E menomale che sono riuscita a superare il blocco da compito a casa e ieri sono andata a vedere (per la prima volta, alla mia tenera età!)
Metropolis di Fritz Lang, nella versione restaurata e completa, basata sulla bobina ritrovata presso un collezionista privato nel 2008 a Buenos Aires
in cui era presente il 95% del materiale perduto durante la seconda guerra mondiale. Il film reintegrato, con durata 148 minuti e orchestrazione dal vivo, è stato presentato al 60° Festival internazionale del cinema di Berlino nel 2010.
Non spendo una parola sul film per non offendere i lettori che di certo sanno tutto, ma nel caso vi sfugga qualcosa
lo trovate qui. La vicenda è sicuramente datata e ambigua, anche l'intuizione della città sotterranea degli operai non era nuovissima neanche allora (vedi
La macchina del tempo e i Morlocchi di H.G.Wells, 1895), gli aspetti cristologici e biblici non sono proprio
my cup of tea, l'amore puro e romantico di Maria e Freder contrapposto alla sfrenata libidine della falsa Maria ci fa immediatamente propendere per la seconda, ma niente di tutto ciò è importante. Quello che conta è lo straordinario, affascinante impatto visivo che non viene meno un istante per tutta la durata, mentre il ritmo incalzante aumenta e la vicenda si fa via via frenetica e febbrile, potentemente sottolineata dalla colonna sonora originale di Gottfried Huppertz.
È la scenografia, stupefacente anche senza stare sempre lì a pensare che il film è del 1927: stupefacente e basta. Negli esterni che abbiamo visto e rivisto in moderne meraviglie come i vari
Star wars, con strade pensili, biplani tra le guglie dei grattacieli, i palazzi-alveari degli operai ecc, ma anche negli interni che così sfrenatamente
déco sono magnifici.
E poi quello che mi ha incantato è il fascino magnetico della recitazione antinaturalistica. Tutte le danze di
Brigitte Helm nei panni (scarsi) della Maria robot, le sue espressioni lascive, le posture incredibili che assume muovendosi, i movimenti della testa e degli occhi quando è sul rogo... un piacere assolutamente irresistibile. Anche il padre Joh Frederer di
Alfred Abel è meraviglioso nella sua arrogante indifferenza, e così l'esagerazione espressiva di
Heinrich George, Grot, e la faccia immensamente equivoca di
Fritz Rasp, lo Smilzo. E alcune scene assolutamente geniali, vedi le statue gotiche dei sette vizi capitali e della Morte che prendono vita in un balletto fantasma, o l'effetto della libidine scatenata da Maria robot tra gli elegantoni del bordello in cui si esibisce, o la magnifica scena finale in cui Joh Frederer e Grot provano a scambiarsi una stretta di mano ma non ci riescono proprio. Insomma, alla fine persino il pubblico scafatissimo del cinema Massimo di Torino era tanto commosso che è scoppiato in un applauso.
Il secondo miracolo è avvenuto oggi, sempre al cinema Massimo di Torino dove davano
L'altra Heimat - cronaca di un desiderio di Edgar Reitz. Sono entrata sventatamente, la mia incoscienza mi aveva impedito di realizzare che 240 minuti corrispondono a 3 ore e cinquanta e quando me ne sono resa conto mi è venuto un po' di panico, ma è stata una fortuna anche questa volta perché ho visto uno dei film più straordinari in cui mi sia mai imbattuta. Ambientato nell'
Hunsrück sulla Mosella negli anni 1841-1843, tra strascichi dell'avventura napoleonica, pesanti rigurgiti di feudalesimo e una miseria endemica peggiorata da anni di cattivi raccolti, è l'ultimo capitolo del
progetto Heimat. Protagonista il giovane Jakob Simon, figlio di un fabbro e inadatto alla vita dei campi ma grande lettore, sognatore e acutissimo studioso sui pochi libri che riesce a collezionare. Intorno a lui la famiglia, la madre tisica ma aggrappata alla vita che ha sepolto sei figli, il padre ottuso e lavoratore, il fratello Gustav destinato a rubargli tutte le occasioni che la vita gli offre, la sorella Lena ripudiata perché ha sposato un cattolico.
E poi le ragazze e tutti gli altri gli abitanti del villaggio, un mondo cui ci si sente subito di appartenere perché è un'epitome dell'umano, un'enciclopedia della vita. Sono gli anni della grande emigrazione verso il Brasile: le teorie di carri carichi di masserizie e la processione di persone che li seguono, stagliati contro il cielo grigio senza confini, sono un'immagine di grande potenza, mentre i sette funeralini che si incrociano per le vie del villaggio durante l'epidemia di difterite danno la misura delle tragiche condizioni di vita del peiodo. Jacob sogna di emigrare, sogna il Brasile, sa tutto il possibile sugli indiani amazzonici, persino le sfumature che differenziano i vari dialetti (o lingue, come intuirà più tardi). Ma il suo sogno è destinato a non diventare mai realtà.
Le vicende si svolgono ipnotiche e armoniose come spirali di fumo, nel villaggio ricostruito con cura immensa nei minimi dettagli, e spingono a una partecipazione arresa ai dolori e alle poche gioie dei magnifici personaggi (e magnifici interpreti). C'è storia e umanità, ricostruzione filologica e profonda empatia, tanto che malgrado la lunghezza separarsene è difficile. Il bianco e nero delle meravigliose immagini è appena interrotto ogni tanto da qualche nota di colore, una parete azzurra, un'agata trasparente. Partecipazione straordinaria di Werner Herzog nei panni di Alexander von Humboldt. E se
Metropolis è una gioia per gli occhi e per la mente,
L'altra Heimat è anche, e soprattutto, una gioia del cuore. E non mi vergogno di ammettere che mi ha profondamente coinvolta. Anche qui, per dire che i torinesi sono capaci di lasciarsi andare, mentre uscivo una giovane signora che ho incrociato ancora nel buio dei titoli di coda, mi ha detto in un sussurro stupefatto: che bello!
Il tutto poi, nelle stesse sale in cui di ultimo ho visto orride americanate reazionarie come
Whiplash o totalmente inutili come
Birdman o storielline da oratorio come
La famiglia Bélier, tanto per non fare nomi. Ma il bel cinema, antico o nuovo, grazie al cielo esiste ancora, pronto a farci evadere dalla miseria delle nostre vite e accompagnarci nel favoloso Brasile che tutti sogniamo.