L'atmosfera peri-post-nataliza, e i cattivi sentimenti da cui sono pervasa in questo periodo, sono un ottimo terreno di coltura per i sensi di colpa. Per cui per la prima e ultima volta faccio una segnalazione a un ebook che mi è stato inviato dall'autore e che fa pesantemente ricorso al ricatto emotivo. Siccome è un libro per bambini, argomento di cui non so niente e su cui non ho opinioni, non entro nel merito: posso dire solo che mi sembra semplice, scorrevole, con illustrazioni gradevolmente tradizionali e un messaggio buonista al massimo grado. Lasciamo perdere Babbo Natale che non proprio my cup of tea, però affronta il tema dei bambini down e questo, dobbiamo dargli atto, è lodevole.
Quindi dategli un'occhiata e compratelo qui se nei dintorni avete bambini muniti di tablet o ereader e volete farvi dei meriti, o farvi perdonare qualche peccato.
Ma sappiate che non ricadrò mai in in una debolezza come questa. Cattiva sono, e cattiva resto.
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martedì 30 dicembre 2014
domenica 28 dicembre 2014
Per non dimenticare Julio: Racconti italiani di Julio Monteiro Martins
Julio Monteiro Martins, Racconti italiani (2001)
Uno scrittore brasiliano, con nove libri pubblicati in patria, un passato politico nel campo ambientalista e dei diritti umani, esperienze di di insegnamento universitario negli Usa, gran giramondo, trapiantato a Lucca dove tra l'altro ha inventato "Scrivere Oltre le Mura", ha fondato la Scuola Sagarana, Master di scrittura narrativa, e ora si presenta con questa raccolta di ventinove racconti brevi. Certamente ha tutte le carte in regola perché la sua voce si senta alta e forte nel coro nascente di "stranieri che scrivono in italiano". Tuttavia ha scelto un registro molto particolare, rifuggendo dall'autobiografia diretta. Privilegia la prima persona e soprattutto il nudo dialogo tra interlocutori anonimi, o utilizza i messaggi di una chat line, lettere e appunti, per creare lampi di dolorosa memoria (tra i miei preferiti Desperada, Il materiale scenico del ricordo, Senza sosta, Resoconto) o brevi teatrini sospesi nel vuoto di un'ambientazione appena accennata. La postfazione ci informa che l'autore considera il suo "un libro della narrativa brasiliana" e nulla mi spinge a contraddirlo. Io però l'ho letto come un libro, per così dire, espatriato, fluttuante nel mondo (e anche nello spazio, cfr. Terraforming, ambientato su Marte), in cui Monteiro Martins sceglie di parlare della sua esperienza di uomo che vive in un paese straniero prestando la voce a un marocchino (Ottantacinque, ottantanove), ai ragazzi di un centro di accoglienza (Angeli in Europa) o a italiani che inseguono il sogno della fuga in Giappone, a Trebisonda, addirittura in gommone in Australia (Il puteale e la bella coreana, Hic sunt leones, You call me Mimmo). D'altronde l'esergo di Plutarco recita: "Anche nascere è giungere in un paese straniero".
È anche un libro da leggere una prima volta per appropriarsene, e una seconda per goderne con lentezza i pensieri e le parole, colto e raffinato, cerebrale senza essere freddo, scritto in una lingua preziosa. Con lo stesso rispetto e la stessa passione con cui descrive una donna molto amata:
"E si era sedimentata intorno a me, io non ho fatto proprio nulla, ero lì, seduto sul fondo dell'acquario, e lei è scesa lentamente come una sabbia finissima e si è depositata intorno a me, dentro la mia vita. La mia unica saggezza fu quella di non permettere, mentre lei scendeva, che le acque si agitassero (In naturalibus).
Sicuramente Racconti italiani segna una delle molte strade che potrà prendere la nuova letteratura d'ibridazione interculturale, ed è una strada stimolante, di grande interesse.
Uno scrittore brasiliano, con nove libri pubblicati in patria, un passato politico nel campo ambientalista e dei diritti umani, esperienze di di insegnamento universitario negli Usa, gran giramondo, trapiantato a Lucca dove tra l'altro ha inventato "Scrivere Oltre le Mura", ha fondato la Scuola Sagarana, Master di scrittura narrativa, e ora si presenta con questa raccolta di ventinove racconti brevi. Certamente ha tutte le carte in regola perché la sua voce si senta alta e forte nel coro nascente di "stranieri che scrivono in italiano". Tuttavia ha scelto un registro molto particolare, rifuggendo dall'autobiografia diretta. Privilegia la prima persona e soprattutto il nudo dialogo tra interlocutori anonimi, o utilizza i messaggi di una chat line, lettere e appunti, per creare lampi di dolorosa memoria (tra i miei preferiti Desperada, Il materiale scenico del ricordo, Senza sosta, Resoconto) o brevi teatrini sospesi nel vuoto di un'ambientazione appena accennata. La postfazione ci informa che l'autore considera il suo "un libro della narrativa brasiliana" e nulla mi spinge a contraddirlo. Io però l'ho letto come un libro, per così dire, espatriato, fluttuante nel mondo (e anche nello spazio, cfr. Terraforming, ambientato su Marte), in cui Monteiro Martins sceglie di parlare della sua esperienza di uomo che vive in un paese straniero prestando la voce a un marocchino (Ottantacinque, ottantanove), ai ragazzi di un centro di accoglienza (Angeli in Europa) o a italiani che inseguono il sogno della fuga in Giappone, a Trebisonda, addirittura in gommone in Australia (Il puteale e la bella coreana, Hic sunt leones, You call me Mimmo). D'altronde l'esergo di Plutarco recita: "Anche nascere è giungere in un paese straniero".
È anche un libro da leggere una prima volta per appropriarsene, e una seconda per goderne con lentezza i pensieri e le parole, colto e raffinato, cerebrale senza essere freddo, scritto in una lingua preziosa. Con lo stesso rispetto e la stessa passione con cui descrive una donna molto amata:
"E si era sedimentata intorno a me, io non ho fatto proprio nulla, ero lì, seduto sul fondo dell'acquario, e lei è scesa lentamente come una sabbia finissima e si è depositata intorno a me, dentro la mia vita. La mia unica saggezza fu quella di non permettere, mentre lei scendeva, che le acque si agitassero (In naturalibus).
Sicuramente Racconti italiani segna una delle molte strade che potrà prendere la nuova letteratura d'ibridazione interculturale, ed è una strada stimolante, di grande interesse.
sabato 27 dicembre 2014
Un giallo torinese che ci porta nel cuore più autentico della città: Giuliana Olivero, La confessione
Un giallo torinese svelto e molto leggibile, che comincia in maniera fulminante: all'interno del labirintico complesso del Valdocco, cittadella dei Salesiani, un anziano prete è trovato morto, con la testa fracassata e gli abiti in disordine. Il colpevole, un giovane romeno ospite del convitto, viene arrestato e confessa subito. Storia finita? No, gli sviluppi sono molti e molto inaspettati, tanto che Hervé Farcoz, ex carabiniere e investigatore privato, e la sua socia Odetta Giachery sono costretti a inseguire la verità tra misteriose sette di seguaci di Odino, bar equivoci, traffici illeciti e disinibite insegnanti. Torino si dispiega nelle sue bellezze e bruttezze, eleganze e squallori da Porta Pila a Piazza Maria Teresa, e malgrado l'afa che la schiaccia è raccontata con amore e ben descritta nelle contraddizioni portate da nuova immigrazione e vecchia delinquenza. E alla fine si resta con la voglia di leggere un'altra avventura della strana coppia di detective che ci hanno conquistato con i loro battibecchi su modernità e tradizione, computer e macchina da scrivere, piole e localini trendy.
venerdì 26 dicembre 2014
Nun me piace 'o presepe!!!
So benissimo che questo post, se qualcuno mai lo leggerà, non mi renderà più popolare né stimata. Ma sono pronta a correre il rischio. E adesso che è passato lo dichiaro subito, senza mezzi termini: odio il natale. Da anni lo subisco con grande insofferenza e penso che sia una tremenda imposizione con cui tutti quanti dobbiamo venire a patti. E non venitemi fuori con la solita storia dei bambini: i bambini aspettano il natale perché sono i grandi che gli creano questa aspettativa. Non mi piacciono né la nostalgia né lo sciorinamento dei ricordi che sono tutti uguali, noiosissimi e poi chi se ne frega. Per cui di questi tempi la mia comprensione va tutta a quelli come me, e a tutti i non cristiani cui vengono inflitti presepi in ogni angolo, angeli a plotoni e stelle comete dovunque. Il 24, per dire, l'offerta lampo Kindle era costituita da tre libri del papa. Per molti anni mi sono chiesta se era meglio, meno faticoso, lasciarsi travolgere dalla valanga di melensaggine o si doveva resistere. Alternativamente ho adottato uno o l'altro dei comportamenti, ma poi ho scelto il secondo (nella misura in cui ci riesco: cioè con pesanti contraddizioni).
Il fatto è che è difficilissimo sopravvivere tra canzoncine, piccini biondi, neve e lucine intermittenti, senza diventare matti o pensare al suicidio. Chiedo comprensione ma non voglio convincere nessuno. Non cerco neanche approvazione. Se fossimo su Facebook, vorrei che oltre al "mi piace" e condivido" ci fosse un pulsante "ti capisco".
E non voglio neanche dire che non mi piacciono gli auguri, la ricerca di attenzione degli amici, il momento di esternazione dell'affetto, i pranzi allegri insieme, perché voglio bene ai miei amici tutto l'anno, non solo dal 23 al 25 dicembre. Faccio una proposta: istituiamo il giorno del "voglio bene ai miei amici", con data fluttuante che ognuno se lo sceglie, e se qualcuno non vuole dirglielo è libero di non farlo, e se invece lo fa può evitare scampanellii e white christmas.
O forse sono solo di cattivo umore.
E comunque Gesù Bambino non mi ha mai portato quello che gli ho chiesto, cioè tutto quello che non ho più.
Il fatto è che è difficilissimo sopravvivere tra canzoncine, piccini biondi, neve e lucine intermittenti, senza diventare matti o pensare al suicidio. Chiedo comprensione ma non voglio convincere nessuno. Non cerco neanche approvazione. Se fossimo su Facebook, vorrei che oltre al "mi piace" e condivido" ci fosse un pulsante "ti capisco".
E non voglio neanche dire che non mi piacciono gli auguri, la ricerca di attenzione degli amici, il momento di esternazione dell'affetto, i pranzi allegri insieme, perché voglio bene ai miei amici tutto l'anno, non solo dal 23 al 25 dicembre. Faccio una proposta: istituiamo il giorno del "voglio bene ai miei amici", con data fluttuante che ognuno se lo sceglie, e se qualcuno non vuole dirglielo è libero di non farlo, e se invece lo fa può evitare scampanellii e white christmas.
O forse sono solo di cattivo umore.
E comunque Gesù Bambino non mi ha mai portato quello che gli ho chiesto, cioè tutto quello che non ho più.
mercoledì 24 dicembre 2014
Julio Monteiro Martins, uno scrittore e un uomo che non dimenticheremo
Julio Monteiro Martins è mancato oggi, nelle parole della sua compagna Alessandra "oggi il nostro Julio ha deciso di lasciarci, che era
giunto il momento, se n’è andato sereno, tranquillo, lucido, circondato
dall’amore della sua famiglia e degli amici e senza soffrire decidendo di
lasciarsi addormentare per poi piano piano scivolare nel suo sonno eterno. La malattia l’ha affrontata da guerriero qual era, con
coraggio, senza risparmio di forze e anche con fede, una fede laica, e speranza
perché lui era così: un uomo che sapeva raccontarsi una realtà più felice di
quella che era, un uomo che volava e immaginava cose belle".
Io l'ho conosciuto vent'anni fa a Lucca, quando con l'amica Giuse Lazzari, anche lei scrittrice, ho frequentato un corso tenuto da Julio nell'ambito della manifestazione "Scrivere oltre le mura" da lui organizzata. Una settimana stimolante e piena, con le lezioni tenute in una casamatta sulle mura della città la mattina, e incontri con scrittori al pomeriggio. Ne ho conservato un ricordo prezioso legato all'interesse delle lezioni, allo spessore umano e intellettuale di Julio, al piacere che dava ascoltarlo parlare con il suo incantevole accento brasiliano, al fascino della cornice bellissima, e anche all'amicizia stabilitasi in quell'occasione che ha portato a una collaborazione durata negli anni, a una mia partecipazione alla rivista Sagarana, al mio costante interesse per i suoi libri, e proprio negli ultimi tempi, grazie alla sua segnalazione ci siamo trovati insieme nelle pagine di HOTell, Storie da un tanto all'ora, uscito quest'estate.
E non lo dimenticherò, non lo dimenticheremo. E rimarranno i suoi libri a ricordarlo anche a chi non ha avuto la fortuna di conoscerlo.
Qui di seguito, la recensione di un suo libro uscito da Besa nel 2005.
JULIO MONTEIRO MARTINS
MADRELINGUA
Che cosa pensereste di uno scrittore che, dopo avervi messo sul gusto presentandovi i suoi personaggi, mettendoli in movimento, lasciasse voi e loro nel bel mezzo dell’azione appena iniziata per stilare una “piccola enciclopedia arbitraria” di voci fugacemente apparse nel testo? Che vuole esasperare il lettore, o non sa più come andare avanti, o semplicemente è pazzo. Invece Monteiro Martins sa benissimo dove vuole andare, e lo fa con coraggio e maestria, conducendoci per mano nel suo gioco divertente e pieno di intelligenza. Piazza Mané, sessantenne “consumatore di bellezza”, la sua amante K43, il bancario-cinefilo Salvo e Mercedes, espatriata colombiana, su una scacchiera e li fa muovere da un narratore quarantaseienne che assomiglia pericolosamente a Mané e da un petulante secondo narratore che interviene di continuo, in parentesi quadra, a sbugiardare e irridere il primo. L’intento, dichiarato nel preambolo, è quello di scrivere un romanzo decostruito, un’architettura matta, con scale che portano nel vuoto e pareti inesistenti. L’uso insistito del dialogo, tipico di Monteiro Martins, si alterna a citazioni di altre opere dell’autore (Racconti italiani, LN – LibriNuovi 17, primavera 2001 e La passione del vuoto, LN – LibriNuovi 29, primavera 2004), a digressioni sull’attuale situazione politica italiana (con un minaccioso Lui che incombe sulla società con la sua volgare e subdola pretesa di ridurre tutto a commercio), a considerazioni generali, persino a incantate descrizioni della natura. Il teatro dell’azione è una Firenze tra bellezza e sfascio ma altrettanto potenti e presenti sono la Colombia violenta del degrado sociale e il Brasile dei ricordi d’infanzia. Le voci dell’enciclopedia privata sono un piacere prezioso nel loro erratico vagare tra il calcio di Pelé e Garrincha, il cinema di Benigni e De Sica, Borges, Pasolini e gli zombie. Alla fine l’istinto del narratore prende il sopravvento, quasi impietosito di fronte alle aspettative di chi legge, Monteiro Martins ci regala la possibilità di dare uno sguardo sui destini dei personaggi, e persino un lieto fine multiplo ma senza troppe certezze.
Un
libro agile che si legge d’un fiato, in cui il gioco metaletterario e la densa ma
veloce tentazione saggistica non appesantiscono mai il piacere genuino della
parola narrativa, spiritoso e ricchissimo di temi che non possono essere
esauriti nel breve spazio di una recensione.
lunedì 22 dicembre 2014
Perché è un bel libro e perché facciamo il tifo per Julio: Julio Monteiro Martins, La passione del vuoto
Pubblico questa recensione comparsa a suo tempo su LN-LibriNuovi (La passione del vuoto è del 2003) perché aderisco a una iniziativa degli amici di Julio Monteiro Martins
JULIO MONTEIRO MARTINS
LA PASSIONE DEL VUOTO
Sono racconti brevi, a volte brevissimi, che
spaziano nel tempo e nei luoghi senza mai insistere sulle note d'ambiente, come
se per JMM, che ha vissuto nel mondo e viaggiato sempre, qualsiasi luogo e
qualsiasi tempo fossero ugualmente a disposizione, intercambiabili in funzione
del frammento di vicenda che ci vuole narrare. Così passiamo dal Brasile
dell'inquietante ricordo infantile di Hotel
Till al Nicaragua e all'Honduras di La
Viejamota, al futuro di Oltre.
Spesso le voci dei personaggi risuonano sole nel vuoto, come dialoghi vaganti
nell'etere di questa epoca affamata di comunicazione, nuvole di parole, palloni
senza freno da cogliere sporgendo una mano fuori dalla nostra personale bolla
di individualità. E anche i racconti più strutturati secondo un genere, come
può apparire a una prima lettura Eriza
Bay, comunicano inquietudine e mistero. Sono lacerti sparsi di vite senza
significato, senza ormeggio, carichi di fascino e suggestioni piene di echi,
come pietre lanciate in uno stagno che spandono i loro cerchi nell'acqua fonda
dell'esistenza.
Però, come lettrice italiana, devo dire che mi hanno
colpito in particolare quei racconti che rimandano un'immagine algida e
spietata dell'Italia di oggi. Ci vuole l'occhio, la voce di uno
"straniero" per dipingere con tanta esattezza il ritratto del nostro
paese sofferente. Sofferente di vuoto, di mancanza di significato. Leggendo Istantanee italiane, Vittorio, Il pane
bianco, L'irruzione, La passione del vuoto viene una specie di vertigine.
Sto spiando me stessa allo specchio? O guardo l'Italia dal buco della
serratura? La scrittura di JMM, cristallina ma capace di farsi mimetica quando
è necessario, non scende a compromessi con la verità. E' compassionevole ma
tanto sincera da fare male. Se ne esce migliori, più lucidi, con gli occhi più
aperti.
L'ultimo racconto, Magia, è metafora e autoritratto dello scrittore, il Mago delle
Parole, che costruisce mondi di sogno con la sola forza della fantasia e del
Verbo che si fa Luce. E così facendo sfama, guarisce e dona pace all'infelicità
umana.
La passione
del vuoto è
un libro che dobbiamo leggere per sapere come appariamo a chi ci guarda con l'affetto
della scelta e il distacco della non appartenenza. E' anche un libro scritto
benissimo, il libro di uno scrittore di razza e di pensiero. Un libro
necessario, che dà molto e richiede cura e attenzione da parte del lettore.
domenica 21 dicembre 2014
La casalinga felice con l'ossessione della verità: Una lettera dal passato di Max Simon Ehrilch
Non bisogna farsi ingannare da quella che sembra l'ennesima storia di un matrimonio: Una lettera dal passato di Max Simon Ehrlich ( 1909-1983), uscito nel 1955 e pubblicato in italiano da Frassinelli nel 2012, è un libro spiazzante. Vi si parla di individuo e società, di giustizia e affetti privati, famiglia e etica, e le parole sono americane (molto) ma i conflitti sono universali. Ambientato nei primi anni Cinquanta, inizia con un doppio prologo in cui vediamo due famiglie, una infelice e l'altra infelice, che senza saperlo contribuiscono allo sconquasso della famiglia protagonista impedendo alla lettera del titolo di arrivare al suo indirizzo. Dieci anni dopo, Martha e George, due ricchi borghesi che abitano in una bellissima casa nei sobborghi di New York e si amano appassionatamente, si preparano a festeggiare il matrimonio della figlia e la promozione a capitano del figlio quando il postino finalmente consegna una busta spiegazzata... E' indirizzata a George ma la legge Martha. Quello che viene a scoprire la sconvolge perché si tratta di un segreto del passato di George. Il suo mondo si sgretola sotto l'urto del sospetto, in un fatale crescendo che nemmeno i colpi di scena e il rovesciamento finale riescono a fermare.
La narrazione è un po' prolissa e non fa stare con il cuore in gola né spinge a girare freneticamente le pagine (se non, magari, per affrettare un po' la lettura), ma cresce lentamente e fa molto pensare, il che di questi tempi di letteratura di genere escapista (malgrado l'aspetto "impegnato" nel thriller non c'è mai il tempo di riflettere sul contenzioso tranne in casi molto rari, vedi Ferdinand von Schirach), rosa o da pensiero unico (disgrazie, malattia, guerre in cui è fin troppo evidente che c'è una sola parte da cui stare), è un grandissimo merito. E lasciamo perdere se il personaggio di Martha, tutta calata nei ruoli femminili di moglie e madre, è un po' claustrofobico e fa venire i nervi, e se attraverso i suoi occhi povertà e miseria coincidono con bruttezza, squallore e pochezza dei poveri, sgradevoli e sporchi quindi cattivi. E' solo un personaggio, e poi sta in un romanzo americano degli anni Cinquanta, quelli delle casalinghe felici in grembiulino che aspettano i mariti commuters con un Martini in mano. Ciò che conta è il dilemma in cui si trova, che verte, più che sugli affetti, sulla verità: vedi l'episodio della sua infanzia di figlia di pastore luterano, in cui un furto di venti centesimi di dollaro è percepito come gravissimo non certo per l'entità ma perché frutto di una menzogna. E proprio l'impossibilità di perdonare la menzogna e la necessità di dire la verità costituiscono la terribile trappola in cui si impiglia la sua vita. Anche se tutti ripetono che la famiglia viene prima di tutto, che sono disposti a tutto per proteggerla, in realtà la famiglia è una gabbia, l'amore da solo non riesce a vincere la forza del caso e l'individuo non può che soccombere. Alla fine prevale un disperato pessimismo perché gli innocenti sono colpevoli, tutti sono colpevoli, chi per avere fatto chi per non saper dare.
Lo consiglio? Non so. Ha molti meriti, come ho già detto, in tempi in cui immagine e storie prevalgono sul pensiero e dio ci scampi sul dibattito (e io per prima tendo a leggere libri poco problematici), ma forse è un po' datato, consigliabile ai lettori forti curiosi e capaci di concedere al contesto quello che è del contesto.
Elegante traduzione di Maurizio Bartocci.
La narrazione è un po' prolissa e non fa stare con il cuore in gola né spinge a girare freneticamente le pagine (se non, magari, per affrettare un po' la lettura), ma cresce lentamente e fa molto pensare, il che di questi tempi di letteratura di genere escapista (malgrado l'aspetto "impegnato" nel thriller non c'è mai il tempo di riflettere sul contenzioso tranne in casi molto rari, vedi Ferdinand von Schirach), rosa o da pensiero unico (disgrazie, malattia, guerre in cui è fin troppo evidente che c'è una sola parte da cui stare), è un grandissimo merito. E lasciamo perdere se il personaggio di Martha, tutta calata nei ruoli femminili di moglie e madre, è un po' claustrofobico e fa venire i nervi, e se attraverso i suoi occhi povertà e miseria coincidono con bruttezza, squallore e pochezza dei poveri, sgradevoli e sporchi quindi cattivi. E' solo un personaggio, e poi sta in un romanzo americano degli anni Cinquanta, quelli delle casalinghe felici in grembiulino che aspettano i mariti commuters con un Martini in mano. Ciò che conta è il dilemma in cui si trova, che verte, più che sugli affetti, sulla verità: vedi l'episodio della sua infanzia di figlia di pastore luterano, in cui un furto di venti centesimi di dollaro è percepito come gravissimo non certo per l'entità ma perché frutto di una menzogna. E proprio l'impossibilità di perdonare la menzogna e la necessità di dire la verità costituiscono la terribile trappola in cui si impiglia la sua vita. Anche se tutti ripetono che la famiglia viene prima di tutto, che sono disposti a tutto per proteggerla, in realtà la famiglia è una gabbia, l'amore da solo non riesce a vincere la forza del caso e l'individuo non può che soccombere. Alla fine prevale un disperato pessimismo perché gli innocenti sono colpevoli, tutti sono colpevoli, chi per avere fatto chi per non saper dare.
Lo consiglio? Non so. Ha molti meriti, come ho già detto, in tempi in cui immagine e storie prevalgono sul pensiero e dio ci scampi sul dibattito (e io per prima tendo a leggere libri poco problematici), ma forse è un po' datato, consigliabile ai lettori forti curiosi e capaci di concedere al contesto quello che è del contesto.
Elegante traduzione di Maurizio Bartocci.
sabato 13 dicembre 2014
Un thriller scandinavo, anzi islandese: Arnaldur Indridason, Sotto la città
Un giorno o l'altro qualcuno mi deve spiegare perché c'è questa mania per i gialli, o thriller, o noir, scandinavi. Me lo spiego solo con la stufite per gli americani e i loro sparatori muscolari, e per l'esotismo profondo che rappresentano per noi le ambientazioni nordiche. Non conosco Stieg Larsson perché ho visto i film (belli) e non ho avuto poi voglia di leggere i libri, ma ho letto Henning Mankell, Anne Holt, Camilla Lackberg, e appunto Arnaldur Indridason di cui qui si parla. Che cosa ne penso non lo dico, ma non ne penso niente di che. Di Indridason avevo già letto Un caso archiviato, che non ho neppure recensito perché non mi aveva detto niente, e forse anche Un corpo nel lago, ma non sono sicura. Protagonista dei gialli di Indridason è Erlendur Sveinsson, commissario di polizia che più stropicciato e incasinato a livello personale non si può: divorziato, solitario, non parla con l'ex moglie da vent'anni, un figlio alcolizzato e una figlia drogata, in questo romanzo incinta, ovviamente non si sa di chi. Anche nervoso e neanche tanto in accordo con i suoi collaboratori. La vicenda, e qui tutti i miei preconcetti si sono ravvivati e confermati, gira intorno a argomenti supersfruttati e molto alla moda: violenza sulle donne, genetica, l'immancabile segreto dal passato e tanto per non negarsi nulla, pure una ragazza molestata dal padre fin dall'infanzia. Le indagini vanno avanti sotto una pioggia battente senza grandi sorprese né spreco di azione, diciamo che è facile dimenticare di che cosa si sta parlando ma insomma non viene voglia di mollarlo a metà. Forse la mia delusione è dovuta anche al fatto che ho una grandissima ammirazione per la letteratura islandese, venero Halldór Laxness, ammiro Jón Kalman Stefánsson e parecchi altri che non sto a ricordare. Mi impressiona il numero di grandi scrittori in quel paese, o anche semplicemente di scrittori, in rapporto a quello degli abitanti. Quindi da uno scrittore di thriller islandese, anche tenendo conto dell'ambientazione straordinaria che ha a disposizione, mi aspetto molto molto di più. Indridason ha una scrittura modesta e un'immaginazione poco fascinosa. Si può leggere, beninteso, in un momento di depressione, quando si è in coda e si dispone di un'attenzione limitata, per passare una domenica pomeriggio di pioggia, ma insomma si può anche farne a meno. La cosa bella di Sotto la città è che è tradotto da Silvia Cosimini, eccellente traduttrice di autori assai più prestigiosi, che gli presta comunque una lingua fluida e elegante.
martedì 9 dicembre 2014
Quello a cui tengo di più, e ve lo affido tremando! Gli anni al sole, l'autore sono me.
E questo arriva per ultimo perché ci tengo tanto, troppo, e ho fatto una fatica immane a staccarmene. Ma viene il momento che anche i figli più cari devono andarsene per la loro strada, no? Spero di avere fatto il possibile per lui, di avergli dato tutto quello che gli serve per essere amato anche dagli altri...
Ecco, per esempio posso garantire che in Gli anni al sole non ci sono metafore melense e banali come questa, di cui ho fatto uso solo per superare il momento difficile. Si svolge in uno dei posti che amo di più, l'isola greca di Chios, nella seconda metà dell'Ottocento, un po' a Londra e un po' nella Francia del nord. Termine ante quem, il 1881. Racconta di Alain, della sua fatica per essere all'altezza delle aspettative delle donne, dei guai tremendi in cui lo cacciano tutte quante, sorelle amiche e amanti, di lettere rubate (sì!), di agnizioni, delitti e tradimenti, canzoni e mastìcha. Eccetera eccetera. Non sono brava a fare riassunti. Un po' è un romanzo di formazione che parla della difficoltà di crescere e districare i sentimenti, della responsabilità, della necessità di capire il prossimo e l'amore, e un po' è un feuilleton dove ne succedono di belle e di brutte seguendo tutte le convenzioni del genere. Comunque è un romanzo unitario: niente divagazioni, inserti di racconti, false piste. Questo lo dico per rassicurare chi ha già letto qualcosa di mio e probabilmente non ha nessuna intenzione di ripetere l'esperienza: provateci, lo giuro croce in bocca, è proprio un romanzo tradizionale. Lo trovate qui, insieme a tutti gli altri.
Ecco, per esempio posso garantire che in Gli anni al sole non ci sono metafore melense e banali come questa, di cui ho fatto uso solo per superare il momento difficile. Si svolge in uno dei posti che amo di più, l'isola greca di Chios, nella seconda metà dell'Ottocento, un po' a Londra e un po' nella Francia del nord. Termine ante quem, il 1881. Racconta di Alain, della sua fatica per essere all'altezza delle aspettative delle donne, dei guai tremendi in cui lo cacciano tutte quante, sorelle amiche e amanti, di lettere rubate (sì!), di agnizioni, delitti e tradimenti, canzoni e mastìcha. Eccetera eccetera. Non sono brava a fare riassunti. Un po' è un romanzo di formazione che parla della difficoltà di crescere e districare i sentimenti, della responsabilità, della necessità di capire il prossimo e l'amore, e un po' è un feuilleton dove ne succedono di belle e di brutte seguendo tutte le convenzioni del genere. Comunque è un romanzo unitario: niente divagazioni, inserti di racconti, false piste. Questo lo dico per rassicurare chi ha già letto qualcosa di mio e probabilmente non ha nessuna intenzione di ripetere l'esperienza: provateci, lo giuro croce in bocca, è proprio un romanzo tradizionale. Lo trovate qui, insieme a tutti gli altri.
Tutte queste donne.
Maledetta Eva e la sua mela, e benedetto il loro dolce seno, le labbra morbide,
i fianchi frementi, il resto che non nomino. Tutto quello che vorrei conoscere
di Saskia e ancora mi è ignoto. Sono sul ciglio, forse precipiterò, forse
rimarrò per sempre in bilico, dondolando a piedi fermi davanti al baratro del
rischio senza rete che uomini e donne, per una volta d’accordo, chiamano
amore.