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domenica 22 marzo 2009

(Ri)scoperta, Patricia Highsmith

Prima di tutto un ringraziamento all'amica Margherita Giacobino che con la sua passione mi ha indotto a buttarmi nella lettura di Patricia Highsmith, di cui avevo finora letto, credo, solo una raccolta di racconti dal titolo italiano Delitti bestiali. Negli ultimi tempi ne ho letti quattro, Il talento di Mr Ripley, Quella dolce follia, Diario di Edith e Acque profonde, inoltre ne ho comprati tre in inglese e sono lì che mi aspettano. Libri che mi hanno acchiappato come non mi succedeva da tempo, proprio al livello adolescenziale di cadere in un mondo parallelo e vivere le vicende dei personaggi come fossero amici del cuore. In questo senso mi hanno fatto pensare a Ann Tyler, maestra nel raccontare piccole vite in maniera appassionante. Ma a differenza di Tyler, che alla fine ha una visione normalizzatrice e sostanzialmente conformista della vita (sfido a trovare un romanzo che cominci in maniera più esaltante, per qualsiasi lettrice donna, di Per caso, e che finisca in maniera più cocentemente deludente) Highsmith ha un occhio abrasivo e sovversivo. Le sue famigliole perfette non hanno scampo, le sue felicità contengono il verme della follia, i sobborghi residenziali, le casette con giardino, i fiumi di alcol prima e dopo cena, le macchine parcheggiate nel vialetto, i vicini di casa premurosi, tutto quello che abbiamo visto migliaia di volte in migliaia di film e telefilm americani nei suoi romanzi ci viene presentato in una luce illividita e spaventosa. I suoi protagonisti, maschi o femmine, sono personalità borderline, folli ma lucidi e soprattutto infinitamente più simpatici e umani delle persone "normali". Mr Ripley, assassino e ladro di vite altrui, pur essendo un ignobile psicopatico ci trova tutti dalla sua parte, anche più che nel film di Anthony Minghella del 1999, dove aveva la faccia anonima di Matt Damon. La follia di Edith, del Diario di Edith, moglie sfruttata, tradita e abbandonate, madre di un figlio disturbato, utopista illusa e volonterosa, è il frutto delle pressioni che, di nuovo, il mondo dei "normali" esercita su di lei. E Vic, il magnifico protagonista di Acque profonde, ci trova tutti dalla sua parte a seguire il percorso che segue lui, da marito comprensivo, intellettuale, padre, membro autorevole di una comunità di "normali", a pluriassassino, con un'empatia totale, abbracciando le sue ragioni e anzi, con la voglia di incoraggiarlo sulla strada dello sterminio. Le donne comprimarie, in compenso, sono insopportabili ficcanaso, goffe, noiose, terra terra come Susan del Talento di Mr Ripley, o perfide sgualdrine ignoranti e false come Melinda di Acque profonde, o stupide, grevi e assolutamente incapaci di capire come l'amata del protagonista di Quella dolce follia. Mai all'altezza, forse sane ma grossolane, prive di sfumature, banali, stupide, volgari, sempre tra i piedi, e fonte di guai. Puri intralci. E lo sguardo sull'America degli anni '50, quella dell'american dream realizzato, è agghiacciante. Ma la cosa principale è che si tratta di libri divertenti, avvincenti, pieni di sapienza umana – nel senso che Highsmith conosce benissimo l'animo umano, ci vede dentro fino al nucleo più profondo, e quel che vede fa spavento.

domenica 15 marzo 2009

Laura Trossarelli, Eglantine, Alibrè 2008

Di Laura Trossarelli ho recensito Condannate Luigia Sola!, LN-LibriNuovi 44, inverno 2007, perché mi era piaciuta moltissimo la cupa vicenda della nonna dell'autrice, condannata a morte (ma non giustiziata) verso la fine dell'Ottocento per avere fatto uccidere il proprio amante. Libro nerissimo, agghiacciante per gli squarci sulla condizione della donna in ambiente borghese e benestante che proponeva. Non so se è facile da trovare ma lo consiglio ancora vivamente.
Di questo secondo romanzo ero un po' diffidente, temendo che si trattasse di una storia sdolcinata o troppo buonista tirata fuori sull'onda del primo libro. L'ho tenuto lì per un po', poi mi sono decisa e è stata una bella sorpresa. La vicenda di Eglantine (il nome così raffinato e insolito è dovuto a una prima moglie francese del padre) è quella di una donna appartenente alla comunità valdese della Val d'Angrogna, in Piemonte sopra Pinerolo, un po' contadina un po' cameriera di pensione o inserviente di ospizio, povera ma non miserabile, con una vita difficile, due amori, tre figli, molte morti intorno, una grande tenacia e ostinazione a vivere, tra la seconda guerra mondiale e la fine degli anni sessanta. Una vicenda piccola ma non minimalista perché i venti della storia sfiorano anche quella valle piuttosto remota, il mondo cambia anche lì. E uno dei motivi di attrazione è proprio che il mondo descritto, pur così vicino, è ormai scomparso. Le montagne sono spopolate, le frazioni di cui si parla, in cui c'erano scuole, parroci o pastori valdesi, comunità solidali, scambi continui, balli estivi, sono ora (credo, ma non penso di sbagliarmi) paesi fantasma, magari rivitalizzati in estate dai proprietari di seconde case. L'altro è che manca del tutto la nostalgia, il vagheggiamento dei bei tempi che furono, descritti in tutta la loro crudezza e realtà, e insieme senza indugi sugli aspetti più duri. Sono, nelle parole di Laura Trossarelli, la normalità. Io non so nulla dell'autrice, ma si vede che anche se non ha vissuto direttamente quelle durezze, le conosce però dall'interno. I personaggi sono molti e quasi tutti tratteggiati con affetto, colpisce come i loro rapporti interni siano improntati a solidarietà, amicizia, capacità di condividere, attenzione verso i bambini e quelli che si trovano in difficoltà. Molto importante è la connotazione barbetta, cioè valdese, a confronto con i cattolici considerati un po' idolatri, un po' barbari, ma la chiusura tra le due comunità non è rigida.
Anche questo romanzo lo consiglio vivamente, soprattutto a chi ama i romanzi di impianto tradizionale ma senza nessuna concessione ai sentimentalismi e al lieto fine obbligato. Eglantine è un personaggio che convince, portatrice di valori spariti come la civiltà di montagna, stoicismo, controllo delle emozioni, pudore dei sentimenti, dignità, riservatezza. E' un libro molto onesto, avvincente e alla fine rasserenante. La vita, tutto sommato, è sempre più forte delle sventure.

giovedì 12 marzo 2009

AA. VV. M'AMA? Il Poligrafo, 2009

Sottotitolo Mamme, madri, matrigne oppure no. Una gran bella lettura. Ho già confessato la mia insana passione per le antologie che mi porta sovente a comprare e successivamente leggere delle grandissime lamate, inutili, appiccicate con lo sputo a argomenti senza senso, eppure continuo imperterrita perché una bella antologia mi fa felice. E questa è bella, con un livello ottimo, composta da racconti tutti necessari e interessanti oltre che ben scritti e sovente anche originali. Già, perché questo argomento abbastanza scivoloso ha suggerito alle venti autrici altrettanti racconti che sfuggono ai soliti cliché sulla maternità e il rapporto madre-figlia o madre-figli. Nel paese delle mamme non tutto è idillio. E c'è anche chi con coraggio veramente eroico, qui appunto nel paese delle mamme, afferma che non è necessario né indispensabile scegliere di essere madre. I nomi raccolti in questo volume sono davvero importanti, e senza volere fare torti a nessuna citerò Antonella Cilento (anche curatrice insieme a Saveria Chermotti e Annalisa Bruni), Anna Maria Carpi, Rossella Milone, Antonella del Giudice, Antonia Arslan, Emilia Bersabea Cirillo, Francesca Mazzucato, Marosia Castaldi, Lia Levi. Molto sovente in queste storie ci sono intrecci di vite, personaggi molto differenti, come se fosse difficile focalizzare su un solo personaggio un argomento così complesso e universale. Voglio ricordare l'originale e incisivo Bestiario familiare di Antonella Ossorio, dove la ricostruzione del momento della propria nascita attraverso il racconto della levatrice si trasforma nella "bestializzazione" della madre stessa, A casa di Elisabetta Baldisserotto dove i doveri della casalinga, espletati con meticolosa cura, sono contrappuntati da letture di brani filosofici e fantasie di come sarebbe la vita se gli amati familiari morissero, l'inquietante Lo scaffale di Giacomo in cui Anna Toscano attribuisce a una famiglia iperdisfunzionale la scelta estrema di una madre (e non so se abbia scritto prima lei il racconto o si sia ispirata a un analogo episodio avvenuto a Moncalieri qualche anno fa, che ricordo mi aveva colpita moltissimo, come credo abbia colpito tutti quelli che ne sono venuti a conoscenza), l'agretto come il suo titolo Il racconto dei limoni di Antonia Arslan, breve ricordo di una cattiveria infantile nei riguardi della propria bella mamma, il bellissimo Stabat Mater di Emilia Bersabea Cirillo che dà voce con eccezionale efficacia a un personaggio tragico che di solito non arriviamo a conoscere, la madre dell'assassino, Madre nostra che sei nei cieli di Saveria Chemotti in cui ci vuole tutta una vita per digerire un segreto troppo pesante, e riconciliarsi con il passato, il doloroso cammino dell'adozione in Il paese dei bambini di tutti di Elisabetta Liguori, lo sconvolgente, e non riesco a definirlo altrimenti, Una storia da non raccontare di Morena Tartari, che insieme a Cirillo e Toscano va a cercare dietro ai fatti di cronaca la realtà crudele di chi quei fatti li subisce pur non essendo la vittima. Diciamo che le madri non ne escono bene da questo libro se a parlarne sono le figlie. Inadeguate, fredde, anaffettive, egoiste, lontane. Va meglio se parlano in prima persona, ovviamente. Però l'impressione generale è che tra figlia e madre ci sono tanti rancori da tirare fuori, e certe storie hanno l'aria di essere delle rese dei conti abbastanza spietate. Mi sono domandata che cosa avrei potuto mandare io se mi avessero chiesto un contributo. La risposta più immediata è Regina, il racconto uscito sull'ultimo Fata Morgana (che ha per sottotitolo Porte, Passaggi, Varchi, Barriere) dove una figlia–rapace uccide la madre a colpi di becco, oppure un vecchio racconto intitolato Una storia di fantasmi in cui tre figlie uccidono la madre e trascorrono il resto della vita ossessionate dai fantasmi del senso di colpa, o La sposa innamorata, dove una donna partorisce pesci e il marito se li mangia fritti, o Resurgam, in cui è la Dea Madre a risorgere per rimettere a posto i disastri creati dal Dio Padre, e per ricreare, deve prima distruggere... Insomma anch'io ho fantasie poco rassicuranti a proposito della maternità. Però devo dire che ho anche scritto un racconto, Il gioco della masca, in cui una figlia evira il padre e ne viene uccisa. Eppure, giuro, avevo ottimo rapporti con i mei genitori.
Per concludere due osservazioni. Primo, sedici racconti su venti sono in prima persona, qualcosa vorrà dire. Secondo, questo libro dovrebbe essere letto anche dai maschi, e non per motivi didattici o contenutistici, ma solo perché è un bel libro. Però, come ho sentito dire in pubblico da un uomo colto, intelligente, curioso e scrivente mentre presentava il libro di una donna, gli uomini non leggono mai i libri scritti dalle donne. Il motivo mi sfugge e preferisco non indagare. Peccato per loro, però.

sabato 7 marzo 2009

Giuse Lazzari, In viaggio con Tolstoj, da Mosca alla Valle d'Aosta

Domani, 8 marzo, ci sarà alla Cascina Marchesa il tradizionale incontro, in cui sarà lanciato il concorso "Le donne pensano, le donne scrivono", iniziativa biennale del Centrodonna e della 6° Circoscrizione. Nell'occasione verranno letti brani delle donne che frequentano il corso di scrittura creativa tenuto da Claudia Manselli, cui immeritatamente collaboro. Ci sarà una conversazione tra me e Giuse Lazzari, autrice del romanzo In viaggio con Tolstoj, da Mosca alla Val d'Aosta, affascinante trip nella fucina di una scrittrice che apre con generosità a tutti le stanze segrete del suo lavoro.
ecco la recensione.


In viaggio con Tolstoj, da Mosca alla Val d'Aosta, è un insolito romanzo che ha un’anima ibrida e un titolo ingannevole, infatti è pubblicato nella collana di Bibliografie e Saggistica della casa editrice Robin, e dovrebbe chiamarsi In viaggio con Giuse. Si tratta di un vero romanzo, un’indagine apparentemente volta a scoprire qualche mistero mediante strumenti concreti – una scatola preziosa, un vecchio diario, lettere, fotografie – ma in realtà tutta concentrata sull’io narrante, che si può senza rischio identificare con l’autrice, alla ricerca di una parte del proprio passato familiare, quella relativa al padre e alla sua famiglia di origine, in particolare la nonna. La protagonista parte dalla notizia, letta in un opuscolo, di un viaggio di Tolstoj in Piemonte, da Torino a Ivrea alla Valle d’Aosta dove si ferma a Gressoney, confermata poi dalla lettura dei diari dello scrittore. Desiderosa di scrivere un romanzo su questo viaggio, comincia a cercare più informazioni, imbattendosi in una serie di coincidenze – una foto inedita della nipote di Tolstoj che sposò un Albertini trasferendosi a vivere nel canavese, il ricordo dell’acquisto inspiegabile, da parte di suo padre, di una costosa scatola di provenienza russa a un’asta a Ginevra, e soprattutto il fortunoso ritrovamento del diario della nonna paterna che in gioventù trascorse otto mesi a San Pietroburgo al servizio di una famiglia aristocratica – che la spingono a cercare indizi nei ricordi tanto quanto negli archivi, persino a un viaggio fino a Pietroburgo, per ricostruire alla fine il suo rapporto con il padre e la nonna quasi sconosciuta, e contemporanemente fare i conti con la famiglia materna. L’autrice, maestra di digressioni, cerca ostinatamente un nucleo attorno al quale costruire il romanzo, alla fine  lo trova, ma non è certo la cosa più importante: importa lo scavo in se stessa, la ricerca in sé, e lo straordinario resoconto dell’avventura di una scrittura che si costruisce. Alla fine non sappiamo se il romanzo su Tolstoj, di cui alcune parti sono inframmezzate nel testo, sarà scritto. Rimane in ogni caso questa testimonianza davvero insolita, perché è un privilegio poco frequente poter seguire passo passo il lavoro di una scrittrice alla ricerca del suo libro.