Venerdì 1 febbraio alle 21,15, alla Galleria delle Donne di Torino, in via Fabro 5, presenterò "Il prossimo tuo" di Marisa Porello, insieme all'autrice. Sarà l'occasione per parlare con Marisa del suo romanzo pubblicato da Alga tra i finalisti dell'edizione 2013, della sua esperienza di scrittrice, delle sue aspettative, e anche per rispondere alle domande che il pubblico vorrà rivolgerle.
La partecipazione alla serata è riservata alle donne.
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lunedì 28 gennaio 2013
giovedì 24 gennaio 2013
They're taking the hobbits to Isengard
Non metto mai musica perché sono crassamente ignorante e non mi interessa granché ma questa, praticamente una scoperta archeologica, mi entusiasma! Erwin Beekveld, They're taking the hobbits to Isengard
giovedì 17 gennaio 2013
Ragazze, non fate le maestre! Il sadismo degli scrittori e i luoghi comuni.
AA VV, Le Maestrine
Nella
nuova e già amata libreria Il Ponte sulla Dora si possono fare incontri magici,
tra l’altro molti Sellerio d’antan (vedi il precedente post): e potevo farmi
scappare il succulento Maestrine – Dieci
racconti e un ritratto, che soddisfa in un colpo solo la mia torbida
passione per le antologie di racconti insieme alla fascinazione per l’altrettanto
torbido argomento? Domanda che più retorica non si può e infatti eccomi qua che
ne parlo. La prima osservazione è che le maestrine, che a me parevano tanto ricche
di possibilità trasgressive e pruriginose, in realtà stimolano esclusivamente
il sadismo, sia negli scrittori che nelle scrittrici. L’antologia, pubblicata
nel 2000 a cura di Vincenzo Campo, schiera lodevolmente cinque scrittrici
(Neera, Negri, Pariani, Prosperi, Serao) e sei scrittori (Di Giacomo, Dossi,
Moretti, Pirandello, Scerbanenco, Tozzi) e come si vede quasi tutti, con
l’esclusione di Scerbanenco e Pariani, molto lontani nel tempo. Certo anche
l’argomento è lontanissimo dai nostri giorni e forse privo di appeal per gente
più sensata di me. Sta di fatto che le maestrine qui narrate, raga sono una banda di
sfigatissime, votate senza eccezione alla zittellaggine non scelta e al
sacrificio, sbeffeggiate perché brutte e sole, compatite, destinate a morte
tristissima, e se proprio gli va bene, spettatrici silenziose di drammi altrui. Sono tutte ragazze di bassa estrazione o figlie di famiglie impoverite, ma il fatto che abbiano studiato e si siano trovate un'occupazione retribuita non è mai visto come promozione sociale, bensì come un ripiego o una condanna.
Si salvano quelle che abbandonano presto l’ingrato mestiere e quelle che si
limitano a dare lezioni in casa, attività evidentemente molto meno pericolosa dell’insegnamento
nelle scuole statali.
Si
comincia con Carlo Dossi, La maestrina d’inglese,
storia ironica e interessante sia per la lingua folle che oggi risulta anche un
po’ indigesta, ma curiosa, sia per il finale per una volta davvero
soddisfacente oltre che anticonformista. Neera è malignissima con Una lezione di lingua tedesca, in cui
conferma tutti i peggiori luoghi comuni sulle sue compagne di sesso; Matilde
Serao, Alla scuola, ci va giù pesante
con il patetico ma per una volta non è la maestra la vittima; Salvatore Di
Giacomo non si smentisce con una storia strappacuore, Quarto piano, interno 4, che come la precedente fa spuntare il
sospetto che le maestrine portino anche sfiga; la Maestra di campagna di Carola Prosperi è la più infelice di tutte,
sola in un villaggio dove piove senza requie e sfruttata dalla famiglia senza cuore,
con un destino che forse, a ben guardare, non sarà così tremendo come vorrebbe l’autrice;
Marino Moretti con un filino di perfidia si fa beffe delle illusioni di una
ultratrentenne che coltiva ancora sogni d’amore e forse riuscirà a realizzarli
grazie, nientepopodimeno, che a Edmondo De Amicis. Dispiace leggere La maestrina Boccarmè di Luigi
Pirandello, pieno di luoghi comuni, banalità e una visione delle donne che
toglie il fiato per angustia. Il racconto di Ada Negri, La cacciatora, è sicuramente il migliore per costruzione e
robustezza, e per una volta si vede una banda di donne allegre che si divertono
senza uomini, vengono tratteggiate figure davvero originali e piene di vita. Però
l’influenza dei racconti precedenti ci lascia con il dubbio che se non fosse
scappata in tempo, anche la simpatica maestrina poetessa che racconta quella
stagione giovanile sarebbe finita come le altre disgraziate. Su Giorgio
Scerbanenco e la Verità su una maestrina
stendiamo un pietoso velo: patetismo e sadismo vanno a braccetto in un
raccontino che non fa veramente onore al suo autore. E neanche Laura Pariani si
sottrae al luogo comune maestrina uguale sfiga, amore infelice, solitudine e
masochismo, e Le guerre di Ada, 13
novembre 1887 non convince né interessa. L’ultimo tocco, Un ritratto di Federigo Tozzi, è
perfidia pura: due pagine sgradevolissime, piene solo di disprezzo, tratte non
si capisce da dove. Ancora una volta una antologia mi ha dato più di quanto mi
aspettassi, regalandomi qualche ore di lettura molto istruttiva e ricca di
spunti di meditazione. Ci sarà qualche motivo per cui questa figura di donna
che lavora scatena associazioni mentali deprimenti così radicate che funzionano
a distanza di un secolo e oltre? Che nessuno riesca a ipotizzare che una “maestrina”,
mai chiamata semplicemente maestra, possa svolgere la sua professione e contemporaneamente
avere non dico una vita soddisfacente, ma almeno normale? Che tutti gli uomini
che si accostano alle maestrine siano seduttori senza cuore o zotici puzzoni? Che
accettando la prima nomina si firmi un contratto per l’infelicità a vita, se si
riesce a sopravvivere? Evidentemente gli scrittori davanti a una figura così proverbiale
non si vergognano neanche di fare ricorso ai luoghi comuni più sputtanati e si
abbandonano a uno sfrenato sadismo.
In conclusione, ragazze, mi raccomando non fate le
maestre: e se proprio volete farlo, non venite poi a lamentarvi, vi avevamo
avvertite.
lunedì 14 gennaio 2013
Liliana Lanzardo, Non è il mare il mio nemico
Pubblicato
da Mursia nella collana “Storia, Biografie, Diari” questo densissimo racconto
di vita si autodefinisce romanzo anche se è interamente basato su una vicenda
reale. Si è reso necessario, spiega l’autrice nella nota introduttiva, modificare
alcune circostanze e personaggi per rispettare la volontà della protagonista,
Rajna Dandulova Junakovic, di tutelare la propria vita privata e quella delle
persone che vi si trovarono coinvolte. Tuttavia i dati biografici, i
riferimenti storici, gli avvenimenti di cui si parla, e tutta la parte relativa
alle circostanze del naufragio della Seagull
rispondono a realtà. Liliana Lanzardo, docente universitaria di Metodologie
sociologiche e di Metodologie della ricerca storica a Torino, Milano e Trieste,
tra i fondatori della rivista “Quaderni Rossi”, autrice di numerosi volumi
sulla classe operaia, sulla fabbrica, sulla storia orale, e ora anche autrice
di libri di favole per bambini che illustra con i suoi potenti acquerelli, ha
conosciuto Rajna quando aveva già ottantasei anni e ne ha raccolto la testimonianza.
La vita di Rajna, giornalista radiofonica di professione, nata nel 1914 in Bulgaria,
vissuta poi a lungo in Italia e in seguito in Dalmazia quando c’era ancora la
Jugoslavia unita, rispecchia ed è plasmata dalle vicende storiche degli anni
che attraversa. La prima parte del volume racconta proprio quegli anni, il
grande amore che la lega a Frane, conosciuto in Italia e seguito a Sebenico
alla ricerca di un luogo in cui crescere in armonia la figlia Ljuba, la fatica
di una vita che stenta a trovare pace, l’arresto e la separazione dal marito,
gli anni terribili a Belgrado che nel ricordo diventano poi quasi felici, sullo
sfondo delle contorsioni politiche del secondo dopoguerra. Vi sono pagine e
intense e delicate e ritratti di numerosi personaggi secondari che l’occhio
sempre lucido e attentissimo di Rajna trae dal buio del passato in lunghi
flashback durante il viaggio in cui ha seguito il marito, imbarcato come marconista
su una nave, la Seagull, che batte
bandiera liberiana: Mentre sulla nave
rievocava i giorni inquieti […] a Rajna parve quasi di scorgere nelle creste
delle onde che si rompevano sulla fiancata della Seagull i biancori delle
lettere scritte venticinque anni prima; quei frammenti di spuma si scioglievano
attirati nel buio come fogli che, intrisi d’acqua e appesantiti, andavano a
fondo sfilacciandosi. È il 1974, la Seagull
giunge a toccare le coste marocchine, ma durante la navigazione diventa presto
evidente che la nave è vecchia e assolutamente inadatta, necessita di riparazioni
urgenti. Nella seconda parte si arriva al momento che sconvolge il mondo di Rajna
e la condiziona per il resto dei suoi anni. Dopo che lei è sbarcata,
inaspettatamente la nave, su cui viaggia un equipaggio di trenta persone con la
moglie del Comandante, invece di dirigersi verso i cantieri, parte per un
ultimo viaggio durante il quale se ne perdono le tracce. Per giorni dalla Seagull
non arrivano notizie né è possibile contattarla, nessuno la cerca, finché le
insistenze di Rajna e il ritrovamento di qualche sparso relitto spingono l’armatore
a chiedere di iniziare le ricerche. Da questo momento in poi comincia la guerra
di Rajna contro l’opacità della catena di agenti, armatori, autorità liberiane,
periti e avvocati che porta infine al processo in cui […] con una sentenza che prima di allora nessun collegio di giudici
aveva pronunciato nei confronti di armatori di cargo con bandiera di comodo, si
condannavano al carcere i proprietari per disastro colposo e omicidio plurimo
colposo, con le aggravanti del tentativo di alterare i fatti. Una vittoria
storica che porta, poco più di un anno dopo, all’approvazione della legge, la prima in ambito mondiale,
che disciplinava la professione di raccomandatario marittimo attribuendo piena
responsabilità civile e penale agli agenti che ingaggiavano equipaggi su navi
straniere. Ma Rajna, donna di grande sensibilità sociale e politica,
sincera democratica vivacemente impegnata nel flusso della storia, sa che non
solo per Frane ha combattuto: Il mancato
indennizzo alle vittime del naufragio era per lei la nota dolorosa nella
vittoria comune. Avrebbe ricordato che i marinai degli equipaggi misti delle “carrette
del mare” che battono bandiera ombra, con personale eterogeneo, inesperto, sono
tra i lavoratori meno garantiti e, tra essi, ancor meno lo sono quanti arrivano
dai paesi poveri, da ogni parte del mondo. Un’umanità che nessuno vede, chiusa
nelle navi, che a malapena si affaccia sui moli, e per tutta la vita attraversa
il mondi sui mari, ma che fornisce le merci, fa andare avanti l’economia: gli
schiavi moderni, che restano a qualsiasi condizione, non richiedono aumenti
salariali, protezione sindacale, indennità di malattia e infortuni, pensione,
le cui famiglie non verranno mai risarcite se costoro resteranno vittime di naufragi.
E alla fine del libro rimangono vive nel cuore e nella mente le immagini
della Seagull che rolla e beccheggia,
scricchiola e si lamenta, ormai incapace di tenere il mare, mentre gli
ufficiali non riescono più a nascondere le proprie inquietudini e solo il
Capitano nega che ci siano problemi.
La
foto di copertina è di Dario Lanzardo.
venerdì 11 gennaio 2013
Un nuovo motivo per scaricare questo libro - la copertina!
Finalmente sono riuscita a inserire come copertina dei Racconti fantastici e del margine la bellissima illustrazione che Chiara Negrini ha creato per il racconto "Alessandro il Grande vive e regna" quando uscì sul glorioso Alia - L'arcipelago del fantastico. Vado particolarmente fiera che Chiara, grande artista, abbia illustrato due miei racconti - l'altro è "Resurgam". Motivo di più per scaricare questo libro, e certo un grande piacere per chiunque la possa ammirare.
Adesso inoltre, cliccando sul link qui sopra si può leggere una ricca anteprima: tutto il primo racconto, "Gatta, Topina e Buon Anno". Ovverossia, quel che succede a tre studenti stonati in visita scolastica al Museo Egizio di Torino.
Adesso inoltre, cliccando sul link qui sopra si può leggere una ricca anteprima: tutto il primo racconto, "Gatta, Topina e Buon Anno". Ovverossia, quel che succede a tre studenti stonati in visita scolastica al Museo Egizio di Torino.
mercoledì 2 gennaio 2013
Guardarsi in uno specchio: Christos Ikonomou, Qualcosa capiterà, vedrai
Annunciato
dalla fascetta editoriale come il Faulkner greco, Christos Ikonomou è nato a
Atene nel 1970, ha pubblicato due volumi di racconti e lavora come traduttore
dall’inglese e giornalista. Questa raccolta, uscita nel 2010, che esce molto
tempestivamente per gli Editori Internazionali Riuniti con l’efficace
traduzione di Alberto Gabrieli, ha ricevuto il più prestigioso premio letterario
greco, il Premio nazionale per la narrativa breve. Al di là dell’indubbio
valore letterario fa impressione il tema ossessivamente declinato nei sedici
racconti: la crisi economica, la crisi e ancora la crisi, le sue conseguenze
sugli individui, l’impossibilità di continuare con la propria vita e l’altrettanto
angosciosa impossibilità di inventarne una nuova. Acquavite e sigarette
sembrano gli unici palliativi rimasti, nemmeno l’amore, gli affetti familiari
né l’amicizia possono sopravvivere alla disperazione strisciante, alla
depressione che schiaccia, alla necessità che opprime, alla perdita dei sogni. Con
una scrittura molto ricercata nella sua falsa oralità (si sente parecchio la
lezione dei giovani autori americani, che forse Ikonomou frequenta intimamente
come traduttore) l’autore tratteggia brevi situazioni e personaggi colti in un
momento di intima sincerità che non concede scampo, tutti ambientati nei
sobborghi a ovest di Atene.
Christos Ikonomou è scrittore molto controllato, forse un po’ troppo, il che in certe pagine crea un certo senso di troppo costruito, una mancanza di spontaneità, e questo è il suo limite maggiore; ma forse è inevitabile, se non si vuole cadere nel patetismo che in qualche momento è sfiorato e subito scacciato dalla luce fredda e dalla penombra delle parole sapienti. Nello stesso tempo ha la capacità di colpire senza preavviso con qualche piccolo particolare che non lascia indifferenti: Quella vigilia di Natale al lavoro, in un magazzino di pezzi di ricambio al Korydallòs, dentro risate e canzoni e fuori la neve che copre il mondo e il mondo che brilla bianco e freddo e duro come un’aia di marmo. Così come difficilmente si possono dimenticare i vecchi in coda in una notte di gennaio fuori dal poliambulatorio per riuscire a farsi visitare (Le cose che si portavano appresso) con il loro fuoco acceso in un fusto e i discorsi poveri di parole e gravidi di senso, mentre gli automobilisti che passavano da via Petrou Ralli rallentavano e li guardavano. Ma loro non ci facevano caso. Avevano molto freddo e sapevano che senza fuoco non ce l’avrebbero fatta a passare tutta la notte sul marciapiede. Non gli importava che cosa pensava la gente, avevano altro per la testa. Erano ammalati e assonnati. Erano vecchi. Avevano altro per la testa. O il padre che ingoia chiodi per la vergogna e il dolore di vedere il figlio portato via dalla polizia (I pinguini fuori dall’ufficio contabilità), i vicini che smantellano la recinzione dell’antica casa espropriata per rubare le pietre tagliate (Un pezzo alla volta mi rubano il mio mondo), l’operaio licenziato che vive su una banchina del porto (Per la povera gente).
Ma in realtà ognuno di questi racconti ha una sua necessità nella narrazione delle diverse forme in cui si declina l’umiliazione di chi viene sputato via da una società in cui solo chi possiede il denaro conta, anzi, esiste. Sarà difficile liberarsi da questo ritratto della Grecia di oggi, lo stesso che ci viene continuamente agitato davanti come spettro di quello che potrebbe diventare il nostro ritratto di domani. Quello che lascia il segno, che stringe il cuore, è la mancanza di speranza espressa da questa folla di personaggi tratteggiati, nonostante tutto, con affetto e rispetto. Un libro da leggere e magari rileggere, per non dimenticare che le vittime, quelli che pagano più di tutti, sono sempre gli stessi, e usiamo pure questa parola ottocentesca e politicamente scorretta: i poveri.
Christos Ikonomou è scrittore molto controllato, forse un po’ troppo, il che in certe pagine crea un certo senso di troppo costruito, una mancanza di spontaneità, e questo è il suo limite maggiore; ma forse è inevitabile, se non si vuole cadere nel patetismo che in qualche momento è sfiorato e subito scacciato dalla luce fredda e dalla penombra delle parole sapienti. Nello stesso tempo ha la capacità di colpire senza preavviso con qualche piccolo particolare che non lascia indifferenti: Quella vigilia di Natale al lavoro, in un magazzino di pezzi di ricambio al Korydallòs, dentro risate e canzoni e fuori la neve che copre il mondo e il mondo che brilla bianco e freddo e duro come un’aia di marmo. Così come difficilmente si possono dimenticare i vecchi in coda in una notte di gennaio fuori dal poliambulatorio per riuscire a farsi visitare (Le cose che si portavano appresso) con il loro fuoco acceso in un fusto e i discorsi poveri di parole e gravidi di senso, mentre gli automobilisti che passavano da via Petrou Ralli rallentavano e li guardavano. Ma loro non ci facevano caso. Avevano molto freddo e sapevano che senza fuoco non ce l’avrebbero fatta a passare tutta la notte sul marciapiede. Non gli importava che cosa pensava la gente, avevano altro per la testa. Erano ammalati e assonnati. Erano vecchi. Avevano altro per la testa. O il padre che ingoia chiodi per la vergogna e il dolore di vedere il figlio portato via dalla polizia (I pinguini fuori dall’ufficio contabilità), i vicini che smantellano la recinzione dell’antica casa espropriata per rubare le pietre tagliate (Un pezzo alla volta mi rubano il mio mondo), l’operaio licenziato che vive su una banchina del porto (Per la povera gente).
Ma in realtà ognuno di questi racconti ha una sua necessità nella narrazione delle diverse forme in cui si declina l’umiliazione di chi viene sputato via da una società in cui solo chi possiede il denaro conta, anzi, esiste. Sarà difficile liberarsi da questo ritratto della Grecia di oggi, lo stesso che ci viene continuamente agitato davanti come spettro di quello che potrebbe diventare il nostro ritratto di domani. Quello che lascia il segno, che stringe il cuore, è la mancanza di speranza espressa da questa folla di personaggi tratteggiati, nonostante tutto, con affetto e rispetto. Un libro da leggere e magari rileggere, per non dimenticare che le vittime, quelli che pagano più di tutti, sono sempre gli stessi, e usiamo pure questa parola ottocentesca e politicamente scorretta: i poveri.