegliò, il Novecento era finito E Luiz Ruffato li trasforma in questo libro straordinario, forte nei fatti e delicato nelle parole, ricchissimo di umanità, uno di quei libri che è una fortuna incontrare. Bella traduzione di Gian Luigi De Rosa e Giorgio de Marchis.
Si incomincia con Una storia inverosimile, l'episodio più lungo, in cui si racconta la vita di Bobby William Clarke, inglese di origine scozzese, soldato contro i Mau Mau, mercenario, vissuto tra Africa e Brasile tra inenarrabili peripezie che lo portano sempre più in basso, fino a incontrare il narratore alla "zuppa di mezzanotte" che un ristoratore compassionevole prepara con tutti gli avanzi del giorno per i più poveri di una cittadina brasiliana di Minas Gerais. Il presente assoluto si svolge a Buenos Aires, protagonista una professoressa francese alla ricerca dell'esperienza assoluta; Il gordo è un brasiliano incontrato a Dolores, in Uruguay, che invita Dorio Finetto a casa, gli fa conoscere la famiglia, lo accoglie con incredibile ospitalità, lo porta a trascorrere una domenica sul fiume. Sotto la cordialità nasconde un dolorosissimo passato, sofferenza e solitudine, all'inseguimento di un'idea del padre sparito quando era bambino e mai più trovato - ma la realtà non è mai quella che appare. In Un pomeriggio all'Avana appare la tristissima Nadia, ragazza mezzosangue russo-cubana, sola e struggente nel suo volonteroso tentativo di fare la puttana. Poi ancora Mangiare sushi a Beirut, protagonista un argentino solitario, professore di sociologia a Tolosa, figlio di emigrati italiani a Buenos Aires, grassone ridanciano che racconta a Dorio la storia della sua famiglia, dal nonno anarchico sparito in un golpe all'agiatezza raggiunta dai genitori, coppia anaffettiva che lo condanna alla solitudine e che rappresenta un nodo con cui non si è mai riconciliato, mentre la sua vita si intreccia strettamente con le turbolenze politiche che attraversano l'Argentina finché si rifugia in Brasile e infine va a Parigi. Susana si svolge a Timor, dove la bellezza maledetta di una ragazza portoghese ha lasciato una traccia d'amore e rimpianto quasi mitologici. E Porto Rico per L'uomo che non sapeva dove morire, un americano veterano del Vietnam, è solo una sosta nel viaggio senza fine in attesa di morire, perché non appartiene a nessun paese.
Infine nel Memoriale descrittivo tutte le tappe della vita da giramondo di Dorio Finetto raccontate fino a quel momento si ricompattano nella biografia di un figlio di emigrati italiani bigotti, con la filosofia del lavoro, che assiste allo sfasciarsi della famiglia, studia, si laurea, va a lavorare Banca Mondiale, gira per il mondo ascoltando la voce dei solitari che dappertutto sembrano aspettarlo per raccontargli le proprie vite, che lui infine offre all'autore perché ne faccia quello che vuole. Il suo viaggiare e lavorare gli appaiono come un lungo sonno, e quando si svegliò, il Novecento era finito E Luiz Ruffato li trasforma in questo libro straordinario, forte nei fatti e delicato nelle parole, ricchissimo di umanità, uno di quei libri che è una fortuna incontrare. Bella traduzione di Gian Luigi De Rosa e Giorgio de Marchis.