Lei coltiva fiori bianchi: intervista a Consolata Lanza
Ma
Lei coltiva fiori bianchi esplora anche un altro tema, non meno
importante: quello del tempo che passa e della sensazione,
incomprensibile a chi è giovane, che ognuno di noi, pur continuando
a imparare, a cambiare, a trasformarsi, resti sempre quello di un
tempo, di quando era «giovane»: medesimi i desideri, che forse
hanno cambiato oggetto ma non intensità, medesime le speranze,
medesima l’aspirazione – sopita ma non dimenticata – alla
felicità. Dentro un corpo diverso, più fragile, più logoro, che
piano piano giunge alla fine, restiamo pur sempre quelli di «allora».
Ed
è proprio in questa frattura fra tempo del cuore e tempo del corpo,
fra il tempo del nostro io e il tempo reale, che trascorre e si
definisce la nostra vita e che noi impariamo ad accettare gli altri e
a sopportare, ad amare perfino, i nostri limiti.
Il
libro di Consolata è un trittico ricco e variegato; il primo racconto è
modulato dai confronti: la giovane Bea e Gloria dalla già lunga
vita, il giardino di Gloria, lussureggiante a giugno e umido e severo
in ottobre, addormentato, sul punto di giungere alla fine; il secondo
si scioglie nello straniamento, in un vuoto vertiginoso e
rasserenante, nel sogno di vite inventate che avrebbero potuto essere
vere; il terzo si affaccia sul timore di concedersi alla felicità,
di perdere tutto e risvegliarsi soli.
Il dialogo che segue è un estratto di quanto è stato detto durante la presentazione del libro organizzata nella libreria della CS_Libri, una serata piacevole arricchita da letture di brani del romanzo da parte di Francesca Maria Rizzotti.
Fiori di catalpa |
Fiori di tiglio |
Però
devo dire che non ho mai pensato a Gloria come una che recita: Gloria
è essenzialmente se stessa, e nell’esserlo pienamente nelle
circostanze diverse della sua vita mia ha interessato come
personaggio. In questi racconti ho cercato di rappresentare due
personaggio che hanno una visione diversissima dell’amore e di come
vogliono condurre la propria vita, e ci riescono ognuna a modo suo.
Nel mio modo di vedere il nucleo è proprio questo confronto fra le
due donne.
S.T. Dicendo che Gloria «recita», che è un personaggio che mette
in scena la propria vita, non intendo dire che finge ma che si adopera
in maniera lucida e consapevole per rispettare un programma di vita:
rendere la vita e l’amore un evento sempre eccezionale. La sua è
una scelta compiuta ogni giorno, ogni volta. Non vuole essere la
moglie quotidiana a fianco della quale ci si sveglia, ma la donna
sempre misteriosa, indipendente.
Frangipani |
S.T. Però in un certo senso Bea ha timore del cambiamento.
C.L. Sì, del cambiamento ha una paura folle, ma soprattutto non ne sente
la necessità. A me Bea non sembra una che si nega alle sorprese.
Anche lei, come Gloria, ha preso delle decisioni che per il momento
hanno prodotto la sua felicità, o serenità, e teme le minacce
dall’esterno. Però io non vedo Bea come un personaggio che vuole
tenere tutto sotto controllo, piuttosto come una persona che in un
determinato momento ha realizzato ciò che voleva nella propria vita
e quindi ha questo timore, ansia, idea che possa sparire da un
momento all’altro. Come dicevi tu all’inizio, il tempo trasforma
tutto, e un momento di perfezione totale non è detto che duri. Non
è un sentimento che abbiamo tutti? Non sappiamo tutti che, malgrado
i nostri sforzi, ci può sempre essere la famosa tegola che ci casca
sulla testa, il terremoto, l’attentato terroristico? È una cosa che
io penso, e Bea non ha bisogno di svegliarsi, ha gli occhi ben
aperti, anzi si guarda attorno e nota persone e cose. Solo, sa che ha
molto da perdere.
S.T. Io trovo che il timore di Bea per la passione, per l’imprevisto,
per una vita eccezionale, coltivati invece da Gloria in maniera un
po’ maniacale, emerga con chiarezza nel terzo racconto, nel quale
si verifica una situazione straordinaria, una perturbazione: la
sparizione della vicina di casa, di un frammento del suo universo.
Sparendo, la donna, le provoca una grossissima insicurezza, alla
quale Bea risponde in maniera interessante da scoprire. Tu pensi che
il suo bisogno di radicarsi e la sua reazione alla sparizione di quel
tassello nel mosaico siano legate?
C.L. La sparizione della vicina non le crea insicurezza, almeno rispetto
alla sua vita, ciò che la agita è scoprire come sia possibile
perdere la propria vita. Qui devo fare una nota personale. L’episodio
narrativo della sparizione della vicina nasce da un episodio reale,
la sparizione, proprio a Torino, di una donna quarantenne; alcuni dei
presenti forse lo ricorderanno. Io, mia sorella e molte amiche
abbiamo vissuto quel caso con molta partecipazione. Ovviamente non ha
minato la nostra sicurezza, non ha colpito direttamente la nostra
vita, ma l’abbiamo seguito con passione. Io guardo sempre Chi l’ha
visto, lo dico senza imbarazzo. Mi inquieta e mi affascina la
possibilità di potere sparire e cancellare la propria vita da un
momento all’altro. Mi affascina perché quando è voluta mi sembra
una cosa a suo modo bellissima. Quello della sparizione è un tema
che ha ispirato libri bellissimi, come Bambini nel tempo di mcEwan e
un romanzo di Gilmore che recensirò a breve. La sparizione è un
evento conturbante e affascinante, nel bene e nel male. Non credo di
poter entrare più che tanto nella psicologia dei miei personaggi,
questo è un vecchio discorso tra noi, perché loro possono fare
soltanto ciò che io gli permetto, quindi… Però la vedo così,
Bea prova paura ma anche fascino per la cancellazione di questa
persona la cui vita l’ha semplicemente sfiorata, la vedeva in tram,
ne conosceva il viso, e poi è sparita. Ci sono anche altre vicende
simili che vede accadere attorno a sé. Io non l’ho intesa come un
timore, ma ciò che il lettore percepisce in realtà sfugge al mio
controllo.
S.T. Mi piace sempre molto discutere con te, scoprire che a volte cogliamo
sfumature simili e a volte differenti. Prima di questa sera ci
siamo scambiate delle idee su Lei coltiva fiori bianchi… Spesso
collimavano ma c’erano alcune sfumature che io vedevo e tu non
vedevi in un certo personaggio, e viceversa. Penso che questa diversità
di vedute sia il sintomo di un libro vivo, vitale, capace di suscitare
sensazioni
differenti, di far dire ai vari lettori «io la vedo così» e «io invece
ci vedo anche questo»… Mi sembra una dimostrazione della ricchezza del
testo, un’ambiguità feconda.
C.L. Prendo questa tua versione benevola come un complimento, in realtà
può darsi benissimo che l’autore non riesca a rendere un
personaggio…
basilica del Bom Jesus, Goa |
C.T. Devo ammettere che in questo caso ho veramente prestato a un
personaggio una cosa mia che mi ha sempre esaltato tantissimo.
Viaggiare da soli come in questo caso Gloria e non essere nessuno.
Quando sei da solo in giro, sei solo tu con il tuo passaporto e un
po’ di soldi, una carta di credito. E basta. Ti presenti alle
persone che incontri con la tua faccia, sei senza storia, senza
background, gli altri non possono che accettarti o rifiutarti per il
tuo vero essere, per ciò che sei. Questo mi è sempre piaciuto da
morire e ho praticato a lungo questa possibilità in passato. Ora non
ho più tanta voglia di viaggiare da sola, ma in passato sì. È
l’esatto opposto del «Lei non sa chi sono io», è invece: «lei
per fortuna proprio non sa chi sono io». Ho prestato questo a
Gloria e lei, più che inventarsi delle vite, si presenta
semplicemente con la propria vera interfaccia. Dà una forza enorme
presentarsi e vivere in questo modo, stabilire rapporti, crearsi dei
rapporti.
S.T. Spendendo solo te stessa…
C:
Spendendo solo te stessa, però scoprendo che non c’è bisogno di
altro.
S.T. Mi è piaciuto moltissimo il brano nel quale Gloria incontra la ragazza francese. Un esempio, davvero liberatorio, della
piccola malevolenza che tu nutri verso alcuni personaggi. Ora vorrei farti una domanda che probabilmente non ti piacerà. Te l’hanno già posta
anni fa, durante una presentazione di un altro tuo romanzo, credo Est di Cipango.
Ti avevano chiesto quale avrebbe potuto essere il futuro di un certo
personaggio. Tu allora rispondesti, e lo comprendo perfettamente: «Non
lo so. Ho visto
soltanto fino a quel certo punto, e fino lì ho scritto. Oltre no, perché
oltre non
ho visto». Te la ripropongo perché sono curiosa… Vedi, a me sembra di
poter intravedere il futuro di
Gloria, potrebbe fare altri viaggi, o magari no, potrebbe non
desiderare più di vedere altra gente o forse incontrare alcuni amici…
Invece Bea mi incuriosisce perché mi è difficile immaginarla «dopo». Mi
piacerebbe leggere di Bea dopo dieci anni.
Pittosporo |
In ogni caso, la sua ricerca, che è quella della maggioranza degli
essere umani, non mi pare mediocre. Non è volere una famiglia che è
mediocre, ma tutto quello che ci sta attorno: la chiusura agli altri
interessi, la miopia, il rinchiudersi egoistico, che mi pare il
personaggio non pratichi. Per passare invece alla domanda specifica…
Io dico sempre che le mie storie finiscono perché io più in là non
vedo, non arrivo. Giunte a un punto morto finiscono lì. Credo che
accada a chiunque scrive storie. In questo caso, il libro stesso è
una risposta. C’è un primo racconto in cui due personaggi
s’incontrano per la contingenza dell’intervista e fanno amicizia.
Si specchiano uno nell’altro e si danno delle risposte. Gli altri
due racconti sono una risposta a quell’esigenza: che cosa accade
all’una e all’altra, nel secondo racconto si segue Gloria e nel
terzo Bea. Come vedi, quando ne sento la necessità vado a vedere
oltre.
S.T. Io ho definito una sorta di trittico questa forma narrativa che
non è propriamente un romanzo. Altre volte hai utilizzato questa
struttura – tre racconti, tre situazioni – ad esempio ne Il gioco della masca, in D’amore e no, in La lametta nel miele…
C.L. In verità io ho pubblicato alcuni libri formati da tre racconti per
puri motivi editoriali. Mi chiedevano: «Hai tre racconti, così
facciamo un libro…». I libri che citavi sono antologie, raccolte,
ospitano tre racconti per motivi di lunghezza, potrebbero essere
quattro o cinque, se fossero più brevi. I racconti possono avere
rimandi interni, ma non hanno niente in comune, come narrazione.
Invece ha la medesima struttura di Lei coltiva fiori bianchi proprio Est di
Cipango, dove nel primo racconto si parla di un personaggio, nel
secondo di un altro che ha incrociato la vita del primo… Anche
Ragazza brutta, ragazza bella è simile, anche se i racconti sono più
numerosi. I racconti di questi libri continuano a esplorare la vita
di personaggi che non si esauriscono in un racconto solo. È una
forma che mi piace moltissimo e che penso di riprendere prima o poi,
anche se gli ultimi due romanzi (inediti) che ho scritto sono del
tutto diversi come struttura. Mi permette di scrivere racconti, che è
la forma narrativa che preferisco, e di riprendere i personaggi se mi
viene voglia di pensarci ancora. Così non mi stufo come mi può
succedere scrivendo un romanzo.
S.T. Parliamo
dei luoghi. Uno dei brani che preferisco appartiene al terzo racconto
ed è il momento in cui Bea attraversa il Ponte della Gran Madre; non
soltanto le tue parole trasportano il lettore esattamente dov’è Bea, ma
esprimono sensazioni che provo spesso, andando a lavorare a
piedi. Questa Torino, che scivola discreta fra i pensieri mentre la
attraversiamo, è forse la meno conosciuta da chi viene da fuori e la
più amata da chi vive qui. Anche in altre tue opere, mostri un legame molto forte con la città e con
la provincia, la Bolzaretto dell’anima, diciamo. In Lei coltiva
fiori bianchi, Torino e i dintorni sono una presenza continua ma
rarefatta: la città traspare poco nel primo racconto, nel secondo è come reinventata da Gloria, è un luogo nel quale
continua a collocare la propria casa e la propria vita; ha invece
una parte importante e molto d’atmosfera nel terzo. Che cos’è
Torino per te?
C.L. È l’ambiente che conosco meglio, che posso descrivere meglio. Io
scrivo sempre di cose che conosco e posti che ho visto perché altrimenti non
riesco a ricrearne l’atmosfera che per me è fondamentale. Poi mi
documento anche, ma solo a cose fatte, per controllare di non aver
scritto cazzate.
Torino, Ponte della Gran Madre sul Po |
C.L. Sì, è verissimo. Per questo non posso scrivere di posti che non
conosco bene, non parliamo di quelli che non ho mai visto. Molto
sovente parto da un odore, un colore o una sensazione da cui nasce un
teatro temporaneo in cui poi si inseriscono i personaggi e infine le
azioni. In questo caso non c’è bisogno di dire che l’origine è
il giardino di Gloria, ma piuttosto dall’esterno che dall’interno,
quelle macchie di vegetazione attorno alle ville antiche che si
vedono certe volte in pianura, circondate da un muro basso a righe
orizzontali. Anche per la scena iniziale della Y10 che corre la mattina
presto… la strada che da Strambino va verso Masino ha
avuto molto peso.
S.T. Un’ultima domanda: mettendo da parte le tue opere dichiaratamente
di genere, come ad esempio i racconti Alessandro il grande vive e regna (Alia
Italia - CS-libri) o Monemvasia (Fata Morgana 7 - CS-libri), l’aura fantastica ha spesso
un posto anche nei tuoi racconti e romanzi più realistici: penso a
certi brani di Irene a mosaico, per esempio. In Lei coltiva fiori bianchi il
fantastico è solo un aroma, dato forse dalle vite inventate da
Gloria in viaggio e dal mistero della sparizione
della vicina…
- Consolata Lanza
- Lei coltiva fiori bianchi
- CS_libri, 2008
- pp. XIV+150, € 14,00
pubblicazione e-book on line: http://www.amazon.com/dp/B0077AWWY8
Questo post è pubblicato per gentile concessione del blog librinuovi-out-of-print
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